di Andrea Sartori

 

Quello di classe è il concetto di cui il pensiero filosofico e sociale contemporaneo è orfano. La lotta contro lo sfruttamento del lavoro e la sofferenza (pàthos, in greco) che tale sfruttamento provoca, infatti, non è più condotta in nome d’una classe di lavoratori in relazione dialettica o antagonistica con il capitale, ma in nome d’un diritto civile alla giustizia sociale, declinata nei suoi vari aspetti. Il miglioramento delle condizioni economico-sociali è posto sullo stesso piano del diritto a un equo trattamento di genere e alla non-discriminazione su base etnica, religiosa, culturale. Il problema del lavoro e l’appartenenza di classe perdono pertanto la loro connotazione marxista e confluiscono nel variegato alveo delle identità influenzate da più o meno distorte relazioni sociali e di dominio. Ognuna di queste identità è da rivendicare a proprio modo, data l’assenza per esse d’una cornice concettuale comune. In altri termini, non v’è – o non vi sarebbe – un ambito economico sottostante a condizionare quelle identità: identità dei propri corpi e delle proprie tradizioni culturali, identità religiose e identità legate a uno specifico gruppo sociale o etnico storicamente sottoprivilegiato e negletto dalle istituzioni.

 

È tuttavia lecito chiedersi se la coppia lavoro/capitale davvero non svolga più alcun ruolo di primo piano nel determinare le condizioni di vita di ciascuno. A quest’interrogativo si potrebbe legare un altro quesito: la nozione tecnico-operativa e sociologicamente delimitata di classe è scomparsa perché ha perso importanza o perché, all’opposto, se ne è inflazionato a dismisura il significato, al punto da renderlo non più circoscrivibile, e pertanto invisibile per eccesso (e non per mancanza) di diffusione?

 

Beninteso, nei termini dell’operaismo degli anni ’60, parlare di una ‘classe diffusa’ era un controsenso. Mario Tronti – fondatore della rivista classe operaia (1964-1967) e autore di Operai e capitale (1966) – nel 2008 scriveva chiaramente che quarant’anni prima gli operai erano in lotta, “in fabbrica, contro il padrone diretto” (“Noi operaisti”, L’operaismo degli anni Sessanta. Da ‘Quaderni rossi’ a ‘classe operaia’, a cura di G. Trotta e F. Milana, Roma, DeriveApprodi, 2008, p. 7). Lottare, in altri termini, era possibile solo nel perimetro della fabbrica fordista, e solo contro un nemico ben definito, “il padrone diretto”, non una lontana e sfuggente élite di potere dai contorni indeterminati, come può essere l’elusiva proprietà d’una multinazionale tecnologica o finanziaria. Con la crisi già negli anni ’70 della fabbrica fordista – intesa innanzitutto come luogo, come spazio fisico – l’esperienza della lotta di classe non ha più potuto essere vissuta, teorizzata e scritta allo stesso modo. Per dirla con Antonio Negri, l’operaio massa è stato sostituito dall’operaio sociale, ovvero da un lavoratore il cui luogo è la società in quanto tale, la rarefatta sfera di circolazione di denaro, strumenti finanziari, conoscenza, informazioni e immagini (Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Verona, ombre corte, 2007). Come ha scritto Dario Gentili, l’operaio sociale non può più identificare un nemico diretto per motivarsi a lottare (Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 62-63).  Sono semmai le nozioni marxiane di general intellect e mercato mondiale (Grundrisse, 1858) ad avere un’attualità ora negata alla classe, entrambe infatti sembrano essere diventate una realtà nell’epoca del capitalismo ‘immateriale’ e globalizzato della conoscenza. Da qui, osserva Gentili, l’insistenza di Negri sul tema dell’autovalorizzazione del lavoratore: le risorse per lottare vanno trovate in se stessi poiché non scaturiscono – per reazione – dalla protervia del padrone della fabbrica, né dalle condizioni di vita della fabbrica stessa, quale spazio produttivo ritagliato dalla sfera sociale.

 

Addio alla classe, dunque, o almeno a una nozione di classe come qualcosa di ‘chiaro e distinto’, confinato in uno spazio ad hoc, nel quale il metronomo fordista della fabbrica scandisca il ritmo regolare ma forsennato della produzione.

