Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)].
Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte, che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Di questa domanda vorrei portare per sempre con me una parola: immaginare. Quello che immaginiamo non è mai irreale: è la strada per un immaginario. Sono cresciuta in campagna: c’erano molti girasoli e un cielo con lo stesso colore che ha nei quadri di Piero della Francesca. Nella mia memoria, per lungo tempo non ci sono stati luoghi come quelli di cui parla Clément: nessun terzo paesaggio, nessun luogo abbandonato dall’uomo dove si crea una diversità biologica, che si sviluppa come un rifugio in cui la vita si rigenera. Erano gli anni Ottanta e nella provincia del centro Italia aumentavano le case, i capannoni, le officine, le famiglie, in un equilibrio tra la natura e il consumismo. Non si poteva rinunciare alla bellezza di un bosco, di un fiume, ma nemmeno al comfort dei prodotti della televisione, a quel senso mellifluo che era rappresentato bene nei cartoni animati. Da bambina sognavo di diventare una disegnatrice di cartoni animati. Nella fantasia si era innestato un meccanismo: credevo che la vita futura sarebbe stata solo una costruzione di felicità o, meglio, di benessere. L’immaginario di me stessa ragazzina, testolina tra milioni, era legato a una fiducia nello star bene. Perché? Non conoscevo il terzo paesaggio: gli spazi della natura erano abitati serenamente dalla natura e quelli dell’uomo erano vissuti fino in fondo e produttivi. Nella distanza di oggi, mi sento irrazionalmente in colpa per chi ha sperimentato il terzo paesaggio fin dall’infanzia. Credo che il terzo paesaggio abbia iniziato a insinuarsi con l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers: erano le tre di pomeriggio e la patina tranquilla del vissuto e del futuro si è sfibrata. Ho visto le riprese dell’attacco in televisione. Mezz’ora dopo ero in macchina con il sole che abbagliava il parabrezza e la borsa della palestra tra i polpacci: fu la prima volta che pensai che se ci fosse capitato un incidente non me ne sarebbe importato gran che, non aveva più senso aggrapparsi alle differenze tra quello che realmente sentivo – il mio cuore quasi contro la gola – e quello che avrei potuto sentire. Chi aveva il coraggio di mettere il naso tra le crepe della patina, di sentire il vuoto? Era un terzo paesaggio interiore quello che un po’ tutti iniziavamo allora a percepire: persino i più razionalisti ed eretici, che nella simbologia delle carte da gioco possono essere rappresentati solo dall’asso di spade, cominciavano a diventare medium del vuoto. Uso una parola dello spiritismo, sì: perché il terzo paesaggio interiore, vent’anni fa, l’abbiamo incominciato a sentire un po’ tutti come maghi. Spesso l’emotività andava fuori controllo. Poi c’è stata la crisi del 2008. Da lì in avanti anche la campagna imbevuta dell’azzurro di Piero della Francesca si è riempita del terzo paesaggio, inequivocabile: costruzioni abbandonate con macchinari rugginosi che fanno penzolare le braccia, edilizia senza più manutenzione, vetrine polverose che coprono negozi deserti con qualche cartone abbandonato. Questi luoghi non sono stati più abitati nemmeno dagli animali e dalle piante che per una persona possono essere simpatici: per fare il nido le tortore preferiscono un albero vicino a un ambiente confortevole e il ciliegio dà frutto se il terreno è sano; i cani randagi e aggressivi, spaventati dall’uomo, i ragni e le serpi, come i rovi, si infrattano fra vetracci, ferri, copertoni, blocchi di cemento. Sto raccontando questa storia per usare la mia biografia come un oggetto sperimentale, in cui un immaginario muore e un altro prende il suo posto. All’immaginario della vita piena, della sicurezza, è subentrato quello del vuoto, dell’abbandono, della precarietà. Sartre diceva: l’immaginario è il correlato neomatico della funzione irrealizzante della coscienza o immaginazione. In una fenomenologia dell’immaginazione, le immagini, scaturite dall’incontro tra esperienza e immaginazione, diventano forme di conoscenza. Quando