di Fabio Rocchi

 

Ho letto con molto interesse il commento di Stefano Brugnolo al recente articolo di Matteo Marchesini (Lavagetto e Orlando: come ti uso la lente di Freud), uscito su Il Foglio quotidiano il 30 dicembre scorso. Vorrei inserirmi nel dibattito che si è aperto su quella pagina Facebook, condividendo il mio punto di vista sulla questione e isolando tre aspetti che, nel discorso di Marchesini, faccio fatica a fare miei.

 

Leggo gli articoli di Marchesini con una certa assiduità e ne ho spesso ricavato spunti di riflessione. Nel suo modo di ragionare ho più volte apprezzato la capacità di costruire per tappe, e ormai da anni, il racconto di un ideale di letteratura estremamente coerente. Di lui infatti mi sono sempre piaciuti la disincantata disamina del panorama letterario italiano contemporaneo e la tendenza alla revisione del canone, presente e passato. Due esempi tra tanti, sempre apparsi sul Foglio, che mi hanno insegnato molto: il bellissimo articolo dedicato all’inattualità della scrittura di Federigo Tozzi (6 aprile 2020) e quello costruito a partire dal Pantarèi di Ezio Sinigaglia (22 dicembre 2019). Questa volta invece, nel pezzo dedicato a Lavagetto e a Orlando in veste di esponenti di una critica “psicoanalista”, superata e superabile, ho avvertito fin dal titolo qualche resistenza di troppo. Vorrei provare a chiarire questa sensazione, argomentando come dicevo su tre punti che spero tra l’altro possano dare origine ad un confronto nel merito del tema che Marchesini pone sullo sfondo, ovvero quello del «destino degli studi letterari», della loro attualità così come del loro futuro.

 

1.

 

Il primo punto su cui non sono d’accordo: aver fuso insieme troppo frettolosamente identità così complesse come quelle di due maestri del calibro di Orlando e Lavagetto, utilizzando tout court la prospettiva freudiana. Per entrambi l’influenza della psicoanalisi fu certamente un punto di partenza, ma che si è poi concretizzata in esiti mi sembra molto diversi. Non si tratta di stabilire chi dei due abbia lasciato maggiormente il segno nel panorama della critica letteraria italiana, ma è un fatto che non ci troviamo in presenza di opere comparabili. I libri di Lavagetto e quelli di Orlando differiscono nello stile, nelle scelte relative agli ambiti di studio e nello sforzo analitico. Lavagetto, in sintesi estrema, è spesso rimasto splendidamente concentrato sul primo Novecento (Svevo, Saba, Proust) regalandoci pagine profonde e connettendo quegli autori a tutto un milieu mitteleuropeo che trovava proprio nelle discipline freudiane una sua perfetta contestualizzazione. Orlando invece, dopo i sondaggi sulla figuralità del Seicento francese nel teatro di Molière e Racine, si è spinto in direzione della comparatistica, utilizzando un metodo estremamente rigoroso di analisi, selezionando in contemporanea più letterature e dando vita a operazioni sistemiche e razionali che rappresentano forse il suo lascito più vivo, ancora attuale. Opere come Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura del 1993 (nuove edizioni Einaudi 1994 e 2005) e come Statuti del soprannaturale nella narrativa, contenuto nel primo volume de Il romanzo a cura di Franco Moretti del 2001, poi confluito nel postumo Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme del 2017, hanno lasciato un’eredità cospicua e affascinante, in grado di riflettere sul ritagliamento formale dei temi e dei motivi. Si tratta di un orizzonte di senso capace di indirizzare la lettura critica in una dimensione diacronica e storicistica, connettendola a costanti precise, quelle che Orlando tanto amava e tanto sapeva mettere in relazione tra loro. Non è questa la sede per chiarire in quale misura, ognuno a suo modo, i due maestri siano riusciti a mantenere il proprio pensiero a distanza di sicurezza dalla psicoanalisi per come essa è stata descritta nel corpus delle osservazioni freudiane, identificandola invece come strada possibile per sondare i substrati diversamente logici, e dunque solo a prima vista irrazionali, di un testo letterario. Ma una distinzione più di altre tra i due credo vada fatta, visto che non è di piccolo conto, ed è quella che riguarda la questione del biografismo. Lavagetto – in quell’Eutanasia della critica che Marchesini cita (Einaudi, Torino 2005) e che rappresenta un raffinato tentativo di riaffermazione della necessità della critica proprio mentre essa soccombeva agonizzante nel nuovo sistema culturale tutt’oggi in atto – ne decretava in buona sostanza la legittimità, riaffermando tra l’altro la vitalità di un concetto, quello dell’autore appunto, già dato per morto da Roland Barthes diversi decenni prima. Per Lavagetto «l’autore, conservato sullo sfondo, e non trasformato in un principio ermeneutico, può essere tranquillamente riconvocato per garantire alla critica una zavorra e insieme un punto di attracco; per non perdere ogni contatto con la terra ferma» (p.53 e più in generale pp. 43-53). Per Orlando al contrario l’individuo biografico non esisteva, semplicemente non era una dimensione di cui tenere conto nel momento in cui ci si avvicinava alla lettura di un testo. Le funzioni della regia narrativa, intersecate con quelle dei punti di vista secondo i quali veniva filtrata la diegèsi, erano sufficienti a polarizzare e a orientare il sistema di valori sotto il quale il testo era stato partorito. Chi, come me, ha frequentato le sue lezioni alla fine degli anni Novanta, ricorda molto bene che spesso il Contre Sainte-Beuve di Proust era il testo più invocato a difesa della separazione tra due io molto diversi tra loro. In altre parole, secondo quella prospettiva, non poteva esistere alcuna connessione tra emisferi tanto paralleli perché separati proprio da un forte presupposto teorico. Orlando dette per altro la prova più tangibile di questa convinzione nel suo L’intimità e la storia, il libro di analisi dedicato nel 1998 al Gattopardo in cui, quasi provocatoriamente e a conferma della validità del suo metodo, si sforzò in ogni modo di dimenticare di aver conosciuto Tomasi di Lampedusa e di aver egli stesso battuto a macchina, sotto la sua dettatura, sei degli otto capitoli di quel romanzo.

