di Fabio Vittorini

 

[Pubblichiamo a stretto giro due interventi, di Fabio Vittorini e Fabio Rocchi, in risposta a un articolo di Matteo Marchesini uscito il 30 dicembre sul «Foglio»].

 

Qualche anno fa Matteo Marchesini, «critico quarantenne emergentissimo» (la definizione è stata coniata da Massimo Marino su «Doppiozero»), apriva il suo Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia con una dichiarazione promettente: «l’intento è quello di schivare sia la cattiva divulgazione che lo specialismo sterile: di andare, insomma, alla radice dei problemi, ridiscutendo ogni cosa daccapo, ripartendo dagli elementi primi». Pur odorando di autoinvestitura, l’obiettivo pareva nobilissimo: come si potrebbe contestare chi contesta le storture della divulgazione e dello specialismo? L’odore si fa più insistente nel successivo Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social, dove l’autore prende talmente alla lettera la missione del critico (intesa con caparbia letteralità come pratica del giudizio e della scelta) da sfociare talvolta in esercizio polemico fine a se stesso. Come è accaduto a numerosi predecessori e maggiori (d’età, certamente, ma non d’acume), la critica di Marchesini è sempre sul punto di farsi celebrazione del soggetto-che-critica più che dell’oggetto criticato, in un disegno a maglie larghissime fatto di copiosi volumi e articoli nei quali, alla ricerca incessante di nuovi «problemi» di cui andare «alla radice», l’oggetto è di volta in volta il testo e il suo autore (sistematicamente sovrapposti), poco importa se letterato o critico.

 

Il fatto è che, inchiodando il testo all’autore, l’esame dei problemi si trasforma facilmente in ricerca di bersagli e cresce esponenzialmente il rischio di cadere in una competizione «cattiva» e «sterile», che si ferma prima di dare forma a qualunque tentativo di vera «divulgazione» o «specialismo». Infruttuosamente «sterile» e «cattivo» (d’intenzione, certamente, ma non di stile) è Lavagetto e Orlando: come ti uso la lente di Freud, l’articolo che Marchesini ha pubblicato sulle pagine de «Il Foglio» lo scorso 30 dicembre, a un mese esatto dalla morte del primo dei due bersagli annunciati nel titolo e a 10 anni e qualche mese dalla morte del secondo. Sorvoliamo pure sulla decisione di “criticare” chi non può replicare, preferendo il monologo post mortem al dialogo vis à vis possibile fino ad alcune settimane fa e promuovendo un’idea di “critica” di saprofaga voracità. È però impossibile non rilevare il qualunquismo e il pre-giudizio che affliggono l’articolo. Il primo si palesa fin dall’incipit, in cui veniamo messi a parte di un ipotetico battibecco primadonnesco a distanza dei due vecchioni, che ne mette subito alla berlina la credibilità: «“Sarebbe bravo, peccato non si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Orlando di Lavagetto. “Sarebbe bravo, peccato si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Lavagetto di Orlando». Potenza del gossip del «pare che», in cui ogni congettura evoca subdolamente un’affermazione. Il secondo sta nella costruzione retorica del bersaglio, un Lavagetto che viene subito lasciato solo sulla scena, per essere dichiarato reo di:

 

1) lasciare aleggiare sulle sue «indagini […] il fantasma della teoria», presupponendo che la teoria sia un male (come se il culto impressionistico dell’empiria vigente nel totalitarismo di massa dei social network l’avesse dichiarata nemico pubblico insieme a ogni categoria che implica studio e/o insegnamento);

 

2) vedere «nella critica l’attività mediatrice di un corpo di specialisti», presupponendo che la specializzazione sia un male (come se la tuttologia vigente nell’era del populismo pseudodemocratico della rete l’avesse messa al bando insieme a ogni attività “critica” del sistema, consegnandone gli esponenti, complottisticamente raccontati come una setta, ai leoni, rigorosamente da tastiera, del circo);

 

3) non distinguere «la critica dallo studio specialistico», presupponendo che lo specialista «ideale» (alias l’accademico) si permetta «di dare per presupposto il ruolo di un autore o di uno stile all’interno di una cultura che si limita a ereditare, perché assegna a sé stesso il compito di analizzare i caratteri di quell’autore e di quello stile su quello sfondo dato», mentre il critico «ideale» (in quanto non accademico) sarebbe «colui che rimette tutto radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra il presente e il passato» (come se, quando non si viene accolti in gloria nella dimora dell’accademia, non restasse che ridicolizzarla facendola apparire come un grottesco maniero in rovina).