diciamo di immaginare, stiamo conoscendo, esercitiamo una forma di attenzione. Fra l’immaginario del pieno e quello del vuoto – pensando a come autenticamente si sono sviluppati nella mia storia limitata – è nata la poesia. Ma con una scintilla particolare… Negli anni nell’immaginario del pieno, facevo molte escursioni. Una volta mi arrampicai in cima a una collinetta dove vivevano cavalli dalle zampe pelose e robuste e c’era uno stagno pieno di pesci persici. Il sole stava tramontando e si vedevano tre linee di orizzonte: quella a est del monte Subasio, quella a ovest del monte Tezio e quella a sud di un agglomerato urbano. Le prime due tendevano all’azzurro, l’altra a un rosso violaceo spezzato da luci elettriche. Non sentivo il bisogno che ci fosse un rapporto tra lo spazio della natura e quello della produttività umana. Ho ancora in mente, cristallino, quel tono di azzurro: una sfumatura con cui potrei descrivere istantaneamente il Cantico delle creature e l’Infinito di Leopardi, le avventure di Thoreau, quando visse due anni in una casetta da lui costruita vicino al lago Walden, e il senso di meraviglia che la biologa marina Carson fa venir fuori come una lezione elementare parlando di una notte stellata sulla costa rocciosa dell’Oceano. Lo spazio della natura non poteva essere mescolato con quello del viola elettrico della città: l’uno e l’altro erano autonomi, autosufficienti, saldi in sé stessi. I cavalli nitrivano e i persici stavano dormendo. Così funzionavano le cose. Dopo vent’anni, nel tempo dell’immaginario del vuoto, sono tornata sulla stessa collinetta. Non ci sono più i cavalli, lo stagno resiste e i tre orizzonti sono sempre lì, con gli stessi colori. Però ho avuto una sensazione lacerante: ogni spazio non può fare a meno dell’altro, l’uno deve qualcosa all’altro, la storia dell’uno è irrimediabilmente legata a quella dell’altro, e se questo incontro non viene profondamente compreso dal genere umano il senso di vuoto aumenta, può annientarci. La terra può diventare tutta un terzo paesaggio radicalizzato e claustrofobico, come se il passato fosse dimenticato per sempre e non ci fosse più futuro. Da ragazzina, guardando l’azzurro trasparente dei monti e il viola corposo della città, pensavo che la letteratura e i cartoni animati fossero un modo per portare dalla realtà all’immaginazione quello che vivevamo: la vita nella realtà dell’Italia fra anni Ottanta e Novanta, soprattutto per chi non era ancora adulto, era sicura (figli di una generazione che ha seguito il dopoguerra ed è stata avvantaggiata da un periodo economico favorevole) e le sue rappresentazioni letterarie non potevano creare altro che un patrimonio che aumentava il benessere. Nel 2020 il pianeta è stato paralizzato da un lockdown globale per un microscopico organismo che ci ha immobilizzati, corpuscoli in un’ipnosi fobica. Le città sembravano essere diventate il terzo paesaggio: spopolate, silenziose. I droni che le riprendevano dall’alto raccontavano un mondo in cui l’umanità sembrava estinta e il paesaggio si era cristallizzato. La zona rossa, in cui le norme ci bloccano, è come un enorme deserto rosso, per riprendere il titolo del film di Antonioni: causato non dall’alienazione rispetto ai meccanismi del capitalismo – voleva dire il film –, ma da un senso di solitudine e impotenza, interiori prima di ogni altra cosa. Le crepe del sistema occidentale, aperte dall’11 settembre, ora si sono squarciate del tutto: l’umanità del deserto rosso sperimenta non la violenza, il dolore, la guerra, il male, ma totalmente il vuoto e il potere irriducibile dell’indifferenza, rispetto alla natura così come al genere umano, che lo caratterizza. Davanti al vuoto tutto acquista il genere neutro e tutto si neutralizza. Io sono stata confinata in campagna, posso sentirmi selvatica. Torno spesso sulla stessa collina del cavalli e dei pesci persici. Da lassù, distinguo, a macchia di leopardo, zone in cui la natura è forte (pare che i lupi siano tornati) e zone in cui i detriti la assalgono (una fabbrica chimica ha riversato molti scarti nel Tevere); zone dove le persone lavorano