di Mario Farina
C’è una serie televisiva, disponibile sulla piattaforma Netflix, che sta facendo il pieno di elogi da parte dei commentatori. La serie si intitola La regina degli scacchi e la fortuna di cui gode è un buon punto di partenza per inquadrare una tendenza via via sempre più evidente: la crisi della serialità, strettamente connessa all’assenza di una cornice di critica televisiva che ne espliciti i meccanismi. Sembra paradossale parlare di crisi della serialità in un momento in cui “tutti guardano serie”. Ma è un punto a cui bisogna arrivare con calma e che, tra le altre cose, chiama in causa la consistenza di quel “tutti”. Ed è sempre la consistenza di questo “tutti” a determinare la difficoltà di produrre un discorso critico in un contesto nel quale la critica tende a essere indistinguibile dal merchandising: prosecuzione del godimento del prodotto anche successivamente al suo effettivo consumo.
Tutti sappiamo che da qualche parte sul maggior network a pagamento italiano va in onda una serie Tv con la regia di Luca Guadagnino. Qualcuno ne conosce il titolo (We Are Who We Are) e altri hanno una seppure generica nozione del soggetto (la storia di due adolescenti americani che vivono nella base militare di Chioggia nel 2016). C’è una vaga percezione che ci sia questa serie importante e che, in un modo o nell’altro, tutti la vedano. Nella realtà, in termini di numeri televisivi, la seria non l’ha vista più o meno nessuno. La prima puntata ha fatto un numero di spettatori che si conta in decine di migliaia, battuta da qualche trasmissione sportiva su canali locali e da alcune televendite di attrezzi per diminuire la massa grassa. Qualcosa di simile accade con Il racconto dell’ancella: ogni qual volta viene inscenata una protesta sfruttando i costumi della serie, coloro verso i quali la protesta è diretta, di regola, non sanno leggerne il codice estetico. Il segreto di Pulcinella è che le piattaforme, Netflix in testa, non rilasciano i numeri reali e, al di là di qualunque giustificazione sul fatto che i numeri contino poco di fronte alla brand awareness, nessuno li nasconde, se sono buoni. Temo che i “tutti” spettatori di Stranger Things sarebbero sopresi da un confronto numerico con i “tutti” spettatori di Maria De Filippi.
Le serie Tv hanno avuto una notevole crescita nella percezione collettiva per una serie di ragioni che hanno a che fare con la fruizione, con il consumo della fruizione e con il particolare valore posizionale che il consumo culturale ha assunto anche grazie al ruolo dei social network. Si sente spesso indicare una cesura quando si parla di serie televisive. Questa cesura, grossomodo, è identificata con Lost, la serie ABC del 2004-2010. Mi è capitato di sentirmi rispondere “certo, X-Files, ma io intendo le serie quelle nuove, tipo Lost”. Tagliando con l’accetta, si tratta di serie che si distinguono dalle precedenti per la rigida continuità narrativa e la rinuncia all’autoconcusività delle singole puntate. Ovviamente, questa non è una novità. Prodotti di questo genere sono sempre esistiti: sono i teleromanzi e le soap opera, in cui una puntata termina con un cliffhanger spietato che impone allo spettatore di ritrovarsi il giorno seguente sullo stesso canale alla stessa ora. Il cliffhanger è sempre stato considerato un espediente piuttosto dozzinale, artificioso, per legare lo spettatore alla trama. Nulla di nuovo, nulla di speciale. A un certo punto, è diventato la cifra stilistica delle serie televisive quelle nuove, che appunto hanno iniziato a fare a meno dell’autoconclusività.
Qual è la ragione? Probabilmente, sono molteplici. Una di queste ha senza dubbio a che fare con le modalità di consumo. Non è un caso che Lost abbia guadagnato un posto di rilievo proprio in coincidenza con la massificazione del download. La trama continua, la struttura a cliffhanger, si adeguava alla perfezione a una fruizione massiva on demand: qui e ora, dove voglio, quando voglio, quanto voglio. Spettatore come consumatore sovrano che fruisce del proprio bene con la continuità e la quantità che lui stesso desidera. Il binge watching è questo: coazione della gratificazione generata da un consumo ritagliato sul consumatore.