Tuttavia, i vissuti di sofferenza, sfruttamento e alienazione caratterizzanti il lavoro non sono scomparsi, per quanto ‘immateriale’ sia divenuta l’economia. Il romanzo di riferimento del post-fordismo italiano, La vita agra di Luciano Bianciardi (Milano, Rizzoli, 1962) sta da tempo a testimoniarlo. Ragionando poi per immagini, nel film del 1971 La classe operaia va in paradiso, Elio Petri metteva in scena precisamente l’affaticamento fisico e mentale del protagonista interpretato da Gian Maria Volontè, il suo ottundimento cognitivo e il suo burnout emotivo. Come non riconoscere in quell’esaurimento psicofisico, mutatis mutandis, la condizione di tanti precari di oggi, vulnerabili ed esposti a innumerevoli incertezze, rischi e umiliazioni, necessitati a lavorare senza orari, senza chiare linee di demarcazione tra tempi (e luoghi) di lavoro e tempi (e luoghi) privati, a fronte d’un welfare state collassato? Già secondo Leonard Pearlin (“The Sociological Study of Stress”, Journal of Health and Social Behavior, 3, 3, 1989, pp. 241-256), tra i principali social stressor cronici erano incluse le incertezze al lavoro. In linea con i risultati della ricerca di Pearlin, Nicola Lagioia, nel romanzo La ferocia (Torino, Einaudi, 2014, p. 69), parla di “lotta per la sopravvivenza”, e quindi di darwinismo sociale, per descrivere la condizione lavorativa e la disperazione delle nuove generazioni. Condizione e disperazione proprie della nostra società caratterizzata da un’economia neoliberista alla quale, come sosteneva Margaret Thatcher riprendendo un’espressione del sociologo Herbert Spencer – il teorico del survival of the fittest – paiono non esserci alternative (sull’origine dello slogan There Is No Alternative, si può leggere, di Gentili, Crisi come arte di governo, Macerata, Quodlibet, p. 76). D’altra parte Paolo Valesio, riflettendo nel 1978 sulla propria esperienza di studioso espatriato nel nordest degli Stati Uniti, nel primo romanzo da lui scritto equiparava New York a un ospedale, a uno stato di natura ambiguamente civilizzato in cui “l’uomo è lupo all’uomo direttamente, brutalmente” (L’ospedale di Manhattan, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 38). Andrea Cavalletti, qualche anno prima di Lagioia, ha proposto invece di riesumare il concetto di classe tracciando per esso una genealogia diversa da quella marxiana. Egli trova nel materialismo messianico di Walter Benjamin, infatti, un concetto di solidarietà che trasforma la folla indistinta, chiassosa e violenta di Gustave Le Bon in classe (Classe, Torino, Bollati Boringhieri, 2009).

 

È però sufficiente ripensare la classe alla luce della mera solidarietà? Non è questa un’idea troppo vaga e astratta, priva di quelle caratteristiche concrete e tecniche, che la sociologia marxiana del lavoro invece presentava?

Per rispondere a queste domande e provare a porre un’alternativa (senza la pretesa di definirla in modo preciso), propongo uno scarto concettuale, uno spostamento semantico, che certo suoneranno come una provocazione. D’altra parte, il titolo di questo contributo, con i suoi apici (‘classe’) e il suo punto interrogativo, rivela l’atteggiamento di chi, dopo aver gettato il sasso nello stagno, ritira la mano per nasconderla. In ogni caso la provocazione potrebbe essere non del tutto insensata nella misura in cui offre, se non altro, del materiale per stimolare l’immaginazione sociologica (Charles Wright Millls, The Sociological Imagination, Oxford, Oxford University Press, 1959).

 

Ecco allora lo scarto, lo spostamento: dal lavoro alla salute, dalla fabbrica al dolore che, scomparsa la fabbrica (cioè mutato il lavoro), permane.

