di Pippo Ciorra
[Quello che segue è il capitolo 7 di Senza architettura. Le ragioni di una crisi, pubblicato da Laterza nel 2011].
- La meglio gioventù
Se questo libro fosse la sceneggiatura di un film, l’apertura di questo capitolo sarebbe ovvia. La prima immagine sarebbe infatti quella di un piano-sequenza che segue un giovane capelluto e barbuto che entra nell’atrio popolato di manifesti e volantini della facoltà di Valle Giulia a Roma (andrebbe bene anche il Politecnico di Milano, la Federico II a Napoli o lo IUAV), sale le scale e si infila in una delle grandi aule al primo piano, da dove viene un vociare fitto, interrotto ogni tanto da qualche urlaccio di tono un po’ più forte. O meglio, il giovane in questione vorrebbe infilarsi nell’aula, ma il massimo che può fare è fermarsi sulla soglia, o immediatamente fuori, addossato alla massa degli altri individui in eskimo e minigonna, e alzarsi in punta di piedi per vedere se in fondo, dietro a un muro di capigliature agitate e vocianti, si intravede la sagoma di un docente, o almeno della schiera di assistenti che in genere ne surroga la presenza. Potrebbe essere il primo giorno di un corso – quello nel quale si prendono le iscrizioni – e potrebbe facilmente succedere che alla fine di questa giornata metà anni settanta, durante la quale l’inavvicinabile cattedratico avrà fatto la sua prolusione e i suoi collaboratori (quasi tutti non pagati) avranno pazientemente raccolto firme e risposto a domande (soprattutto di carattere politico), che gli iscritti al corso risultino ben più di mille. La grande affluenza non sembra preoccupare il professore e i suoi, che piuttosto appaiono solo un po’ infastiditi ma inorgogliti per il successo. I mille verranno poi divisi nei quattro o cinque seminari dove i due/trecento iscritti avranno la fortuna di parlare col proprio assistente di media una volta al mese, e col docente un paio di volte l’anno, se va bene. Una scena del genere sarebbe in grado di commuovere fino alle lacrime un buon ottanta per cento dei veterani dell’attuale corpo docente, che si precipiterebbe a rimpiangere i buoni vecchi tempi, “quando gli studenti ancora leggevano i libri” e il docente era uno specie di demiurgo psico-politico-disciplinare che distillava sapere alla folla. Naturalmente all’epoca eravamo tutti più giovani e più pieni di speranze, e certamente non abbiamo nulla di cui pentirci, ma credo lo stesso che una visione del genere non debba provocare nessun rimpianto e nessuna nostalgia, se non quelle private. Anzi, l’inizio più appropriato per un capitolo dedicato ai problemi delle nostre facoltà – poiché non si tratta di un film – è una presa di posizione chiara e controcorrente: se allontaniamo lo sguardo dallo stretto presente e consideriamo gli ultimi tre decenni di vita delle facoltà di architettura italiane dobbiamo infatti riconoscere che almeno la prima parte di questo ultimo periodo è stata caratterizzata da una serie di cambiamenti decisamente positivi. Alcune di queste novità riguardano l’intero sistema universitario italiano, altri derivano da provvedimenti specifici per le facoltà di architettura. La maggior parte, come ben sanno gli addetti ai lavori, sono frutti tardivi dello spirito riformatore dell’unico vero ministro dell’università del dopoguerra, Antonio Ruberti. La prima conseguenza positiva di quei provvedimenti è che una scena in stile Marco Tullio Giordana come quella appena descritta oggi non è più possibile, neanche nel peggiore dei nostri scenari universitari. Proviamo quindi a riassumere molto brevemente i miglioramenti assimilati per poi dedicare un po’ di spazio ai problemi più urgenti.
