di Igino Domanin

 

La scuola non ha mai chiuso, non si tratta di “riaprirla”: vorrei che fosse il punto di partenza chiaro di un ragionamento problematico, non esente da dilemmi, diretto a una congiuntura e non a stabilire principi universali.

Il 14 settembre ho rimesso piede nell’edificio del Liceo scientifico dove insegno: non lo facevo da 7 mesi. Sono arrivato molto presto, perché dovevo vigilare sugli ingressi che avvenivano scaglionati per evitare gli assembramenti. Alle 7,45 dovevo trovarmi già al piano, fare la spola tra due aule, controllare l’arrivo del 50% degli alunni previsti per ciascuna classe: l’operazione si concludeva entro le 8,15. In tutto 30 minuti, in una atmosfera raggelata, tipica delle situazioni catastrofiche attuali, che sembrano tutte svolgersi a una velocità rallentata. Hai tutto il tempo per renderti conto che sta avvenendo qualcosa di brutale e traumatico, ma appunto resti lì ipnotizzato come uno spettatore che rivede un’azione di football o uno sprint di atletica leggera, quasi che il trascorrere del quadro sia la condizione del comporsi progressivo e ineluttabile del suo oggetto tragico.

 

Entrando a scuola osservo il vicepreside controllare quel che avviene all’ingresso generale, poi proseguo lungo un percorso tracciato, mi fermo a igienizzare le mani, salgo le scale, trovo i colleghi che appaiono distanti, sfocati, qualcuno sfida il senso del ridicolo agitando la manina, qualcuno  vorrebbe sorriderti con gli occhi, ma mi trovo sempre precauzionalmente a due metri e mezzo da loro, pure insonnolito, quando me ne accorgo. Insomma sono a scuola, ma la situazione è da Unheimlickeit freudiana, quella per cui ti sconcerti di più, quella in cui apparentemente ti trovi in un luogo familiare e invece scopri che non è, ma soprattutto non sai perché.

 

Stare isolati, distanziati, nascosti dalla mascherina, con una presenza dimidiata, mentre il resto della classe ti segue con enorme difficoltà da casa attraverso un microfono e una telecamera, con la sala professori vuota, il bar chiuso, il divieto di intervalli, la mancanza di una socialità possibile, prima durante e dopo la scuola. Vorrei che non si mitizzasse la riapertura della scuola e si sapesse brutalmente dire di che cosa si è trattato in molti casi. Siamo andati avanti per poco, senza alcuna sicurezza, con l’ansia di fare il più possibile, prima che quella possibilità svanisse, con la consapevolezza di dover tornare a usare solo ed esclusivamente le piattaforme digitali per proseguire l’anno scolastico. Le classi cominciarono a essere messe in quarantena, il metodo del tracciamento provocava una estensione vasta e sistematica del rilevamento della positività; nei pressi della scuola, negli ultimi tempi, c’erano file di macchine con parecchi docenti alla guida che andavano verso l’ospedale per sottoporsi all’esame. Dopo poco, l’ennesimo crack annunciato: la scuola ha chiuso, tutto sbaraccato, con un preavviso di due giorni al massimo. Tutto da rifare, si deve tornare alla DAD, bisogna riorganizzare, riprogettare, protocollare. Perché questo, se non bastasse, è stato il secondo tempo della riapertura. Naturalmente in alcune scuole, subito dopo la chiusura, sono arrivati i banchi con le rotelle, ovvero il grande tema didattico ed educativo che il dibattito pubblico aveva affrontato dopo l’estate.

 

Da allora mi sveglio più tardi, la lombalgia si è fatta più acuta, i vestiti d’ordinanza sono meno curati e vari. Faccio tutto molto in fretta, la colazione, l’abluzione, la vestizione. Ho il pc nella mia camera da letto, cioè dopo aver compiuto i riti scialbi del risveglio, mi tocca di tornare dove ho già passato tutta la notte. Dietro di me c’è una parete bianca, neutra, nell’inquadratura che offro ai miei studenti c’è solo quel candore impallidito, la sporgenza della libreria con qualche dorso appena colorato di vecchi libri acquistati in gioventù, una luce accanita che splende da una lampadina montata con un braccio e un gancio a un ripiano della libreria. Questa luce deve curiosamente irradiare il mio volto circonfondendolo talvolta, se non ben calibrata, di una paradossale e risibile aura. Così appaio ogni mattina, ma soprattutto, così appaio a me stesso. Perché per la prima volta mi vedo mentre spiego, grazie allo schermo sono anch’io uno dei tanti volti che compongono la classe: anch’io dentro una finestra ben isolata e ben iperconnessa, tessera di questo incongruo mosaico.

 

Sicuramente mi distrae, mentre parlo di Platone osservo la smorfia o il ghigno che mi scoppiano involontariamente sul viso, i miei occhi fessurati o il diastema sempre più ampio nei denti superiori.  Mi ricorda quella scena sartriana de La nausea in cui Roquentin a forza di fissarsi nello specchio non percepisce più il suo volto, ma un grumo di carne caotica e disorganizzata.