 

Il fatto è che, ad avere ascoltato e soprattutto letto (tutto) con attenzione Mario Lavagetto, senza pretendere di comprimerne sbrigativamente il pensiero nel pamphlet Eutanasia della critica, Marchesini avrebbe scoperto che si trattava e si tratta di un «autentico critico» proprio in quanto specialista autentico (Lavagetto avrebbe rifuggito il moralismo a pronta cassa dell’aggettivo «ideale») che, «non meno del narratore e del poeta, ripulisce i suoi oggetti dagli stereotipi e ci li mostra come se li vedessimo per la prima volta». Basterebbe sfogliare le pagine di Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust e La macchina dell’errore. Storia di una lettura per assistere alla potenza dello straniamento che deriva dalla rilevazione del lapsus d’autore e dal suo uso come antidoto verso ogni lettura stereotipa o sistematica. Basterebbe aprire La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura per trovarsi di fronte a un racconto ipnotico in cui la scrittura critica «è inscindibile da un’esperienza e da un sapere che hanno i confini incerti della vita», che non si tenta in alcun modo di rimuovere o assolutizzare proprio grazie a un uso euristico della teoria (anzi, di una somma di teorie, perché il singolare presuppone subdolamente una sistematicità inesistente) come grimaldello per aprire porte, liberare segmenti rimossi di esperienza, legittimare proprio la complessità irriducibile della vita psichica.

 

Gli «a priori metodologici» presunti nei saggi di Lavagetto sono quelli che servono a Marchesini per costruire retoricamente un’idea di critica da esorcizzare per legittimare l’idea contraria (la sua). La «coazione allo studio» che Marchesini dileggia è la serietà deontologia dello studioso che prima di scrivere legge (e legge il più possibile), di certo estranea («unheimlich»?) a chi, imitando frammentari pastiche vetero-postmoderni d’oltreoceano, scrive: «Novecento: leggi e rileggi un testo finché scatta il clic della comprensione e lo commenti. Duemila: clicchi e commenti un testo finché scatta la lettura e lo comprendi». Perdoniamo dunque il «critico ideale» del Terzo Millennio, legittimato a commentare prima di leggere, per le forzature e i fraintendimenti inflitti al lavoro di un intellettuale del Novecento che ha trascorso tutta la sua vita lavorando con la competenza e lo scrupolo del professionista (parola che, in epoca di incompetenza trascendentale, si può usare come un insulto), indifferente a qualunque «legittimazione» che non provenisse dalle aule universitarie nelle quali, come un vero (non ideale) critico, ha militato per decenni. Lo perdoniamo per la goffaggine con la quale, dopo avere iniziato il suo articolo additando nel «metodo freudiano» un gravame teorico da eliminare per liberare la critica «ideale», finisce proprio psicoanalizzando la scrittura lavagettiana, nella quale un terribile «Super-Io accademico» avrebbe scatenato «l’impulso di morte» distruggendo «l’impulso erotico senza il quale nessuna critica integra può sopravvivere». Se, prima di commentare, il «critico ideale» del Terzo Millennio avesse letto Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron (2019), avrebbe scoperto che un Lavagetto ormai ottantenne nutriva per il testo letterario un eros che neanche una malattia gravosissima è stata capace di affievolire e tantomeno di trasformare in spirito di rivalsa cieco e rabbioso verso chi, per anagrafe più giovane e più sano, poteva ancora esercitare la funzione critica in piena libertà e in beata leggerezza.

8 thoughts on “Esercizio di incompetenza trascendentale 2. In risposta a Matteo Marchesini su Mario Lavagetto

  1. “ Martedì 14 ottobre 2008 – « Così poteva accadere di ricevere una lettera in cui un ricercatore universitario dichiarava di voler approfondire la letteratura comparata “ materia per la quale, haimè, mi è stato conferito l’incarico di insegnarla “ (tutto fedelmente riportato, compreso il mirabile campione ortografico). Quel ricercatore (vale per la cronaca) oggi è professore associato e non è difficile – con pubblicazioni in tutto e per tutto degne della sua scrittura privata – pronosticargli, in un prossimo futuro, l’ordinariato. » (Mario Lavagetto, Eutanasia della critica, cit.) “.

  2. “come se, quando non si viene accolti in gloria nella dimora dell’accademia, non restasse che ridicolizzarla facendola apparire come un grottesco maniero in rovina”.