Un’altra ragione ha a che fare con la struttura emotiva in cui la fruizione continua si inserisce, che è quella della gestione dell’ansia. L’ansia sociale della generazione che si è identificata con le serie Tv – precariato, mancato guadagno, incertezza, sfiducia istituzionale – viene scaricata sulla trama continuativa e da questa dinamica discende il terrore per lo spoiler, che potrebbe appunto rovinare e bloccare lo spostamento dell’ansia individuale sull’ossessione compulsiva del consumo seriale.
Si può poi pensare al meccanismo della distinzione, amplificato e distorto dai social network. La percezione di un “tutti” che comprende esclusivamente i propri contatti tende alla condivisione affettiva dei propri consumi culturali: consumo prodotti eccellenti assieme a persone eccellenti che consumano prodotti eccellenti. Il gioco della distinzione di Bourdieu non è giocato nel contraltare di apparati istituzionali (scuola, università, stampa, cinema, televisione), ma nei confronti dei singoli, esasperando così omogeneità e contrapposizioni. Ed è in questa dinamica che si inserisce la deviazione della critica in merchandising: una gigantesca e collettiva pacca sulla spalla che rassicura dell’eccellenza dei propri consumi. Una ricerca interessante sarebbe quella di mettere in parallelo questo discorso con le recensioni su Amazon o TripAdvisor.
In questo contesto, la crisi della serialità televisiva si esprime come crisi non soltanto numerica, ma anche, e forse soprattutto, contenutistica. Avevo iniziato promettendo di parlare di un prodotto particolare, La regina degli scacchi. La serie, dicevo, ha fatto incetta di elogi e plausi, che a mio modo di vedere sono cartina al tornasole di un serio problema qualitativo. Chiariamoci, la serie è ben recitata (anche se qualche dubbio sulla macchietta può legittimamente sorgere), è ben girata (c’è ancora qualcuno che gira male?) ed è confezionata come si deve (e dove si trovano le serie fatte con due soldi?). Ma è un prodotto mediocre a livello di costruzione e decisamente disonesto a livello narrativo.
Mediocre. Ora, la trama è più o meno la stessa di Karate Kid: la giovane sprovveduta su cui non scommetterebbe nessuno incontra un carismatico e burbero maestro emarginato. Lui, controvoglia, le trasmette una scintilla che lei saprà far crescere grazie al suo talento, battendo tutti. Questo è quanto: ennesima versione del racconto dell’eroe. Nulla di male, intendiamoci. È un prodotto che intrattiene e funziona. Certo, lo si sarebbe potuto dire in due ore, ma in fin dei conti nulla di male.
Ma a differenza di Karate Kid, in La regina degli scacchi fa un passo oltre: il finto biografico. Ed è qui che scade nel disonesto. Non è una sensazione personale e nemmeno ricade nell’aneddotica dei conoscenti. È la presenza di articoli che si premurano di dire: “attenzione, non è biografico” a svelare il trucco. Come storia di finzione, La regina degli scacchi ha davvero poco di interessante: il classico viaggio dell’eroe, con una trama che sta sul retro di un francobollo. L’interesse lo suscita nello spettatore nel momento in cui questo slitta, inconsapevolmente, dall’impressione di verosimiglianza a quella di verità. Sarebbe interessante, La regina degli scacchi, se fosse vera. Se fosse vero che un’orfana dell’America profonda si è fatta strada negli Stati Uniti degli anni Sessanta grazie al genio del proprio talento. Ma non è così. E il trucco sta tutto nell’ambientazione storica: non casuale (King, Kennedy, la nuova frontiera) e non neutrale. Ambientata oggi, passerebbe inosservata.