bene (spesso legate a quella che mi piace chiamare gentrificazione rurale, con annesso turismo e trasformazione del territorio in uno spazio-museo) e zone dove macchinari arrugginiti sono sepolti dalle spine. Ma dove si innesca la scintilla della poesia? La narrativa e gli audiovisivi che mi circondano continuano, salvo eccezioni, a traslare dalla realtà all’immaginazione quello che viviamo, come se la vita precaria, frastagliata, e i frammenti di cronaca possano essere i soli fatti rappresentabili (quanto spesso si dice che un romanzo o un film è basato su una storia vera?). La poesia ha sempre seguito anche il percorso inverso. Anche dall’immaginazione essa porta alla realtà qualcosa…: il senso di una narrazione complessa, la lingua come rete empatica di legami, il confronto fra limiti, fra lo spazio della natura e quello dell’umano, e una nudità, l’impossibilità di falsificare i bisogni, i desideri e la fragilità delle persone. Ma farei meglio a dire che la poesia porta (almeno dovrebbe portare) autenticità – che non è, certo, in quell’azzurro meraviglioso con cui ricordo il Subasio e il Tezio alla fine di pomeriggio degli anni Novanta. Zanzotto diceva che il tempo della poesia è quello del futuro anteriore, che per me assomiglia al gesto di piantare un seme: non sai se domani germoglierà, non puoi pianificare, ma sai di avere speranza. È un’idea affascinante, a cui si può collegare la definizione di terzo paesaggio di Clément. Zanzotto, d’altra parte, è il solo poeta italiano che ha difeso, praticamente come un veggente, la poesia in quanto riflessione ecologica oltre che estetica. Tuttavia, se penso a quando sono su quella collina, con il vuoto che incalza…, posso dire che la poesia è speranza e che assomiglia a un luogo, da molti punti di vista sacro, in cui ci si rifugia per rigenerarsi biologicamente, per ripensare la vita attiva e il futuro? La poesia ci può aiutare a capire quanto, in questo tempo, ci sia bisogno di autenticità: comprendere noi stessi in quanto persone autentiche, ma anche la vita naturale e le cose artificiali come parti autentiche del nostro mondo, come è arrivato a essere ciò realmente che è. La poesia usa l’immaginazione per intensificare la realtà. Sta a noi voler intensificare, senza ipocrisia, la conoscenza di noi in rapporto al mondo e viceversa. La poesia non assolve e non risolve, ma ci può far sviluppare un’attenzione empatica per la vita, irriducibile al vuoto. Ma deve stare in guardia da un rischio: il manierismo. Nulla può essere più dannoso oggi del manierismo, di qualsiasi tipo esso sia, perché mai come oggi ci condanna al vuoto. Solo chi è autentico può guardare in faccia il vuoto senza avere paura: così, come fare un passo e un altro passo, uno dopo l’altro.
E la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?
Pensando a un luogo ipotetico abbandonato dove i resti della presenza umana si confondono con una fauna e una flora ibride fra la natura e l’addomesticamento, direi che tutto ciò che può essere chiamato manieristico assomiglia a un bordo spesso intorno a questo luogo: talmente spesso che diventa invalicabile. Un confine che si è formato come materiale truciolato: i frammenti dell’esterno e dell’interno sono compressi in un lingotto compatto. Le caratteristiche della natura selvatica e della produttività umana, ma anche dell’habitat ibrido di un luogo abbandonato, sono risucchiate in questo composto uniformante, che ha raso allo stato di neutro e indifferenziato ciò che prima era vivo. Per me il manierismo si comporta in un modo simile: toglie vita alla vita, riduce al neutro. Strappa forma al carattere, pensiero critico alle idee, passione al sentimento, verità all’azione. Possiamo credere che la poesia sia immune dal manierismo in un tempo come il nostro, in cui le leggi del profitto – estese alla politica e alla morale – sono il minimo comune denominatore delle scelte che contano e determinano le condizioni delle persone? Siccome la poesia ha un valore di mercato irrilevante, è una possibilità di rigenerazione esistenziale e spirituale? Penso che lo sia in minima parte. L’attività