  3. A proposito del concetto di specializzazione, evocato qui varie volte, e del suo conseguente dilemma: bene VS male, Francesco Orlando aveva scritto un saggio molto acuto e gustoso sull’argomento su un vecchio numero della rivista “Strumenti critici” (vado a memoria), giungendo alla conclusione che la specializzazione sia un “male necessario”, per distinguerla dal fatto che la si consideri un semplice “male”.

  4. Condivido in pieno quel che scrive Fabio Vittorini.

    Se c’è una cosa che un critico vero (lasciamo stare l’ideale) dovrebbe evitare sempre, per minima deontologia, per elementare onestà, è usare concetti generici e non definiti, incasellare i propri oggetti polemici in categorie vaghe e prive di significato storico. Che Orlando e Lavagetto siano ‘freudiani’ è affermazione che andrebbe corredata di numerosi distinguo, per entrambi. Che incarnino ‘il volto umano’ (!) della presunta deriva teorica è una sciocchezza a effetto. Che il critico si contrapponga allo specialista, al professionista, all’accademico, è ingenua astrazione, che apre la strada a tutti i dilettantismi, impressionismi, e soprattutto narcisismi dei nostri anni. Queste generalizzazioni sono sciocche sempre, e sono di pessimo gusto a poche settimane dalla morte di un grandissimo critico.

    Orlando e Lavagetto, in modi molto diversi, hanno coniugato finezza e rigore, filologia e teoria, eleganza e passione (anche politica). Ci mancano.
    Mi consolo pensando che a Lavagetto gli Homais dei nostri giorni piacevano. Lo divertivano. Aveva una capacità straordinaria (e un po’ intimidente) di cogliere le sciocchezze, di smontare i ragionamenti fatti male. Nelle occasioni, non frequenti purtroppo, e non recenti, in cui mi è capitato di discutere di letteratura con lui, non c’era riserva di sapere che la mia (al tempo) giovanile arroganza potesse opporgli: trovava infallibilmente l’anello che non tiene nel ragionamento mio, e in quello di molti altri suoi interlocutori. Oltre che finezza di lettura, insegnava umiltà intellettuale (mai rinunciataria, però): anche per questo, la sua lezione è attuale.

    (Forse LPLC potrebbe offrire al lettore anche il testo dell’articolo di Marchesini, per far capire meglio di che cosa si sta parlando).

    (A proposito. Condivido in parte anche quanto scrive Fabio Rocchi nell’intervento parallelo. Giustissima in particolare la precisazione su Fortini – meno giusto rinchiudere Lavagetto nel primo Novecento: e “La cicatrice di Montaigne”, per citare un solo titolo?
    Mi sentirei però un po’ a disagio nel commentare un intervento che si presenta come discussione non solo di un articolo non immediatamente reperibile, ma anche di una serie di post inaccessibili a chi, come me, felicemente fa a meno di Facebook: forse valeva la pena di dar conto delle premesse anche ai lettori di LPLC, oppure di ignorarle).

    (per Adriano Barra: naturalmente quel ricercatore, di cui parlava “Eutanasia della critica”, oggi è ordinario; questo per dire che la contrapposizione fra accademici e non accademici è un’altra sciocchezza; critici bravi ce ne sono per fortuna dentro e fuori dall’università; e sia fuori sia dentro, come cantava un grande poeta, “quand on est con, on est con”)

  5. “la contrapposizione fra accademici e non accademici è un’altra sciocchezza” (Pellini)
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    Condivido.
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    SEGNALAZIONE
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    Intellettuali di fine Novecento: «sulla stessa barca»? «su vagoni diversi»? Un carteggio con Sandro Briosi (1993-1998)
    di Ennio Abate
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    Stralcio:
    Se un bilancio di questo carteggio s’ha da fare, direi oggi che, grazie a Sandro, io arrivai all’accettazione di fatto, se non teorica, del valore di quei momenti “disinteressati” e sottratti al conflitto sociale, che egli teorizzava (le lettere di entrambi lo provano); e lui, grazie a me, si sporse quanto poté verso il mio esodo, tentando fin nella sua ultima lettera di correggere fraternamente la mia andatura, che riconosco impacciata.
    Ma un bilancio mi sento di fare anche del mio via vai da chierico vagante tra l’Università di Siena e Colognom. A dieci anni dalla morte di Sandro Briosi, a quattordici da quella di Franco Fortini, non vedo più quella costellazione, diversificata ma coesa, di docenti della facoltà di Lettere e Filosofia, che rappresentavano nella mia mitologia quasi uno stato maggiore della cultura critica di sinistra, a cui guardare con speranza e con cui interloquire attivamente anche dalla periferia milanese. Oggi so che Fortini vi stava come in uno splendido isolamento, che la sua collaborazione ad «Allegoria» non era pacifica (Vado a ricontrollare sul numero 7 del 1991 le scintille a proposito di Benjamin tra lui e il direttore, Romano Luperini) e che anche Sandro non solo era abbastanza distante da Fortini, ma aveva collaborato con «Allegoria» su un proprio filone di ricerca, coniugando la lezione esistenzialista del suo Sartre critico con la fenomenologia e un interesse sempre più preciso per il simbolo contrapposto all’allegoria. Dieci anni dopo la sua morte l’università di Siena, che aveva avuto Sandro Briosi tra i suoi animatori più preparati e attivi, l’ha commemorato con una giornata di studio. Non mi sono sentito di andarci. E allo stesso modo mi sento sempre più fuori posto nel Centro studi Franco Fortini, che pur ho frequentato dalla sua fondazione. Qualcosa si è spezzato. Certe morti pesano. I due vagoni – dell’università su cui viaggiava Sandro, della periferia in cui viaggiavo e viaggio io – forse sono stati, come temevo, separati. Non so se Sandro potrebbe dirmi ancora oggi il suo quieto «siamo sulla stessa barca». La mia via per l’esodo non passa più per Siena.
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    (da Poliscritture N. 5 – Febbraio 2009 scaricabile qui: http://www.poliscritture.it/la-rivista-in-pdf/)