Negli anni più recenti, è la sociologia della salute ad affrontare in maniera risoluta quei vissuti di sofferenza e vulnerabilità, intrecciati alla questione del lavoro in un contesto neoliberista, a cui ho fatto riferimento poco sopra. Il libro di Veronica Moretti Sociologia del paziente. Diseguaglianze sociali, salute digitale e nuove forme di partecipazione in sanità (Milano, FrancoAngeli, 2020), presenta un sintetico stato dell’arte a proposito della health sociology, ma solleva anche delle questioni sostanziali in merito a disuguaglianze e salute, tecnologie digitali e capitale, in un mondo in cui soffrire d’una patologia fisica o mentale sembra essere divenuto un lavoro che produce, per iniziativa o necessità degli stessi pazienti, dei big data ambiti dalle corporations per stimolare l’economia. Come si evince dal titolo del volume, l’autrice inquadra questi temi adottando la prospettiva del paziente, non tanto quella della malattia. Il focus è quindi su chi, in carne e ossa, fa l’esperienza della salute e della malattia, e si misura con le difficoltà e le contraddizioni della propria agency di paziente, ovvero con il problema dell’autovalorizzazione, per riprendere il termine di Negri e trapiantarlo in un contesto apparentemente diverso. È una prospettiva, chiaramente, alla quale nessuno di noi si sottrae, essendo il patire e il reagire del paziente inscritti nella possibilità stessa dell’esperienza umana e del corpo (nella potentia di quest’esperienza, potrebbe dire il Negri interprete di Spinoza – L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981).

 

 

Non a caso, Moretti riflette sulla formazione di biologo e sull’aspirazione iniziale a fare il medico del sociologo funzionalista Talcott Parsons, il fondatore – tramite il ruolo “deviante” del paziente nella relazione dicotomica con il medico – della health sociology (Capitolo 10 di The Social System, Glencoe-Illinois, Free Press, 1951). In questo contesto, e appoggiandosi alla ripresa critica del lavoro di Parsons svolta dal sociologo britannico Simon J. Williams una quindicina d’anni fa, Moretti evoca il tema della vera e propria “vulnerabilità ontologica della corporeità” (p. 60). Su un argomento simile, ricorda Moretti, si sofferma Guido Giarelli nel suo libro dal titolo eloquente Sofferenza e condizione umana: per una sociologia del negativo in società (Soveria Mannelli, Rubettino, 2018), un testo che tra le altre cose ha il merito d’affrontare l’opera e la vita di Irving Kenneth Zola (1935-1994). Questi era uno studioso americano di sociologia medica e un attivista per i diritti dei disabili, una figura per certi versi affine a quella forse più nota di Ivan Illich (1926-2002), l’autore di Nemesi medica (1976) che introdusse in sociologia il termine iatrogenesi per indicare gli effettivi negativi, sulla qualità della vita, della medicalizzazione errata o eccessiva.

 

Il rilievo che da più fonti viene così dato alla vulnerabilità e alla sofferenza dell’essere umano, indica che a una sociologia della salute che sia attenta, come nel caso di Sociologia del paziente, alle disuguaglianze, sta in fondo stretta la cornice teorica del funzionalismo. Nella società americana degli anni ’50, nel mezzo del boom economico in cui scriveva Parsons, infatti, la malattia era vista come null’altro che un ostacolo alla produzione, come una devianza rispetto alle norme che erano funzionali al mantenimento del sistema sociale (Antonio Maturo, Sociologia della malattia. Un’introduzione, Milano, FrancoAngeli, 2007). È vero che, per certi versi, anche nella nostra società della prestazione (Federico Chicchi e Anna Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017), la malattia è un impedimento che limita la performance produttiva di ognuno, ma – come ho accennato – le strategie neoliberiste concernenti la medicalizzazione della vita sono oggi molto più scaltre d’un tempo, e riescono a capitalizzare e a sfruttare la malattia stessa anche con l’ausilio delle tecnologie digitali, ad esempio tramite i big data. Un malato connesso per curarsi è già ambiguamente integrato nella società – è già un malato al lavoro, privo però d’un salario che lo ripaghi della cessione dei dati – senza che intervenga la guarigione a riequilibrare il sistema sociale turbato dalla devianza della patologia. Per dare alla sociologia della salute un significato critico, se non militante, che sappia rendere conto del presente, occorre quindi guardare altrove, non al funzionalismo di Parsons. È in questo quadro che entrano in gioco Michel Foucault da un lato e, dall’altro lato, in aggiunta a quanto sostiene Moretti, l’attenzione di matrice marxista al rapporto tra lavoro e capitale, soprattutto laddove si parla dell’origine delle disuguaglianze.

