di Gabriele Sassone

 

[E’ uscito da qualche mese per il Saggiatore Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore, di Gabriele Sassone. Ne pubblichiamo un estratto].

 

Mio padre accende la lampada sul comodino e si prepara per andare in fabbrica. Io ho sei anni. Sono a letto e sento che le ombre mi si allacciano alla gola. Le sento stringersi appena mia madre si sveglia e programma a bassa voce le attività della giornata, il ribollire della moka e il centrifugare della lavatrice, sento le ombre alla gola mentre i passi si fanno sempre più vicini, e la porta si apre, mio padre che imita la fanfara dei bersaglieri e io fingo di dormire o di sentirmi male, spesso fingo entrambe le cose pur di non andare a scuola; ma le ombre si allacciano ancora più strette durante la colazione, i cartoni animati a tinte piatte, la morte o la partenza per un paese lontano di un genitore del protagonista; sento le ombre mentre mia madre mi abbottona il giubbino lamentandosi delle asole strette, un assurdo orologio tirolese ci ricorda che siamo sempre in ritardo; e infine, in modo brutale, sento che le ombre mi si allacciano alla gola quando mia madre mi saluta dal finestrino dell’auto parcheggiata in seconda fila, e le bidelle chiudono il cancello. Fuori non è mai sorto il sole.

 

Io resto sulla soglia dell’atrio vuoto. Voglio urlare ma i bronchi sono avvizziti, la trachea sigillata. In classe manco soltanto io. La maestra mi avverte che oggi devo essere interrogato, così cado a quattro zampe, la bocca si spalanca e io mi allungo in avanti, un filo di bava cola sulla manica del giubbino. Rantoli dai polmoni. La maestra dice che sembro un cagnolino e si alza il foulard per non ridere. I miei compagni all’improvviso sono tutti in posa nell’atrio mentre un fotografo ripete cheese. Io torno a respirare. Ho la testa rivolta a sinistra, fisso qualcosa in basso, sottoterra; è appena sorto il sole e l’incidenza della luce mi rende gli occhi più tristi di quanto dovrebbero essere. Stringo la gamba della maestra con poca convinzione. Prima di entrare in classe ed essere interrogato, restituisco l’ultimo sguardo supplichevole a quei pochi millimetri di cielo fra le montagne e le nuvole, confidando che una detonazione di colori rimetta a posto tutte le cose.

 

E invece mi sveglio sul divano. La project manager mi chiama alle undici di notte. Mia moglie e mio figlio sono a letto, io ancora sintonizzato sul canale dei documentari. Abbasso il volume, la voce del divulgatore si trasforma in un bubbolio. Sento il fornello ancora acceso, mi avvicino stropicciando gli occhi, l’acqua per la tisana digestiva di mia moglie è quasi tutta evaporata. Spengo il fornello e rispondo alla chiamata della project manager.

 

Pochi minuti dopo pigio la cornetta rossa e mi segrego in bagno con due mandate. È in arrivo una crisi respiratoria. Mi siedo sul water per calmarmi: la project manager ha telefonato perché il professore titolare della cattedra di storia dell’arte ha perso il volo. Domani mattina è in programma un convegno fra le scuole del nostro network. Art in the Age of Social Media, questo è il titolo. Venti relatori. Duecentocinquanta posti in platea. Parlare al microfono. Parlare in inglese. Schiarirsi la voce, chiedere se mi sentono anche nelle ultime file, le casse che fischiano, le slide della presentazione che si impallano.

 

Durante la telefonata la project manager ha continuato ad aggiungere dettagli, quando è nervosa tende a ripetere le parole,purtroppo però io non ho capito niente, mi trovavo ancora a quattro zampe, si fa per dire, nelle orecchie l’incubo di me stesso in prima elementare, il frusciare delle ombre che si allacciano alla gola, il cancello della scuola che si chiude, il soffocamento nell’atrio. In cielo una trachea nera al posto del sole. E, in quello stato, mi sono immaginato al convegno previsto per domani mattina. Una lama di luce che taglia il corridoio in due porzioni sbilenche. Io che sono in ritardo. Goccioline di sudore ai lati del naso, io che cammino in controtempo dietro alla bidella, pendo verso lo spiraglio della porta socchiusa per intravedere l’interno dell’aula magna. La bidella si ferma e indica con il braccio la via da percorrere. Io m’infilo di sbieco, l’aria schiaccia lo sterno. Allungo lo sguardo, il chief executive officer del network è una pennellata nera sul metallo. Sotto di lui sono in piedi i relatori, non riesco a distinguere il viso di nessuno, a eccezione del moderatore che mi squadra e poi mostra un plico. Le domande. Il fotografo si volta verso di me e mi acceca con il flash, tutte le sedie sono occupate tranne quella al centro del palco. Prima di avanzare cerco un incoraggiamento negli occhi della bidella, che invece si ritrae e chiude la porta. Muovo alcuni passi e centinaia di pupille mirano al mio corpo che, nell’avvicinarsi alla sedia al centro del palco, perde peso e tridimensionalità.