 

2.

 

Il secondo punto di dissenso con l’argomentazione portata avanti da Marchesini si concentra sul richiamo che viene fatto en passant sul magistero di Fortini, accreditandolo tra le righe come fautore della figura del critico portavoce del «senso comune». È vero che quella cosa Fortini la dice, come la riporta – per altro con molti passaggi omessi – Marchesini. Ma mi sembra che del pensiero di Fortini venga ripresa solo una parte, quella più funzionale a questo assunto: «La funzione della critica non è quella di mediare tra un’opera e un pubblico, bensì tra zone differenti dell’esperienza, ovvero tra un testo e ciò che il testo non è». C’è uno scritto di Fortini, datato 1970 e intitolato Critica letteraria e scienza della letteratura, in cui egli prende posizione a partire da un libro di Cesare Segre sulla questione per il quale Marchesini lo chiama in causa, ovvero le distinzioni sulle qualità e sugli atteggiamenti del critico autentico, nel momento in cui esso sia posto di fronte alle nuove esigenze introdotte dal crescente impiego delle metodologie scientifiche nel campo degli studi letterari. Leggendo quel testo ci si rende conto che la risposta che Fortini dà al problema si sottrae a qualsiasi semplificazione. Essa è riassumibile nei termini di una feconda antinomia: gli strumenti più rigidi e più penetranti della logica e del metodo sono ammessi nel momento in cui ci si avvicina all’analisi del testo, a patto che poi si sia in grado di trasferirli in un ambito discorsivo, totalmente aperto ad un confronto allargato che preveda anche e soprattutto una comunità di non specialisti. «… il critico letterario non potrà non servirsi dei contributi della filologia e di una possibile scienza letteraria (oggi, della linguistica, della semiologia, delle indagini strutturali), ma a patto di servirsene nel loro volgare, non nel loro latino; di impadronirsene, ove sappia e possa, con l’ostinazione dello specialista ma per usarne solo per quanto di sapere comune, o più comune, contengano, comportino o anticipino» (F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 776). Si tratta come si vede di due momenti che coesistono e che si traducono in azioni differenti – la lettura analitica e la successiva divulgazione – grazie al supporto di distinti registri comunicativi proprio perché, in questo discorso, non viene mai meno l’idea di un pubblico che possa essere messo nella condizione di rimanere in ascolto. Il Franco Fortini di questa pagina, così come quello lettore di Gramsci e il poeta, del tutto proiettato al di fuori del proprio ego per necessità storiche, nella sua inesausta attività di rielaborazione delle istanze marxiste difficilmente avrebbe abdicato alla funzione di mediazione culturale insita per lui nella figura dell’intellettuale.

 

3.