 

Foucault, intanto, va ricordato per l’attualità, nel nostro contesto neoliberista, del paradosso espresso nel terzo volume (La cura di sé, 1984) della Storia della sessualità.  In sintesi: per Foucault siamo dei soggetti nella misura in cui noi stessi, volenti o nolenti, ci assoggettiamo a delle pratiche di dominio. Su lavoro e capitale tornerò tra poco.

Nell’essere al lavoro in virtù della malattia e non nonostante essa, v’è infatti tutta l’ambivalenza e la contraddizione della foucaultiana cura di sé alla luce del rapporto tra digitale e salute (digital health). Il paziente si ‘digitalizza’, innanzitutto, per curare se stesso e, a volte, per concorrere all’innovazione o alla creazione d’un servizio sanitario che ripari una mancanza o un’ingiustizia sociale (sulla co-creazione, ‘dal basso’, di servizi per la salute, si veda il Capitolo 3.4 di Sociologia del paziente, “La co-creazione in sanità come forma di partecipazione sociale”, pp. 74-79). In terzo luogo il paziente, più o meno consapevolmente, fornisce delle informazioni su di sé, che però sono fondamentali per lo sviluppo delle tecnologie che egli usa e del business a esse correlato.

 

Quella della ‘classe’ diffusa dei pazienti – della moltitudine dei pazienti, parafrasando ancora Negri – è pertanto un’agency decisamente problematica, anche perché, sottolinea più volte Moretti, alla responsabilizzazione del paziente rischia di corrispondere una deresponsabilizzazione della sanità pubblica e dello Stato (il caso americano riguardante la privatizzazione della cura è emblematico di questo rischio).

Il self-tracking sanitario, da tale punto di vista, fa precipitare in quel pronome riflessivo – nel – tutti i pericoli e le opportunità (tutte le contraddizioni) della medicalizzazione capillare della vita, del bíos.  “Siamo tutti potenziali self-tracker: basta utilizzare un’app per correre o per controllare i passi sullo smartphone” (Sociologia del paziente, p. 91), o ancora per auto-monitorare tramite l’accumulo e la comparazione di dati il diabete o l’obesità, ad esempio. Tuttavia, in queste pratiche di quantificazione del sé, che riguardano non solo il benessere fisico ma anche la salute mentale (vi sono app che quantificano pure l’eventuale disturbo bipolare degli individui), noi non esercitiamo semplicemente la nostra libertà di autodeterminarci (Antonio Maturo, Luca Mori, Veronica Moretti, “An Ambiguous Health Education: The Quantified Self and the Medicalization of the Mental Sphere”, Italian Journal of Sociology of Education, 8, 3, 2016, pp. 248-268). Nel divenire “imprenditore di se stesso”, come s’esprimono Maturo, Mori e Moretti, il self s’assoggetta a una logica neoliberista del consumo. In altre parole, “i principi del marketing vanno ad applicarsi a una serie di aspetti rimasti ‘immuni’ fino a qualche tempo fa dalle logiche del business: emozioni, prestazioni, fisicità e sentimenti” (Sociologia del paziente, p. 91). È così che opera il general intellect nell’epoca del There Is No Alternative. Un certo tipo di dispositivi indossabili (wearable devices), inoltre, indica come sia ormai caduta la linea di confine tra due ambiti all’apparenza distanti: tra fashion e health. Nike, e la maglietta Polo Tech creata da Ralph Lauren, ad esempio, commercializzano sensori da inserire rispettivamente sotto la suola delle scarpe e l’abbigliamento sportivo. Il corpo (e la mente) del sé sono quindi il campo di battaglia – il terreno di lotta, si potrebbe dire – tanto delle strategie corporate quanto delle spinte a una sempre più ambivalente autovalorizzazione di individui esposti alle vulnerabilità della vita. In quest’ottica, curarsi significa lavorare per le corporations e, in certa misura, ribellarsi a esse, se non altro perché si punta a quella guarigione che limiterebbe l’intrusione di certi prodotti nelle nostre vite (ammesso che vogliamo sbarazzarcene davvero, il che non è affatto scontato). Come sintetizza Moretti in conclusione del suo lavoro, “il paziente, paradossalmente, risulta essere allo stesso tempo sempre più competente e frastornato, responsabilizzato e indebolito, autonomo e vincolato” (p. 123).