Come mai allora un prodotto di questo livello, che gioca sporco sul lato emotivo per nascondere una trama scritta con la mano sinistra di un algoritmo, viene elogiato dai commentatori? Una risposta definitiva, ovviamente, non ce l’ho. Ma ho l’impressione che abbia a che fare con una crisi profonda della scrittura seriale. Un prodotto che ha fatto la propria fortuna sull’appagamento del consumo individuale, sulla gestione dell’ansia sociale e sull’identificazione tra sé e il proprio consumo culturale era probabilmente destinato a costruirsi la propria crisi: il confronto con la realtà risulta impietoso. Allora, si potrebbe pensare, è più semplice fare come La regina degli scacchi: rassicurare il pubblico che la realtà assomiglia a una serie banale. E dall’altra parte, dove ci dovrebbe essere la critica, ci sono i commentatori, per nulla immuni dal gioco dell’identificazione con il proprio consumo: consumo un prodotto assieme a tante altre persone che consumano lo stesso prodotto e ci rassicuriamo a vicenda della sua eccellenza. La critica sparisce e si identifica con il merchandising. Su queste coordinate, credo, vada inquadrato un fenomeno come la crisi della serialità televisiva, fenomeno con il quale abbiamo solamente iniziato a fare i conti.
Affatto in accordo con quanto espresso nell’articolo.
La verosimiglianza è alla base della narrazione.
Gli espedienti utilizzati nella narrazione della regina degli scacchi consistono anche, in senso positivo: nel descrivere il rapporto della protagonista con una madre adottiva alcolizzata, ma estremamente buona, destinata a scomparire nella memoria oscura del creato; nel non avere remore nell’illustrare il rapporto con la droga degli adolescenti; nel soffermarsi sui rapporti d’amore e , soprattutto, d’amicizia in una società individualista come quella statunitense degli anni sessanta del XIX sec.; nel permettere allo spettatore di visitare il mondo passando dall’America centrale all’Europa, per arrivare, infine, nell’Asia del nord.
P. S.: la vita quotidiana è una serie banale!
La novità della serialità di massa è il tipo di fruizione e di produzione, non la scrittura e la struttura narrativa. In tal senso buona parte delle serie ben fatte e di successo (di critica, e di pubblico?) consiste proprio nella replicazione a macchia d’olio di meccanismi narrativi consolidati in diverse epoche, settori, sotto-generi, etc.
Quindi condivido pienamente il tuo giudizio, ma mi chiedo se non ci sia un equivoco puramente lessicale. L’identificazione del critico con il merchandising è sconcertante solo se si ha una certa idea di critico, cosa che non è condivisa o attualmente diffusa.
Sono parecchio perplesso. Se si traccia un’audace relazione tra il terrore dello spoiler e l’ansia sociale di una generazione bisogna andarci con i piedi di piombo e fornire un po’ di supporto.
Poi, come al solito, tutto è in crisi, e alla fine non si è capito nemmeno perché. L’argomento per il quale la trama della Regina degli scacchi sta sul retro di un francobollo è triviale. Qualsiasi narrazione può essere riassunta in due frasi. Questo trucco funziona benissimo anche con I promessi sposi.
L’obiezione riguardo al finto biografico non è messa bene a fuoco. Inoltre, chiunque segua minimamente il mondo degli scacchi sa che una donna non avrebbe mai potuto competere con il campione maschile, per motivi sociali e culturali. C’è infatti questa cosa strana e davvero originale: una donna che sfida il campione del mondo!
Questo non è che un esempio. Se riduciamo la trama al suo canovaccio, ci perdiamo esattamente ciò che rende la storia interessante.
Più centrato il discorso sulla ricezione delle serie da parte della critica giornalistica. Specie nel mondo anglosassone si grida troppo presto al capolavoro e si ha la fastidiosa sensazione che la critica sia completamente strumentale al gioco del successo e del fallimento (Emily in Paris è stata demolita con preoccupante unanimità). Questo però non ha nulla a che fare con la crisi della serialità, e se un legame c’è è da dimostrare. Piuttosto negli USA ma anche in UK la divisione dei compiti tra critica giornalistica e studio accademico è più netta e da questo punto di vista potrebbe essere più onesto, su un giornale, soffermarsi su aspetti marginali ed emettere giudizi inappellabili, sapendo che nei dipartimenti universitari qualcuno andrà più a fondo. Sono convezioni culturali che in Italia cominciano ad attecchire da una decina d’anni.