 

Ho dei disturbi a parlare in pubblico. Credo che nessuno lo abbia mai sospettato, tantomeno la project manager. Quando mi ha chiesto di preparare una presentazione sul concetto di arte nell’epoca dei social media, io, con un filo di voce, ho provato a farla ragionare, a suggerire di annullare l’intervento, ma lei ha fatto una pausa e mi ha domandato, in modo retorico, se mi fossi dimenticato che è anche per merito suo se sono stato promosso. Sebbene sia diventato un assistente alla didattica da appena sei mesi, e quindi, tenendo conto della mia estrazione sociale, mi consideri una persona appagata, io sono ancora tale e quale. E cioè con queste ombre allacciate alla gola anziché ai piedi.

 

Le ombre sono, dice il divulgatore dalla televisione rimasta accesa, il primo strumento utile all’essere umano per tracciare una fedele immagine di sé; dai piedi, di solito, si genera il contorno dell’area con cui ognuno oscura un po’ di mondo. Sono d’accordo. Purtroppo però con questa espressione, avere le ombre allacciate alla gola, io voglio dimostrare che non soltanto subisco delle crisi respiratorie, ma addirittura che sono incapace di proiettare la mia ombra sul mondo. Che sono monodimensionale. Una linea. In conclusione, avere le ombre allacciate alla gola significa essere sovrapposti alla propria immagine: nel mio caso, corpo e ombra coincideranno sempre.

 

Eppure il mio corpo l’ho mantenuto abbastanza bene. Da molti anni – anche la domenica, anche la mattina di Natale, anche il giorno in cui mi sono sposato, e persino il giorno in cui è nato mio figlio – mi sottopongo a sessanta minuti di allenamento giornaliero. Sempre. Sordo a ogni riposo. Sordo a ogni precauzione contro l’infortunio. Io mi alleno come un carcerato. Voglio sfinirmi, trasformare lo spostamento del peso in un’anestesia, voglio evitare che il mio sguardo si curvi verso terra e l’andatura del passo diventi troppo affannosa; e inoltre voglio evitare che tutto il ridere di una giornata si comprima negli spiragli di pausa dal lavoro. Io comunque di mio rido poco. Ormai, a forza di osservare le persone sui mezzi pubblici, sono diventato uno specialista nel riconoscerli, i monodimensionali, gli scontenti, gli impiegati. Quelli che potrebbero essere i miei simili. Ne sono ripugnato. Ma ancor di più mi ripugnano gli altri, per esempio quelli entusiasti e quelli che occupano più spazio di quanto dovrebbero, mi ripugnano la palestra e l’esposizione dei muscoli o della cellulite, mi ripugnano la competizione, i commenti sulla figa tra una serie e l’altra. Io pratico una disciplina di mia invenzione che prevede combinazioni di esercizi mutuati dalla boxe thailandese e dalla meditazione. Mi alleno sempre a corpo libero. Sempre in silenzio. Sempre in camera da letto. Mangio sano e fingo di essere una persona paziente. Mi piace convincere gli altri che sia buono nell’animo. Che sia un lavoratore instancabile. Eppure, ora che mi trovo a valutare il tempo a disposizione per realizzare la presentazione per il convegno, otto ore circa, vorrei chiamare la project manager per spiegarle che da oltre quindici mesi, e cioè dal momento in cui è nato mio figlio, dormo davvero malissimo. Non sto bene e nemmeno mi sento lucido. Nel mio cervello la pellicola si attorciglia di continuo alle testine, si rivolta, storpia i fatti o li sovrascrive con particolari insignificanti. La caduta dei capelli è accelerata, il fiato sempre più corto. Velature limacciose nell’iride. Esibire i segni della mia trasandatezza, mi dico, sarà sufficiente a giustificare il rifiuto di parlare al convegno senza dare una cattiva impressione. L’impressione di essere un minchiamoscia.

 

Afferro il telefono e seleziono il nome della project manager, sullo schermo appare una cornetta verde.

Prima di sentire squillare, pigio la cornetta rossa.

Sono le undici e mezza di notte e mi convinco che sia più consono comunicare via email. Organizzare un’arringa. Allegare dei documenti. Certo, se soltanto possedessi uno scanner o un telefono con fotocamera ad alta risoluzione. Io comunque non fotografo quasi mai. A me incuriosisce la tecnologia, sia chiaro, ma per il momento preferisco negare al cloud la responsabilità di salvare. Di salvare le immagini della mia vita, intendo. Quando l’esperienza coincide sempre con l’immagine, quando il tempo dedicato alla vita coincide con il tempo dedicato alla sua riproduzione, diventa impossibile misurarlo. Io sono ossessionato dal passare del tempo. Dal fatto che tutte le persone, persino mio figlio, che ha pochi mesi, stiano morendo a una velocità diversa dalla mia. E così moriranno il mio telefono e la fotocamera di bassa qualità. Tuttavia in questo caso, per trovare il coraggio di respingere l’invito a parlare al convegno, e però non fare la figura del minchiamoscia, mi farebbe comodo avere un archivio digitale di fotografie. Una prova inequivocabile che dimostri il mio buon occhio, come si dice in gergo, e cioè la mia capacità di organizzare l’esperienza estetica in categorie precise: il sublime e il trash per esempio. Invece per me è sempre più difficile distinguere la fiction dalla non-fiction, l’immagine dall’oggetto, la replica dall’originale, il prezioso dal superfluo. Il lavoro dal non-lavoro.