 

Che tipo di soggetto è questo paziente, ci si potrebbe chiedere? L’autonomia, infatti, è sempre stata il segno distintivo del soggetto moderno e liberale. Nel nostro caso, tale autonomia non è semplicemente cancellata, è invece paradossalmente vincolata a dei dispositivi di controllo. In un diverso contesto d’analisi, quello della formazione d’una Italia moderna tra gli anni dell’Unificazione e dell’avvento del fascismo, Suzanne Stewart-Steinberg ha parlato d’un soggetto post-liberale (L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità, Roma, Elliot, 2011). Negli anni dello sviluppo in Italia d’una cultura positivistica – si pensi, ad esempio, alla ‘biometria’ del corpo elaborata, tra gli altri, da Cesare Lombroso – per Stewart-Steinberg la metafora-guida utile a comprendere il soggetto della complessa modernità italiana, è rappresentata dal Pinocchio di Carlo Collodi. Quello di Pinocchio, infatti, non è un Bildungsroman lineare, ma un percorso accidentato d’indomita irrequietezza. In esso, si palesano un bisogno di autonomia e, allo stesso tempo – senza possibilità di conciliazione dialettica (hegelo-marxista) tra i due termini – un bisogno di direttive, di assoggettamento (a Mastro Geppetto, a Mangiafuoco e alle altre figure normative del racconto). In maniera non troppo dissimile, il paziente di cui scrive Moretti – “autonomo e vincolato” – sembra incarnare oggi il paradosso post-liberale di Pinocchio, mettendo in dubbio gli imperativi del consumismo neoliberista, senza però poterli efficacemente contrastare.

 

Il non avere accesso ai dispositivi della salute, infatti, implica e sempre più implicherà anche l’avere meno benessere, meno chance di guarigione, meno possibilità di prendere parte a progetti di co-creazione in ambito sanitario, perfino meno opportunità di vedere riconosciuta la propria malattia, se questa non rientra ancora nelle categorie nosografiche esistenti (è il caso, ad esempio, della contested illness per eccellenza, la Sindrome della Guerra del Golfo, Sociologia del paziente, pp. 47-51). Dal punto di vista della digital health, il paradosso è proprio questo: non avere accesso alla salute digitale comporta disuguaglianza e, allo stesso tempo, accedervi espone a un’indebita medicalizzazione a scopo commerciale.

 

La disuguaglianza è il tema ‘militante’ del volume di Moretti e a me pare che l’origine delle disuguaglianze in ambito sanitario abbia ancora a che fare – seppur in una nuova costellazione di significato – con la coppia lavoro/capitale. Ciò va detto, però, contro quel che l’autrice sostiene quando definisce la metodologia della propria ricerca. Moretti in apertura del volume dichiara d’adottare la prospettiva intersezionale dell’antropologo medico Paul Farmer (AIDS and Accusation: Haiti and the Geography of Blame, Berkeley, University of California Press, 1992). Secondo questa prospettiva, inizialmente diffusa tra studiose afroamericane come Kimberlé Williams Crenshaw e Patricia Hill Collins, gli individui non sono tutti espositi in egual misura alle malattie, poiché a pronosticare tale esposizione interviene una stratificata molteplicità di cause, che a loro volta individuano altrettanti ambiti di disuguaglianza: fattori sociali come livello d’istruzione, genere, ethnicity, scarsa coesione sociale, e fattori economici. È in questo modo che le molteplici identità di una società complessa come quella americana – un tema a cui alludevo all’inizio di questo articolo – dischiudono i numerosi ambiti simultanei e tra loro intrecciati della giustizia sociale.

 