 

Il terzo punto di disagio che le parole di Marchesini mi hanno trasferito riguarda infine la distinzione tra studioso e critico che viene propugnata – uso volutamente un termine caro alla terminologia dell’Orlando teorico – all’interno di tutto il suo articolo. È senza dubbio una distinzione che mette a fuoco un problema, importante perché riesce a storicizzare molto bene quella fase in cui gli studiosi di letteratura, sulla scia dello strutturalismo e della narratologia, cominciarono a rendere iper-tecnico il loro discorso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Tuttavia non comprendo l’implicita promozione sul campo del critico che legge dominato sostanzialmente dal solo istinto e da una personale Weltanschauung. Forse riduco il concetto facendo leva sul suo minimo comune multiplo, a rischio di qualche fraintendimento, ma mi sembra comunque una strada troppo libera e rischiosa, nel momento in cui credo ci sia invece molto bisogno di forme anche radicalmente nuove di mediazione tra opere e pubblico, come si rifletteva in precedenza chiamando in causa l’assunto di Fortini. Leggere dominati da se stessi, abbandonando la via del metodo e invece dando ascolto ad una propria visione della vita può avere un senso? Mi pare di no. Ben venga la diminuizione del tecnicista puro, dello specialista cioè fine a se stesso, ripiegato in una posizione autoreferenziale a causa dell’ingombranza di quel Super-Io accademico al quale Marchesini attribuisce a conti fatti il fallimento della critica sia di Orlando sia di Lavagetto. Ma anche e soprattutto alla luce di questa separazione non mi sembra una sintesi corretta nei termini classificarli entrambi come semplici studiosi. Probabilmente non erano neanche dei critici puri. Nati entrambi negli anni Trenta del secolo scorso, queste personalità – esattamente come quella di Remo Ceserani del resto, un’altra figura di riferimento purtroppo anch’essa oggi scomparsa – provenivano dalla generazione forse perduta dei Maestri, in grado di fare scuola, di insegnare nella maniera migliore possibile, ovvero con l’esempio, imprimendo ai concetti che stavano alla base dei manuali di storia letteraria una rielaborazione in forme originali. Le testimonianze di quel tipo di pensiero, rimaste intatte dopo la loro morte, stanno lì a dimostrarlo, al di là delle ragioni dell’Accademia che Marchesini vorrebbe prevalenti. Anche se destinate probabilmente ad affievolirsi e ad essere superate dal progredire delle nuove impostazioni di ragione, prima ancora che metodologiche, che accompagnano l’avanzare di ogni secolo, esse sono comunque in grado di delineare un sentiero, di marcare una differenza portando avanti un atteggiamento proficuo, e in quanto tale da riutilizzare, di fronte alla pagina letteraria.

5 thoughts on “Orlando, Lavagetto e l’atteggiamento del critico letterario: una riflessione in risposta ad un articolo di Matteo Marchesini

  1. Forse non c’entrerà molto, come si potrebbe pensare, questa mia annotazione col corrente dibattere se Lavagetto o Orlando abbiano avuto un super-Io accademico o se siano stati più studiosi che critici, o più critici che specialisti, ma vorrei ricordare, per inquadrare in questo caso Francesco Orlando in una prospettiva più complessiva, che oltre al lavoro intellettuale anche l’impegno politico ha rappresentato per lui un aspetto centrale del suo essere (ed alcune sue “peripezie” accademiche sono per l’appunto addebitabili al suo impegno politico). Ovviamente nella storia della critica letteraria resterà l’autore della “Lettura freudiana della ‘Phèdre'” e non il docente univeritario che, informato da uno studente che nell’atrio della Facoltà, al piano inferiore, stazionava la Digos, ha interrotto la sua lezione dicendo che non poteva continuare a fare lezione con la polizia all’interno dell’università.

  2. “Sono quindi pure chiacchiere letterarie quelle che vertono attorno alla scrittura, all’impegno, ai valori, al ruolo della poesia nella società, etc. Semmai, la poesia ha una funzione sociale in quanto richiama gli uomini a sé stessi, alle proprie memorie, a quell’ascolto che è così prezioso per il poeta.” Sono parole di Franco Loi. Credo sia importante ricordarle, anche per spiegare per quale motivo “Leggere dominati da se stessi, abbandonando la via del metodo e invece dando ascolto ad una propria visione della vita” non abbia senso. Sempre che sia davvero l’abbandono di metodo quello che Marchesini propugnava. Ma in ogni caso, tutto è soggetto a una visione della vita.

  3. @ adriano barra
    Ovviamente questo rullo compressore accademico è inevitabile, ma finché resta un po’ di memoria mettiamo delle zeppe al meccanismo.
    Ovviamente?

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