artistica umana si muove per una filiera di connessioni. Gli audiovisivi e la narrativa spesso sono influenzati dalle leggi di mercato: per assecondarle, tendono a confezionare prodotti che prendono determinati aspetti della realtà e li trasformano in una specie di cronaca letteraria in differita. Una notizia su un asteroide che tra un determinato numero di anni si avvicinerà alla Terra fa scattare in noi la paura dell’apocalisse. Gli storyteller afferrano questa paura e ne fanno un romanzo, pensato per diventare una serie televisiva sulla fine del mondo. Gli spettatori la seguiranno perché è stata ideata per rispecchiare esattamente la psicologia della loro paura. Questi prodotti sono ‘narrazioni-specchio’ del tempo umano: costruiscono il nostro immaginario, ma sono destinate solo al consumo e all’intrattenimento, non hanno come fine la conoscenza. Poi ci sono narrazioni che fanno della riflessione e della sperimentazione il loro baluardo: sono puramente letterarie, con il rischio di diventare perfino reazionarie, anche quelle che si dichiarano eversive, sperimentali in modo estremo. Spesso, sono un residuo di un tempo storico che non c’è più, in cui la letteratura aveva un valore sociale che oggi non ha più. Molti di questi lavori sono manieristici: formano un corpo compatto di ideologie e stili che non possono farci attraversare in modo autentico il tempo che viviamo. E la poesia dovrebbe essere immune? Anche la poesia non è immune al manierismo. Quando leggiamo o ascoltiamo un testo e immediatamente ci è chiaro da quale voce precedente quel testo ha per così dire copiato la sua impalcatura, viene da pensare a un manierismo di stile. Ma c’è anche una scrittura che usa i sentimenti, quelli più comuni ma anche più necessari, come una melassa collosa che si attacca alle orecchie e agli occhi e ottunde le capacità di sentire e pensare. Solo le scritture autentiche intensificano il tempo che viviamo e ci fanno essere attenti. Le altre vanno a comporre quel muro di truciolato: non guardano alle differenze fra l’esterno e l’interno, il vero e il falso, il pieno e il vuoto. Non è importante la distinzione, né attraversare davvero la vita. Sono protettive per chi le segue e respingenti per il diverso. Oggi si dice che la poesia ha perso autorità sociale; la narrativa acquista un minimo credito in più perché è sorretta da una base di mercato editoriale; gli audiovisivi di più, perché il mercato che alimentano è massiccio. Ma proviamo per un attimo a mettere fuori la testa dalla sfera dell’arte: quale autorità hanno la filosofia, la storia, persino la matematica, la fisica, la chimica? E la divulgazione informativa del giornalismo? Non ci accorgiamo che viviamo in un mondo in cui l’autorità – ma sarebbe meglio chiamarla una cosa che dà possibilità di fiducia – è limitata all’insorgere di una circostanza in un particolare momento con il suo consenso e, se questo decade, perde di valore immediatamente? Potrei portare come esempio molti casi della politica e degli influencer sui social network. Gli ultimi anni sono zeppi di notizie che hanno avuto il riconoscimento di ipse dixit per un giorno – come se fossimo tornati in un medioevo dove la legge inconfutabile è quella di Dio: tanti uomini del nostro tempo si credono dei… per un giorno. Da troppo tempo non esiste più l’autenticità come valore di lunga durata. Con lunga durata intendo il fatto che un’opera autentica o un’azione autentica siano legate a una catena di cause e effetti, a una storia, a un passato e a un futuro, a un progetto e soprattutto alla possibilità di avere fiducia. Diciamo che la poesia non ha più autorità: ha iniziato a perderla più o meno dopo il Sessantotto, quando la cultura di massa ha cambiato la cultura umanistica tradizionale e il mercato ha confinato la poesia nella nicchia. Ma vorrei chiedere: oggi che cosa ha autorità, di che cosa ci si può fidare e in che modo si può pensare di fare progetti? E tutto ciò in un modo sostenibile per l’essere umano: senza dover mettere in piedi costantemente una pseudo-fiducia e pseudo-progetti come una rete tentacolare che aggiri il