Tuttavia, quando Moretti riporta i risultati della ricerca di David R. Williams (“Miles to Go Before We Sleep: Racial Inequities”, Journal of Health and Social Behavior, 53, 3, 2012, pp. 279-295), nota che, sebbene gli uomini bianchi vivano in media 5 anni in più di quelli di colore, la differenza più grande circa l’esposizione alle malattie si registra all’interno degli stessi gruppi in base allo status socio-economico (SES): “cittadini di colore con un alto status socio-economico vivono circa 7.1 anni in più della controparte povera, a differenza dei bianchi che hanno un divario di circa 6 anni in più” (Sociologia del paziente, p. 30). Analogamente, Janet K. Shim mostra che individui con un basso SES sono maggiormente sprovvisti di conoscenze biomediche, e meno inclini alle pratiche di auto-sorveglianza, di controllo dei rischi e di mantenimento dei processi decisionali legati al benessere individuale. Questi individui sono in altri termini meno attrezzati, secondo Shim, sotto il profilo di un capitale particolare, il cultural health capital (“Cultural Health Capital: A Theoretical Approach to Understanding Health Care Interactions and the Dynamics of Unequal Treatment”, Journal of Health and Social Behavior, 51, 1, 2010, pp. 1-15). Inoltre, a proposito della già menzionata co-creazione di servizi sanitari, Moretti osserva che tra le principali difficoltà che ostacolano la strategia co-creativa v’è la non equa distribuzione di capitale culturale tra i cittadini, un capitale a suo volta condizionato dal SES (p. 79). Un discorso simile vale per il rapporto tra reddito e disponibilità di quei dispositivi digitali che ho ricordato a proposito del self-tracking. Questo fatto, osserva Moretti, ha “invertito alcuni paradigmi per cui i successi legati a interventi sanitari non si misurano più su gruppi con un basso SES, ma al contrario tra coloro che hanno un SES molto alto” (p. 101). L’esclusione dalla cura, a questo punto, è un pericolo alimentato – e non contrastato – dallo sviluppo della digital health, la quale per ragioni principalmente economiche finisce per discriminare tra vita degna d’essere curata (o addirittura vissuta) e vita che non vale la pena curare (e salvare dalla morte) – ovvero i due tipi di vita, gli aristotelici bíos e zoē, che tanta importanza hanno nel pensiero di Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995).

 

Se Friedrich Engels è stato forse il primo a mettere in rilievo che differenti condizioni sociali hanno un diverso impatto sulla salute (La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845), è pur vero che oggi il riferimento alla “classe operaia” suona desueto. Tuttavia, a fronte dei nuovi modi d’essere al lavoro, e delle trasformazioni del capitale, l’economico svolge ancora un ruolo centrale nel determinare le condizioni di vita di ciascuno di noi, incluse le chance di salute. È su questo terreno, in parte mutato ma in parte rimasto identico, che si può tentare d’innestare un mix di marxismo post-fordista, per così dire, e di suggestioni foucaultiane (un mix scandaloso, certo, ma tant’è, data la natura di provocazione di quest’intervento).

Le implicazioni che ho descritto del self-tracking, a dispetto delle loro apparenze distopiche, sono estremamente reali. Sembra in ogni caso che, in quello che è stato definito anche “capitalismo di sorveglianza” (Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, New York, Public Affairs, 2018), la vera “lotta titanica”, in ultima analisi, sia “tra il capitale e ognuno di noi” (Sociologia del paziente, p. 118).

 

Chi sono questi “noi”? Una ‘classe’ di pazienti, s’è detto. O anche, prendendo a prestito l’espressione da Homo sacer di Agamben, una “corte dei miracoli” composta da stressati, obesi, diabetici, pazienti oncologici, sofferenti di fibromialgia, dolori mestruali, malattie non riconosciute e quant’altro la health sociology prende in considerazione, delineando il ritratto della nostra ‘nuda’ umanità addobbata di wearable devices. Un’umanità che desidera vivere una vita non necessariamente identica a quella prospettata dall’assicurazione inglese Vitality, con il suo braccialetto creato in accordo con Apple per sole 29 sterline, purché si decida “di rimanere in ‘attività’ [ovvero di lavorare per il solo fatto di respirare] con uno stile di vita sano al fine di accumulare punti Vitalità” (Sociologia del paziente, p. 119). Entro questa prospettiva, lottare contro l’intrusione pervasiva e soffocante del biopotere in un contesto neoliberista, vorrebbe dire opporre resistenza all’unilaterale ed esorbitante medicalizzazione della vita.

 

[Immagine: Elio Petri, La classe operaia va in paradiso (1971)].

1 thought on “Se siamo una “classe” di pazienti

  1. Interessante: così un passaggio da tutti sfruttati nelle poche mani del capitale a tutti malati nelle mani di una onnipotenza medica. E di quelli che, vecchi come me, ci ostiniamo a vivere sani e con pensione, eredità di altre ere politiche – e senza cedere al virus – che se ne farà? Abbatterli direttamente con cannonate nei boulevards, come in quell’altro passaggio di epoca, 150 anni fa?

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