- Improvements
Il primo e fondamentale passaggio evolutivo è stato all’inizio degli anni novanta la grande riforma che ha trasformato tutti i corsi progettuali in “laboratori”, l’adeguamento ad alcuni standard UE, l’introduzione dei semestri e dei corsi integrati, il tutto inquadrato nei primi e più significativi passaggi verso l’autonomia. L’impatto più importante, per quel che riguarda gli argomenti trattati in questo testo, è stato proprio quello sul numero massimo di studenti che un docente può trovarsi davanti in un corso, soprattutto se il corso prevede un’attività di laboratorio. Docenti e addetti sembrano già averlo dimenticato ma solo poco più di quindici anni fa i mille e più studenti a corso della scena descritta in apertura sono stati drasticamente ridotti al numero legale di 50, nei casi virtuosi e soprattutto nelle piccole facoltà, o tutt’al più alla deroga di 80/100 (con qualche eccezione in peggio) nel caso dei corpi accademici più riottosi e delle facoltà-moloch da 18/20.000 iscritti. Non siamo ancora al tetto di 13 studenti di un corso di progettazione in una facoltà americana, ma comunque è stato il cambiamento più radicale ed effettivo che io possa ricordare, anche perché attraverso il rinnovamento dell’ordinamento e della cornice didattica ha posto le basi per un cambiamento che doveva coinvolgere (e in molti casi ha davvero coinvolto) anche i contenuti dell’insegnamento. Per chi non è del mestiere questo passaggio merita una spiegazione ulteriore, poiché comporta una specie di piccola rivoluzione copernicana (o forse semplicemente un ritorno all’antico) nei rapporti tra il corpo studentesco e la facoltà. Il sistema imperniato sui laboratori prevede infatti che gli studenti non lavorino più rintanati nelle loro case per poi andare una tantum in facoltà a incontrare i docenti, ma che svolgano prevalentemente in aula il loro lavoro, in contatto continuo con chi insegna e soprattutto con i colleghi. Simmetricamente la struttura dei laboratori induce (obbliga?) il docente a una presenza attiva e al dialogo continuo nelle sue ore di lezione, tentando di demolire l’archetipo dominante del “luminare”di cui sopra, che viene una volta tanto, distilla una lezione e torna a scomparire nei meandri oscuri del sapere, affidando gli studenti ai suoi collaboratori (inevitabilmente “volontari”).
L’organizzazione di laboratori e corsi semestrali era completata dal secondo cambiamento epocale, quello dell’introduzione del sistema dei crediti. Ovviamente odiati a lungo dai nostri docenti, troppo affezionati all’onnipotenza di chi giudica assegnando un voto e basta senz’alcun rischio di relativizzazione, i crediti sono stati la prima moneta comune europea, il dispositivo che ha consentito ai nostri studenti di trascorrere periodi di studio in altri paesi, fare esami e corsi in altri facoltà, dare valore ad esperienze indipendenti eccetera. In sostanza l’istituto del credito ha il merito potenziale, ovviamente per chi ne è consapevole, di spostare il timone della formazione dall’istituzione al singolo studente, che nei casi migliori può progettare il suo percorso individuale verso il suo futuro professionale.
Il terzo aspetto tendenzialmente positivo degli ultimi anni è stata la scelta di disinnescare le facoltà-monstre da 20.000 studenti in favore di strutture a scala (un po’) più umana, nelle quali i numeri e i rapporti fossero meno paradossali, la selezione venisse svolta PRIMA e non durante il cursus studiorum, gli studenti fossero in grado di trovare nella scuola uno spazio aperto e disponibile da vivere con continuità, a contatto con le altre figure dell’universo accademico. Nella prima fase la decostruzione dell’arcipelago delle maxiscuole è stata portata avanti in due modi: apertura di nuove facoltà (piccole) in sedi decentrate e/o in aree e regioni dove non ne esistevano e frammentazione di facoltà troppo renitenti alla “riduzione” (in fondo “un uomo un voto” vale in ogni elezione accademica) in facoltà concorrenti ma appartenenti allo stesso ateneo. E’ successo così a Roma e a Milano. A Roma anzi si possono confrontare facilmente gli effetti delle due soluzioni. Da un lato la facoltà di Roma3, nata dall’istituzione di un nuovo ateneo, con accesso limitato a 150/200 studenti l’anno, piuttosto reattiva e a prima vista partecipe ai tentativi di rinnovamento e di miglioramento della qualità dell’insegnamento. Dall’altra le due facoltà della Sapienza – la Ludovico Quaroni e Valle Giulia, ora di nuovo sotto minaccia di riunificazione – ancora aperte a numeri e accessi molti alti, appensantite, con le ovvie eccezioni, di molti dei mali organizzativi e culturali del vecchio moloch affacciato su Villa Borghese.