“Nella Regina degli scacchi si parla di un artista pop che acquista un disegno di Michelangelo, lo cancella con una gomma e infine espone il foglio tornato bianco come fosse un’opera d’arte. Tevis lavorò un po’ di immaginazione ma alluse a un fatto realmente accaduto negli anni Cinquanta del secolo scorso. Per ragioni facili da intuire il disegno cancellato non era di Michelangelo. Si trattava di Willem De Kooning, uno fra i maggiori esponenti dell’espressionismo astratto, mentre l’autore del provocatorio gesto fu Robert Rauschenberg, considerato dalla critica un proselito di Marcel Duchamp. La protagonista di La regina degli scacchi è però qualcosa di più di un brillante cervello intrappolato nel corpo sbagliato. […]
Nel romanzo Tevis torna a più riprese sul problema della discriminazione sessuale. Gli scacchi sono una faccenda tra uomini e in quanto donna Beth è un’intrusa, un outsider, un alieno. […] Walter Tevis disse una volta che L’uomo che cadde sulla Terra è «un’autobiografia molto mascherata».
La regina degli scacchi lo è ancora di più. Thomas Jerome Newton, seppur alieno, era comunque molto simile a un uomo. E ad ogni uomo, fosse solo una volta nella vita, capita di sentirsi un po’ alieno. Beth Harmon, invece, pur essendo umana, è una donna. E sentirsi un po’ donna non è esattamente una cosa che un uomo sia disposto ad ammettere a cuor leggero. Tutto ciò fa di Beth l’autoritratto più mascherato fra quelli tratteggiati da Tevis nei suoi libri e quindi, dal suo punto di vista, il più somigliante. Egli riteneva che più si lavora di fantasia più la realtà diventa plausibile.“
Tommaso Pincio, Introduzione, in Walter Tevis, La regina degli scacchi, minimum fax, Roma, 2007
Non sono sicura di comprendere appieno il senso di questo pezzo. Sono d’accorso sulla diagnosi di crisi della serie TV. Quella che i critici chiamano the Golden Age of TV Shows, e che abbastanza unanimemente viene fatta iniziare con The Sopranos (1999-2007) e The Wire (2002-2008) – non con Lost! – è finita. A mio avviso, finisce con la fine di Game of Thrones. Le serie TV unanimemente riconosciute come ‘migliori’, almeno in ambito anglosassone, sono sicuramente Mad Men (2007-2015) e Breaking Bad (2008-2013), altre serie come True Blood (2008-2014) e Boardwalk Empire (2010-2014), e altre naturalmente, sono più controverse. Ci sono comunque diversi studi sulla serialità, da cui si possono trarre criteri ‘oggettivi’ che sanciscono l’ ‘altezza’ di una serie TV, al di là dei gusti personali: originalità della storia, innovazioni di vario genere, portata socio-politica, complessità dei personaggi e loro sviluppo psicologico su tutte le stagioni, estetica e regia, fotografia, musica, capacità di entusiasmare sia pubblico che critica (si vedano tutte le pubblicazioni, anche scientifiche e filosofiche, fiorite intorno all’una e all’altra), capacità di lanciare nuovi e/o giovani attori e attrici, qualità letteraria sottostante (nelle sceneggiature, o nei testi di riferimenti – il caso The Handmaid’s tale è esemplare), ‘tenuta’ dall’inizio alla fine. Su questo ultimo punto, per esempio, sono cadute molte: anche su Mad Men, in questo, senso, si potrebbero avanzare dei dubbi (le stagioni centrali avevano perso notevolmente in regia, assumendo uno stile soap opera), e The Handmaid’s tale probabilmente non entra nell’Olimpo soprattutto per questo. Ci sono per esempio serie ‘cult’, molto riconosciute soprattutto in certe nicchie (in una nicchia: Sex and the City, Girls, The Gilmore Girls) che non soddisfano tutti i criteri per essere considerate eccellenti (SATC, per esempio, nonostante le sue innovazioni, il ruolo che ha svolto nello sviluppo della TV negli anni 90, non è neanche considerata totalmente ‘seriale’: i personaggi rimangono quasi sempre uguali, ogni episodio è quasi-indipendente). Etc. etc. Quello che voglio dire è che è evidente che La regina degli scacchi, anche se ha appassionato molti, non può essere considerata ‘tra le migliori’, e sicuramente è ancora presto per dirlo, un giudizio di questo tipo richiede di arrivare all’ultima stagione. Probabilmente, questo prodotto ha appassionato perché vi è una generale mancanza di serie di qualità, appunto, crisi, fine dell’età d’oro, e le serie eccellenti ci mancano. Si tratta allora di capire i motivi strutturali di questa decadenza. Netflix è sicuramente uno di questi motivi, ma devo ammettere che non mi è chiaro esattamente come e fin dove (perché la commercializzazione è un elemento comunque fondamentale anche delle serie migliori).