vuoto e l’impossibilità di distinguere tra il falso e il vero, il dover essere cinici per sopravvivere, il dover snaturarsi per andare avanti. Della fiducia e di fare progetti – della cura per la vita – l’essere umano ha biologicamente bisogno. Nella campagna c’è un casolare in rovina: è grande, l’edera ha invaso il lato della scala esterna. Una volta riuscivo a entrare. Poi l’edera si è mangiata ogni accesso. Anche altri potevano entrare. C’erano scritte sui muri con le bombolette spray e disegni di organi genitali. Vicino al casolare c’era la capanna, la costruzione dove raccoglievano la paglia e il fieno, con alcuni muri a nido d’ape per far passare l’aria. È crollata del tutto, i rovi hanno ricoperto le fondamenta. Oltre l’enorme cespuglio spinoso che non mette mai fogliame, c’è una rimessa di laminato dove venivano parcheggiate le macchine agricole. Le porte sono aperte. Dentro non c’è nulla, a parte residui dei vetri rotti e le solite scritte con le bombolette spray, che nella penombra assomigliano ai rovi, con le loro curve nere e i ghirigori multicolore voracissimi. Queste scritte non sono molto diverse dal muro di truciolato di cui parlavo prima per descrivere il manierismo. Sono segni che gridano, graffiano la parete dove sono stati impressi. Graffiano anche questo tempo, ma non lo attraversano: comprimono in sé il vero e il falso, e viene voglia di sbatterci la testa contro come sbatterla contro il vuoto. Ma più che urlargli contro a squarciagola, non sarebbe meglio sostenerlo? Quando esco fuori dalla rimessa vedo un castello restaurato. I proprietari devono pensare che questa campagna sia il posto più autentico della terra: forse qui si sentono liberi e in pace con se stessi. Forse il casolare diroccato e le rovine biancastre della rimessa in mezzo alla vegetazione disordinata gli danno fastidio. Potrebbero comprare e restaurare la proprietà, portarla dall’incuria alla cura. Ma i proprietari del casolare non vendono. Allora so, mentre torno a casa camminando sulla strada bianca di terra spianata, che senza l’edera che ricopre il casolare e senza le pietre levigate del castello questo luogo non sarebbe più vero e di esso non potrei più fidarmi.
E uscendo dalla letteratura? Dove ci conduce questa conversazione. Verso quali campi? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche (oltre) l’umano?
Nel tuo libro In territorio selvaggio mi hanno colpito due frammenti. Il primo è la frase “il mondo inselvatichisce anche per causa umana” e il secondo sono le fotografie di Isabel Muñoz – la serie Aqua – dove corpi umani avvolti da teli leggerissimi, trasparenti e spettrali, vengono catturati dalle profondità marine e galleggiano nell’oceano. Il significato verbale e quello visuale possono rimandare all’immaginario del post-umanesimo: il mondo è de-umanizzato per l’intervento dell’uomo che gli toglie la bellezza, il calore, la vivibilità, l’armonia; il corpo umano è de-umanizzato dall’oceano che, come reazione naturale all’abuso e all’inquinamento, si trasforma in un pericolo per le persone, le fa cadaveri e fossili di un antropocene in declino. Pensando alla politica, mi viene da dire che oggi viviamo come fossili di un’idea di società in cui il fare politica, nel senso più ampio del termine, aveva autorità: rappresentava un progetto di cui si poteva avere fiducia. A fianco del post-umanesimo, si parla di post-verità: un fenomeno dell’informazione che ha visto insorgere una massiccia disinformazione con notizie presentate come vere che portano effetti politici non irrilevanti (la campagna politica di Trump è stata piena di fake news). Il post-umanesimo e la post-verità corrispondono all’immaginario del vuoto, in cui le distinzioni tra il vero e il falso non solo non sono più cercate, ma non hanno più senso, così come l’essere autentici non ha più valore. Può esserci una politica autentica? Se ripenso alle fotografie di Isabel Muñoz sono colta da una sensazione di abbandono, di freschezza, di tenerezza, di inermità: è come se potessi vivere solo in un essere-transito. L’acqua è l’elemento che da un punto di vista figurale facilita la