La DAD non è salutare, mi anchilosa, m’innervosisce, mi coarta. Sono costretto a inventarmi forme di discorso e di interazione che ostentatamente rifiuto come essere umano un po’ preistorico che si aggira casualmente nel secolo corrente. Fin qui sono io e la mia carne, ma poi c’è il fatto che parlo di fronte a una platea che ogni mattina fatica perfino ad avere la linea, forse a svegliarsi, che guarda in direzione dello schermo e della webcam, ma magari sta con la testa su Instagram o Whatsapp. Si fanno ore asincrone, si registrano le lezioni abbassando ogni attenzione per la privacy, si condivide lo schermo e devi pure stare attento a non far comparire per sbaglio la pagina aperta della tua mail.

 

Sono rapido e vado solo per cenni, soltanto per dire che certamente siamo in uno sfacelo lento e inesorabile, traumatico, che causa danni profondi. La scuola però esiste, è andata avanti, ci siamo stati tutti noi che ci lavoriamo o abbiamo figli: anche in questa forma. Non lo nego, anzi confesso che ho una paura fottuta di quel che succede, e che mi sveglio col timore che, per esempio, mia figlia che è al primo anno di liceo scientifico e ha frequentato sì e no 3 settimane e non conosce praticamente nessun compagno di scuola, molli tutto e mi dica (come è già successo), Guarda papà che non ce la faccio più, da domani non mi connetto.

E aggiungo quindi che dopotutto ho finito per rimpiangere quell’apertura traballante di settembre, quel brandello di scolarità fisica e in presenza che pure c’era allora, anche con tutte le gravi lacune, difficoltà, contraddizioni che comportava. Non sono un apologeta della DAD, non credo che possa sostituire la didattica in presenza, ma dico anche che senza la tecnologia non ce l’avremmo fatta e che è grazie alla tecnologia che abbiamo tenuto aperta, in qualche maledettissimo modo, la scuola.

 

Perché, allora, non bisogna “riaprire” il 7 gennaio? Perché non concederci daccapo quel brandello di didattica in presenza che ci è stato consentito dalle circostanze? Soprattutto dal momento che perlomeno gli edifici scolastici sembrano più organizzati e più sicuri di un centro commerciale o del supermercato dove fai la spesa tutti i giorni. Penso che dobbiamo aspettare proprio perché la scuola non ha mai chiuso finora e cerca di tenersi in piedi con uno sforzo, in primis psicologico, immane.

Quello che pavento è molto semplice, senza essere un tecnico o un esperto di alcunché: mi pare ci siano dei rischi evidenti, molto maggiori di settembre, quando abbiamo assistito a una rapida e rovinosa chiusura. La situazione è assai peggiore e vicina a soglie di rischio importanti, i vaccini sono lontanissimi dall’essere una soluzione, ci sono mutazioni in giro del virus che pare lo rendano molto più contagioso. Quale sarebbe allora la soluzione? Quella di anteporre il principio che le scuole “devono” essere “aperte”, a dispetto del fatto che non sappiamo realmente come l’ovvio aumento della massa delle persone in circolazione può agire su una situazione fuori controllo, con la quasi certezza che dopo pochi giorni avremo di nuovo classi in quarantena, che i ragazzi arriveranno e soprattutto rincaseranno in orari assurdi per lo svolgimento dei compiti o di altre attività? Il punto è molto netto e dovrebbe valere soprattutto per il governo, in una situazione catastrofica come questa: vale la prudenza contro il rischio. Non si può scommettere, non si può aprire e chiudere la scuola, non si può essere flessibili con le zone a semaforo, perlomeno su una tema come la scuola.  È una congiuntura, non è un pronunciamento sul valore della scuola, sui massimi principi metodologici, su cosa è meglio o peggio in assoluto, ma semplicemente su cosa sia prudente scegliere ora. Aprire, correndo il serio rischio di chiudere tra 15 giorni, è una scommessa e come tale credo vada rifiutata. Non si gioca d’azzardo con l’ignoto: con ciò che ancora non si sa e non è dato sapere bisogna brandire la pazienza come arma razionale e scientifica, complicata e dubbiosa. Forse scomoda e lenta, ma solo dalla prospettiva dei pasionari per un giorno.

1 thought on “La scuola non ha mai chiuso

  1. Complimenti a Domanin per la bella riflessione intessuta di vissuti che sono comuni. Il sentimento di derelizione è l’unico elemento che davvero tiene assieme quelli che sono davanti a uno schermo. Quasi quasi mi rileggo “La nausea”. Ma Roquetin era da solo, nella sua città di provincia. Quasi quasi lo invidio.
    Quello che davvero non si tollera è la retorica governativa, il pressapochismo, la superficialità con la quale ci siamo scontrati come docenti da un anno a questa parte. Parte dall’alto e scende in basso sino all’ultimo dirigente, il collaboratore e poi la platea dissolta dei docenti, atomizzati, che tirano avanti come possano, senza una prospettiva, senza un perché: azzeramento del senso.

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