Con questa serie di scelte, intorno alla metà degli anni novanta, la situazione appariva abbastanza rinnovata: le dieci facoltà “storiche” erano diventate una quindicina, che cominciavano perfino a differenziarsi l’una dall’altra nell’approccio al progetto e alla disciplina; laboratori e crediti avevano avvicinato i nostri studenti al mondo e all’Europa rendendo molto più semplice sia il confronto che la mobilità reciproca; infine l’apertura di nuove facoltà e nuove sedi aveva fatto si che tra le maglie della vigilanza accademica passasse perfino qualche “giovane docente” ansioso di rinnovamento e un po’ più disobbediente. In questo clima si è proceduto con la riforma più impegnativa, quella del passaggio dalla laurea di cinque anni alle due lauree progressive, triennale e biennale (il famoso “3+2”), più o meno secondo il modello anglosassone degli undergraduate e graduate studies. Si tratta in questo caso di un cambiamento che riguarda la struttura stessa degli studi universitari e la maggior parte delle facoltà, anche in questo caso nell’intento di una armonizzazione europea, di un minore tasso di abbandono, di percorsi meno lunghi e più flessibili. Non tutti hanno voluto recepirla, c’è ancora uno zoccolo duro di corsi di laurea “all’antica” di cinque anni e una serie di “facoltà-facciadibronzo” che offrono entrambe le possibilità (!). Poi per un lungo periodo chi l’ha recepita l’ha recepita male, moltiplicando e frammentando all’infinito i corsi di laurea, gli esami, i titoli degli insegnamenti, fino a fare dell’università una specie di labirinto con mille entrate ed uscite poco chiare. Nonostante questi difetti – da addebitare più al manovratore che alla macchina – che ora cominciano a trovare soluzione, rimango favorevole e ottimista sul ruolo del “3+2”, perché ci avvicina al mondo, perché rimette una volta in più in mano al singolo studente (che può decidere di spostarsi altrove per la laurea magistrale) il suo destino, perché è comunque più flessibile e dinamico.
- Paradossi
Detto questo non si può certo affermare che il sistema dell’insegnamento universitario dell’architettura goda oggi di ottima fama e buona salute in Italia. Anzi, la situazione assume i contorni di un paradosso. A metà degli anni settanta, quando le aule universitarie somigliavano alla scena in stile Giordana, i docenti erano inavvicinabili, metà dell’anno se ne andava in giornate di sciopero e assemblee politiche le nostre scuole avevano credibilità e autorevolezza; mentre oggi, nonostante i tentativi di adeguamento delle strutture, i sondaggi ci danno piuttosto giù, molto poco appetibili e culturalmente pigri. Allora ha ragione chi coltiva il rimpianto del “bei tempi”, di quando ci si menava per riuscire a vedere per un attimo Aldo Rossi, in lontananza? Non credo. Credo che la ragione fosse Aldo Rossi, non la lontananza. Che la lontananza era un disagio foriero di sventura allora come lo sarebbe oggi, mentre Aldo Rossi era la punta dell’iceberg di un’onda lunga di architetti, teorici, storici il cui pensiero aveva dominato la scena internazionale per almeno un ventennio, e che tutti avevano ancora voglia di andare ad ascoltare. Magari più per “riconoscere” che per imparare, perché dai razionalisti italiani non era facile imparare cose che si potessero poi riapplicare nell’Italia che andava delineandosi in quegli anni. Oggi quello che ci manca non sono quindi le aule fastidiosamente affollate, quello che ci manca è “Aldo Rossi”. Ovviamente non senso dell’immenso architetto milanese, ma nel senso di figure dirompenti e rappresentative consacrate sul piano internazionale e riconosciute sul piano nazionale in grado di riempire di contenuti, aura e appeal i gusci accademici sistemati alla bell’e meglio da una raffica di riforme. Allora gli architetti italiani sono diventati scemi? Non è neanche questo, ed è tutto sommato la questione affrontata e diluita in tutto questo libro. Qui si può dire che in termini accademici oggi ognuno è arroccato a difesa di spazi piccolissimi e che nessuno sarebbe disposto a (o in grado di) riconoscere ad Aldo Rossi, se ce ne fosse uno, di essere Aldo Rossi. E purtroppo, e siamo ancora tra i paradossi, in questa difficoltà o incapacità di riconoscere il nuovo Aldo Rossi c’entra anche la lentezza con la quale (non) abbiamo saputo andare “oltre” l’Aldo Rossi originale. Non a caso i nostri piccoli aldorossini vanno a cercarsi fortuna all’estero, perché sanno che qui sarà dura ottenere sostegno e riconoscimento. Ma per quel che riguarda questo capitolo conviene rimanere ai malanni delle nostre facoltà e al tentativo di individuarne i più gravi, cercando di rinunciare a quella propensione all’eccesso di discrezione, più vicino all’omertà che alla buona educazione, che inevitabilmente ci prende quando parliamo dell’istituzione di cui facciamo parte, dei nostri amici, allievi e colleghi, di noi stessi.