 

Ho una carta ricaricabile, un contratto che non prevede scorte di gigabyte. Cerco di ricordarmi tutto. A partire dal fatto che vivo in un quartiere popolare di una grande città, oltre la circonvallazione, e ho stipulato un mutuo millenario per diventare il proprietario di un bilocale. Un mutuo millenario per continuare a essere il debitore di una banca che, al contrario, mi ha ringraziato per aver investito su me stesso. È la direzione del debito a dare la direzione alla società, scrivo alla project manager, ma poi mi pento subito e cancello.

Due inalazioni dal broncodilatatore. Rilasso il diaframma e lascio perdere la mia arringa. In effetti io ho bisogno di mettermi in evidenza, e magari diventare un insegnante a tuttotondo e guadagnare un po’ di soldi in più, non tanto per me, piuttosto per consentire a mio figlio di stare in una cameretta tutta sua. Per dimostrare a mia moglie che sono capace di provvedere al nostro sostentamento: «Gli incentivi sono tutto oggi».

 

Questa non è una conclusione mia, ovviamente, ma l’ho scopiazzata da un articolo che definisce l’uomo contemporaneo un animale costretto a muoversi per incentivi. E cioè per premi di produzione.

Se al convegno di domani mattina mi costringeranno a spiegare qual è la situazione dell’arte nell’epoca dei social media, dirò che innanzitutto è necessario spiegare qual è la situazione di chi oggi si accinge a produrre l’arte: vale a dire l’artista emergente. E questa situazione dell’artista emergente voglio analizzarla a partire da un parametro preciso, fondamentale, per me il più importante, e cioè dall’identificare quando una persona comune diventa un artista.

 

Ricordo che Marcel Duchamp, durante una conversazione con Pierre Cabanne pubblicata nel 1967, afferma: «Si fa pittura perché si vuole essere, per così dire, liberi. Non si vuole andare tutte le mattine in ufficio». Sul senso di questa affermazione, e in particolare sul senso della seconda metà, ho riflettuto parecchio e ho dedotto che, secondo Duchamp, essere un artista significhi innanzitutto non lavorare sotto un padrone. Io invece, in ufficio, sotto un padrone, ci vado davvero ogni mattina, e infatti non sono mai stato un artista, bensì sono stato assunto dalla scuola, circa sette anni fa, come una sorta di impiegato. A essere sincero, prima dell’assunzione è stato anche peggio, un naufragio nel tremendo maremoto del lavoro precario e fuori tema, la cosiddetta gavetta di ’sto cazzo, che spesse volte mi ha fatto dubitare delle mie motivazioni e delle mie capacità. Sulla scrivania ho appiccicato un post-it con una frase di Walter Benjamin: «La posizione dell’intellettuale nella lotta di classe è deducibile soltanto dalla sua posizione all’interno del processo di produzione». La mia posizione nel processo che produce la cultura è ancora molto plutonica, mi dico, benché ora, grazie alla recente promozione, io insegni e abbia compiti gestionali in un dipartimento che si occupa di arte.

 

E sono molto soddisfatto di tutto ciò, malgrado il mio più grande desiderio sia smettere di lavorare. Non lavorare poco o lavorare da casa, intendo, ma smettere di lavorare in maniera certificata e definitiva. Restarmene ai margini e osservare il girotondo compiuto dagli altri. In particolare quello compiuto dagli artisti contemporanei, gli unici soggetti che, come per l’appunto sostiene il loro capostipite Duchamp, lavorano senza un padrone. Per capire come ci riescono, in questi anni di contributi pagati allo Stato ho letto molto, per esempio ho letto manuali che spiegano come diventare un artista costruendosi il proprio metodo creativo, raccolte di interviste ad alcuni artisti famosi, e ancora ho letto biografie e saggi che analizzano la vita e la pratica di ulteriori artisti famosi, e infine decine di articoli firmati da critici d’arte e curatori, sociologi, antropologi e via dicendo.

 

Ma non mi è bastato. Ritengo che anche questa sia in fondo una semplificazione per sommi capi della vita reale. Quello degli artisti attivi oggi e di come campano è un enigma che mi arrovella giorno e notte. Degli artisti infatti mi ossessionano le abitudini e i capricci, la capacità di essere quasi sempre imprevedibili, di trovare comunque una soluzione, e mi ossessionano anche le loro vicende e le loro voci. Di conseguenza li studio da oltre dieci anni in maniera talvolta invadente, non ne posso proprio fare a meno, e questa teoria di Duchamp, sul produrre arte per sottrarsi dall’avere un lavoro fisso o dall’avere un padrone, alla fine mi ha condizionato. Ma qual è il momento, continuo a chiedermi, il fattore discriminante nella vita di una persona comune per fare in modo che diventi un artista?

Ecco. Finalmente mi decido ad accendere il portatile e ad aprire il programma per le presentazioni: documento vuoto e senza titolo, al momento.

 

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