W Twin Peaks!!!
Gentile Mario Farina, ho appena finito di guardare La regina degli scacchi e intervengo dunque a caldo sul suo pezzo, di cui non capisco molto bene la tesi. Condivido con lei la delusione per la mini-serie, di cui ho guardato con passione i primi quattro episodi, fino alla morte della madre adottiva, e con crescente frustrazione gli ultimi tre. Non capisco però perché lei la trovi così rappresentativa del “genere” seriale, che è senz’altro interessantissimo da studiare, ma che io affronterei attraverso prodotti più idealtipici: questo esempio mi sembra troppo eccentrico per taglia ridotta – di fatto è un film lungo due volte più del normale – e origine autoriale – è tratta da un romanzo che si conclude dove finisce la mini-serie, per cui, a meno di impellenti ragioni commerciali, la storia non dovrebbe continuare. Ma soprattutto: davvero pensa che l’operazione non funzioni perché “non è una storia vera” – e cioè perché incarna il principio stesso del romanzesco? Nemmeno Moll Flanders e Julien Sorel sono mai esistiti, anche se, come Beth Harmon, sono ispirati a figure reali e casi di cronaca. Contrariamente a lei, trovo che il modo in cui la storia e la psicologia della protagonista si muovono in equilibrio tra verosimile, finzione ed eccezionalità eroica sia il punto forte della storia. Questo equilibro ha qualche caduta, ma nel complesso è sufficiente a innescare il meccanismo di identificazione che fa appassionare al riscatto sociale della protagonista. Si può ovviamente discutere del senso che può avere riciclare oggi questo mito così ottocentesco, riflettere sulla sua persistenza pop (quello che lei deride come il cliché di Karate Kid ha il suo archetipo in Julien Sorel che traduce il latino) e sulle ragioni della sua attualizzazione femminista: nell’introduzione al Romanzo di formazione, Moretti ricordava come gli unici che capissero il dramma psicologico del Rosso e il nero durante i suoi corsi a Columbia fossero gli studenti neri: nel nostro caso, è all’opera lo stesso meccanismo in versione femminista. È proprio il confronto coi buoni romanzi che mette in luce i veri punti deboli della Regina degli scacchi: il finale caricaturale che risolve ogni ostacolo e contraddizione nell’ovazione che circonda la vincitrice persino in Russia, l’ossessione tipicamente americana per l’eziologia – ogni forma di male ha una causa – e il manicheismo che ispira il ritorno orchestrato di tutti i personaggi distruggendo le ambivalenze di psicologie e situazioni delle prime puntate – questo sì davvero inverosimile. Il problema della Regina degli scacchi, insomma, non è che racconti una storia non vera, cioè un romanzo, ma che mortifichi, semplificandola, quella capacità di descrivere la complessità della vita umana che René Girard chiama la «verità romanzesca».
d’accordissimo sulla banalità/falsità della serie La Regina di Scacchi. tra l’altro scritta da uomini (maschi).
viva sempre Twin Peaks.
È abbastanza vero che le serie generarono grande entusiasmo (in parte era una posa per dire “sono al passo coi tempi”) e che ora appaiono più come sinonimo d’ingabbiamento, piattezza, dipendenza, ecc. In parte è il percorso già tracciato da internet e vari dei suoi prodotti.
Aggiungo che su Netflix sono spesso di una castità inquietante.