- Geremiadi
Prima questione: i numeri. Inevitabilmente torniamo a parlare di numeri. Come abbiamo appena ricordato l’inserimento nell’offerta didattica nazionale di alcune facoltà di nuova fondazione all’inizio degli anni novanta (Ferrara, Roma3, Ascoli, poi Alghero) era apparsa come una mossa geniale e liberatoria. Si presidiavano alcune zone fino ad allora trascurate, si sperimentavano da zero (facoltà a cui era estraneo l’incubo del “vecchio ordinamento”) metodi e impalcature nuove, si utilizzavano le nuove “scuole” e la loro agilità didattica come pungolo ai pachidermi metropolitani, ben più appesantiti dalla loro storia e dai loro baroni e più difficili da riformare. Ma tutt’a un tratto il gusto di fondare nuove facoltà ha preso la mano a tutti: amministratori locali che possono vantarsi di essere sede universitaria (ce ne sono ormai in comuni di meno di mille anime); docenti che vedono aprirsi inattesi e provvidenziali sbocchi per i loro assistenti in perenne attesa di sistemazione ( o di “progressione”); rettori alla canna del gas, appesi all’incremento delle iscrizioni purchessia e del relativo finanziamento ministeriale; ministri che hanno comunque il problema reale di alzare la media degli italiani laureati, che è ancora largamente sotto quella dei paesi occidentali ed europei; genitori che non si vedono più costretti a finanziare quei sei o sette anni “fuori sede”, tranne poi pentirsene quando scoprono che “da casa non se ne vanno più via, neanche a quarant’anni”. Scatenata la libido istituendi, nello spazio di un paio di stagioni le facoltà sono diventate una trentina (sono certo che ce ne sia una che muove i primi passi mentre scrivo), senza parlare – lo facciamo altrove – dei nuovi corsi di laurea in Ingegneria-Architettura, finendo per rendere inutili i tentativi impliciti di calmierare l’accesso a una professione iperinflazionata e di alzare la qualità media delle scuole, avvicinandole a standard europei. Il risultato è una popolazione studentesca complessiva di circa 70.000 studenti, senza contare gli iscritti ad architettura nelle facoltà di ingegneria, che andranno ad aggiungersi alla cifra già abnorme dei quasi 140.000 iscritti all’ordine professionale (vedi capitolo professione). In pratica una specie di catastrofe biblica, capace di dare il colpo di grazia ad una professione già agonizzante. Il tutto nella più stolida assenza di ogni programmazione “dall’alto” e nella tranquilla indifferenza di presidi, direttori di dipartimento, presidenti di corso di laurea, coordinatori di consiglio di classe e via a seguire, nelle mille articolazioni delle facoltà di oggi.
Seconda questione: gli sprechi. Sempre di numeri si tratta, ma in questo caso di numeri con l’€ di euro davanti, quindi più dolorosi. Il tema è ovviamente delicato, anzi avvelenato dalla dialettica politica degli ultimi anni, secondo la quale se dici che all’università ci sono sprechi sei di destra, se invece dici che l’università ha bisogno di più soldi allora sei di sinistra. Falso. Vorrei provare a smontare questa costruzione, per affermare che l’università ha platealmente bisogno di più fondi, che all’università ci sono non pochi sprechi e allo stesso tempo rimanere un progressista. Sono sicuro che si possa fare. Per localizzare gli sprechi non ci vuole una bacchetta da rabdomante, basta guardare nei posti giusti. Primo posto: corsi di laurea con più docenti che studenti iscritti, università e sedi distaccate dove non servono; atenei che non si fanno concorrenza quando dovrebbero e che se ne fanno troppa quando non dovrebbero; corsi di formazione postlaurea insensati. Soprattutto questi ultimi temi, un po’ più lontani dalla sguardo del “pubblico”, sono particolarmente intricati. In Italia, si dice sempre, non ci sono i soldi e strutture per la ricerca di eccellenza, per gli advanced studies. Contemporaneamente però si registra senza nessuno scandalo il fatto che ogni sede, anche la più piccola, anche la più neofita, pretende di coprire tutti i livelli della formazione: la laurea triennale, quella magistrale, i dottorati di ricerca (!) i master professionalizzanti, questi ultimi spesso finanziati su base regionale con fondi europei. I docenti italiani da questo orecchio proprio non ci sentono e considerano un affronto personale l’idea che la loro facoltà abbia diritto a un dottorato in meno, ma è un fatto che una geografia del genere non esiste in nessun altro posto del mondo, che le scuole di dottorato producano ogni anno per ogni settore (della nostra area) un numero di “ricercatori” circa trenta o quaranta volte maggiore di quello che il “mercato” specifico può assorbire, che quest’orizzontalità totale precluda ogni riconoscimento di qualità (che avrebbe molto effetto sui candidati stranieri); che molti corsi di master e dottorato sembrano organizzati (e finanziati) più per soddisfare le (comprensibili) esigenze di autostima dei docenti che il futuro degli studenti. Credo che un ministro, oltre a lottare col machete per difendere i finanziamenti all’università, dovrebbe cominciare da qui. Ma credo anche che un ministro che comincia da qui dura poco, quindi è una rivoluzione che andrebbe fatta dal basso.