  6. “ Sabato 21 giugno 1997, Lido Macarro, Maratea (PZ) – « Per chiudere con una nota polemica, non ho bisogno di sottolineare la mia ostilità per quelle confusioni fra critica e letteratura creativa che sono state messe in circolazione soprattutto da Roland Barthes, e che nella sua scia si sono poi largamente affermate. Dico no a questo tipo di confusione; ricordo ancora il dottor Lacan, in una conferenza qui a Pisa, gridare con quanto fiato aveva in gola: “ Il n’y a pas de métalangage! “. Ebbene, si sbagliava: c’è un metalinguaggio, così come c’è il linguaggio primo degli artisti, dei poeti, dei romanzieri, degli autori di teatro, dei moralisti, dei saggisti, eccetera; solo in un secondo tempo arriviamo noialtri critici, nei nostri ristretti limiti utili e forse addirittura necessari, ma con un compito che rimane soltanto un umile compito di mediatori. » (Francesco Orlando, « Quand un fait est si vrai, il ne doit pas être dit », in «Inchiesta», a. 26, n. 114, 1996, fascicolo sul tema: Il prezzo del reale: denaro e romanzo) “. Secondo me, il punto è tutto qui, nel “ secondo tempo “. Cioè nella questione del tempo. C’è dell’onestà, c’è dell’umiltà, è vero nell’arrivare “ in un secondo tempo “, ma, mi si perdoni, c’è anche della malizia. Come se si dicesse: vai avanti tu (a scrivere) che a me viene da ridere. Una malizia probabilmente involontaria, nel caso di Francesco Orlando, una malizia “ oggettiva “, “ storicamente determinata “ diciamo così. Ma, sempre a mio modestissimo modo di vedere, c’è anche una malizia che può diventare un vizio, come tutti i vizi piuttosto assurdo. Mi permetto di cercare di spiegarmi al mio solito modo: “ 14 giugno 1994 – « A scrivere sono buoni tutti, a leggere, no. ». È questa l’idea semplice e maliziosa da cui nasce la propensione a occuparsi, piuttosto che di letteratura, di critica letteraria. È un’idea nata negli anni Sessanta, quando si diceva « rivoluzione » ma si pensava « specializzazione ». Negli anni Sessanta per me era già un’idea vecchia. Grazie ad essa avevo attraversato pressoché trionfalmente gli anni della mia carriera scolastica, quando, mentre altri si ostinavano magari a scrivere, io leggevo, e leggevo bene. Dal punto di vista di chi ha rinunciato « professionalmente » a scrivere, chi scrive viene sempre a trovarsi, come direbbero i giornalisti, « nel mirino ». A scrivere si rischia sempre di passare per matto, o, se va meglio, per qualcuno che ha dei « problemi ». A maggior ragione se si tratta di scritti che rasentano, Dio ne scampi, il deprecato territorio dell’autobiografia. È così che si diventa giornalisti. O professori. Pur di non parlare di sé. Pur di fare finta di non esserci. « Ma lei, perché scrive? », si potrebbe alla fine chiedermi. Qualcuno dovrà pur farlo, rispondo io. Intanto, leggo anche. O forse è perché mi piace il rischio (e poi chi ha detto che scrivo?). “.

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