fluidificazione (non violenta) di ciò che siamo – è anche l’elemento che preferisco. Ma il pensarsi in osmosi con l’atmosfera in cui ci troviamo, che abitiamo e che ci abita, è la prima scintilla per creare una comunità. Alice Oswald in Nobody costruisce una narrazione lirica dove il mare è un teatro vivente: la prima persona singolare si scioglie in un ‘nessuno’, una voce pronunciata, cantata dal mare come Ulisse, il mitico Nessuno della letteratura occidentale. Nobody realizza una comunità naturale assoluta tra il sé e il mondo. La comunità – e la politica – si crea da un sé autentico (da ciascuno di noi) che si dà. È l’unica condizione per andare contro il vuoto, anche se comporta tanto sforzo. Essere autentici, davvero, è faticoso: anche se potrebbe sembrare la cosa più gratificante e naturale, spesso non ci facilita quando siamo messi di fronte alle scelte che non riguardano solo noi e i compromessi. Non è sempre facile essere sé stessi. Ma l’etimologia della parola autentico dice molto e potrebbe essere un antidoto alle derive nulliste del post-umanesimo e della post-verità: è composta da autos – me stesso – e hentes – participio di fare. Autentico è colui che agisce in armonia con ciò che è, che sente e che vuole essere. L’azione, per realizzarsi, ha bisogno di uno spazio sociale: non necessariamente fatto di persone, perché una comunità molto elementare può essere anche quella tra un solo uomo e l’ambiente con cui entra in relazione per vivere. Tuttavia essere autentici è faticoso, soprattutto nelle comunità più complesse. La politica ha sempre a che fare con comunità complesse. Ma oggi alla politica resta solo una chance: provare a essere qualcosa in cui avere autenticamente fiducia. Non è facile.
Cos’è che non ti ho chiesto e che vorresti dire?
Clément dice che il terzo paesaggio è un luogo abbandonato dall’uomo in cui si sviluppa una diversità biologica, come una riserva da cui la vita si può rigenerare. Da questo luogo si rigenera il bene o anche il male? Le persone, abbandonando un luogo, possono liberarlo dalla violenza, dalla cattiveria, dalle pulsioni inconsce, dai traumi? Nelle grotte di Lascaux le scene di caccia e le forme delle mani stampate contro la pietra, con i loro colori rossi, sono anche l’archeologia di violenze. I moai sull’Isola di Pasqua raffigurano teste di dei che dovevano proteggere la popolazione: per costruirli, la gente si è annientata e il loro tempio all’aria aperta è diventato un’isola deserta. Le scritte che trovavo quando entravo nel casale diroccato della mia campagna erano la traccia di un’inquietudine tremenda, di una ribellione di ragazzi che volevano letteralmente spaccare la vita, la prendevano a calci e a morsi, come se la rabbia fosse l’unica spinta per crescere: uccidevano la vita per ricrearla. A qualche chilometro da quel casolare c’erano le rovine di un castello risalente al millequattrocento, che sotto lo Stato della Chiesa è stato un feudo piuttosto florido. Sapevo entrare anche lì dentro. Il piano nobile era costellato di grottesche con figure di bestie il cui corpo si diramava in piante e fiori. Le stanze erano disposte una dopo l’altra, senza i muri divisori che organizzano lo spazio nelle abitazioni di oggi. Dalla porta della prima stanza si vedeva la parete dell’ultima: questo viadotto di porte era illuminato sia dalle finestre a ovest che da quelle a est, in un ritmo che poteva far pensare all’avanzata per una scala paradisiaca o alla discesa verso i gironi dell’inferno. Per molto tempo solo le parole e le immagini hanno avuto per me un significato. I numeri erano segni pragmatici, nient’altro che semplici quantità oggettive calcolabili. Su una delle pareti del castello c’era un numero, tracciato con una bomboletta spray: 666. Non ricordo le scritte dei graffiti nel casolare, ma ricordo bene questo numero. Mi dissero che era il numero del diavolo. Non ho mai creduto alle simbologie. Le grottesche erano creature buone, mi davano un respiro felice. Ma in ogni luogo in cui la vita si può rigenerare c’è sempre un trauma che non può essere salvato.
[Immagine: Foto di Mathias Abel Pera].