Terza questione: reclutamento e corpo docente. Questo è una argomento che è quasi impossibile trattare senza macchiarsi di “alto tradimento”. Se fossimo in ambito militare prevederebbe certamente la degradazione pubblica con lo schiaffo, come per il povero Dreyfus. Chiariamo innanzitutto come funzionano oggi le facoltà di architettura. Quasi tutte, per stare bene sul mercato, offrono un pacchetto piuttosto ampio di corsi di laurea in architettura, “città”, design, paesaggio, urbanistica, restauro, sostenibilità e chi più ne ha più ne metta. L’offerta in genere, a meno che il preside non abbia un coniuge ministro, supera ampiamente le potenzialità dell’”organico”, cioè del numero dei docenti a disposizione. Quasi tutti, in sostanza, hanno quindi problemi coi requisiti minimi per tenere aperto un corso di laurea. A questi problemi si può ovviare in molti modi, a parte un po’di contabilità creativa che comunque serve a mettere in moto la macchina. Il primo modo è quello di reclutare altri docenti. Sarebbe bello. E sarebbe anche praticabile in quasi tutti gli altri posti del mondo. In Italia è più difficile. E’ più difficile perché stiamo ancora smaltendo la demagocicissima inondazione di docenti assunti “sulla parola” dei baroni senza concorso e senza verifiche di qualità negli anni settanta (forse è anche per questo che non nasce Aldo Rossi). E’ difficile perché mancano i soldi e la capacità di distribuirli secondo merito e necessità. E’ ancora più difficile perché da diversi anni i governi (di centrodestra e di centrosinistra) non riescono a mettersi d’accordo con i professori sui meccanismi di reclutamento. In questo modo il paesaggio generale invecchia, i giovani ambiziosi diventano attempati livorosi, e le facoltà diventano luoghi meno allegri dove comandano sempre gli stessi. L’altro modo per ovviare alle carenze di organico è “dare molti contratti”, cioè avere molti docenti non strutturati che svolgono la pura attività didattica per il tempo del corso. Questo metodo in sé non ha nulla di male anche se i valutatori ministeriali tendono ora a punirlo per indurre le facoltà a diminuire l’offerta di corsi di laurea. Le scuole coscienziose e meno povere li usano per chiamare giovani meritevoli e docenti di chiara fama, quelle più povere e quelle inclini a farsi gli affari loro li usano per dare corsi a giovani meritevoli e anche a qualche giovane meno meritevole, quelle molto povere, pur di non rinunciare ad aprire questo o quel corso di laurea, li danno a giovani “disposti a tutto” (che siano meritevoli o no in questo caso conta meno) che assumono l’incarico per le 60/80/120 ore “A TITOLO GRATUITO”. Nel senso che io, padre a reddito fisso di uno studente pago regolarmente le mie tasse perché lo stato fornisca servizi e istruzione a mio figlio universitario, e che lo stato, in cambio, fa insegnare l’architettura a mio figlio da uno che lo fa gratis. Non nel senso del glorioso “assistente volontario” – che è comunque aberrante ma ha chi risponde per lui – ma nel senso del titolare di un corso, che ne è quindi responsabile, ma lo insegna per gentilezza, perché vuole “farsi i titoli”, perché è ricattato. Ma dov’è la garanzia? Ora so bene che chi mette in campo queste soluzioni (che riguardano diverse facoltà italiane) così estreme lo fa perché pensa di non avere alternative, col cuore pieno di buone intenzioni e con la convinzione di fare del suo meglio per il bene dell’istituzione. Ma secondo me non funziona, non può funzionare perché troppo lontano da qualsiasi standard di civiltà e perché è uno dei campanelli d’allarme più gravi di un sistema che sembra sempre più vicino a un collasso, e non solo dal punto di vista economico.
Quarta questione: il paesaggio culturale. Delle difficoltà dell’architettura italiana nel paesaggio culturale nazionale e internazionale parliamo diffusamente in altri capitoli del libro. Qui è sufficiente ricordare come questa situazione si rifletta nelle facoltà. Che hanno vissuto nello scorso decennio una fase di rinnovamento anche sul piano culturale. O che almeno hanno provato a farlo anche attraverso una contrapposizione schietta e salutare tra chi voleva innovare e chi pensava che si dovesse rimanere ancorati ai fasti dell’age d’or di Aldo Rossi (again) e della critica italiana al movimento moderno. Oggi l’impressione è che si vada in ordine sparso, che i destini individuali abbiano la meglio sugli slanci collettivi, facendo si che ogni scuola sia una rappresentazione complessiva e miniaturizzata, inevitabimente al ribasso, dell’universo mondo, uno spazio dove c’è un po’ di posto per ognuno ma nessuno spazio per chi cerca egemonia. Questo strano anelito alla mediocrità si riflette pienamente nell’universo professionale e nelle “ricerche” dei giovani architetti, tutto sommato abbastanza prevedibili e spompate. I più irrequieti reagiscono andando a cercare fortuna e affermazione all’estero (i nuovi migranti raccontati in un’altra parte di questo testo) o cercando strade nuove e inesplorate, consapevoli però che quasi nessuno avrà voglia e capacità di capire i loro sforzi per sostenerli.
- Leggi last minute
Proprio mentre sono preso dall’ultima stesura di questo testo succede che la “questione universitaria” guadagna per qualche tempo le prime pagine dei giornali e la massima attenzione da parte di docenti studenti genitori e perfino politici intellettuali conduttori televisivi e parlamentari. L’occasione è l’approvazione della legge Gelmini e l’amplificatore la perniciosa e non casuale coincidenza con la “quasi caduta” del governo Berlusconi. Naturalmente non è questa la sede adatta per discutere a fondo pregi e difetti di quel testo né per aprire un dibattito interaccademico. Quello che posso dire è che come spesso accade ultimamente ho provato sentimenti contrastanti. Da un lato mi sentivo in totale consonanza con gli studenti che occupavano e manifestavano; dall’altro speravo che alla fine la legge venisse approvata. La solidarietà con gli studenti perché mi sembrano i soli, speculazioni politiche a parte, a rendersi conto della drammaticità della loro situazione e a cercare di segnalare l’emergenza con i mezzi che hanno. La rassegnazione alla legge molto imperfetta perché penso che la sua bocciatura integrale avrebbe imposto un altro lungo periodo di rumorosa immobilità (e quindi di ulteriore avvicinamento al baratro) all’università italiana. Per quel che riguarda i temi affrontati in questo scritto (rimandiamo ad altre sedi la discussione approfondita sul testo) la legge mostra una certa sensibilità ad alcune questioni che abbiamo citato – l’avvicinamento ai criteri europei per la ricerca e la didattica, la proposta di “taglio” o razionalizzazione di sedi e corsi di laurea, la qualità della docenza, il miglioramento dei meccanismi di reclutamento, qualche accenno alla mobilità dei docenti – ma in alcuni casi, soprattutto quando ci sarebbe bisogno di risorse, le risposte rimangono ancora incomplete o molto condizionabili dalla futura maggiore o minore indulgenza di Tremonti. Soprattutto sulla questione che più ha sollevato polemiche in questo ultimo periodo, il ruolo dei ricercatori, il testo di legge rimane ancora molto nel vago, forse proprio per il picco di conflittualità e l’ingorgo politico nella quale si è trovata. Non fare nulla, ripeto, avrebbe consentito alla parte peggiore e più cinica del corpo accademico di continuare a peggiorare a fini propri uno scenario che alla fine, nonostante gli sforzi di centinaia di bravissimi docenti e qualche decina di “eccellenze” sparse sul territorio, danneggia soprattutto i suoi utenti, gli studenti. O meglio, per quel che ci riguarda, i futuri architetti.
[Immagine: Aldo Rossi, Cimitero di San Cataldo, Modena (gm)].
Bella la foto del cimitero di Aldo Rossi. Potrebbe anche essere anche un’università.