di Massimo Gezzi

 

Insegno in un liceo di Lugano, in Svizzera. Le considerazioni che espongo in queste righe, dunque, non riguardano direttamente l’Italia e la scuola italiana, ma forse possono essere di qualche interesse nella riflessione generale che si va svolgendo in questi giorni. Vorrei provare a raccontare cosa succede in un Paese che ha deciso di non chiudere la scuola, neanche per un giorno, dalla fine di agosto al 23 dicembre.

Innanzitutto qualche dato, forse impreciso nei dettagli minuti perché pescato qua e là online, ma di certo affidabile per capire e comparare gli ordini di grandezza. La Svizzera ha una densità abitativa media maggiore dell’Italia (215 circa contro 205 circa abitanti per km quadrato), con picchi altissimi in alcune città (Ginevra, Zurigo). Il Covid qui ha avuto un impatto molto forte, specie durante la seconda ondata, anche per le restrizioni decisamente più blande rispetto a quelle adottate dall’Italia (a tal proposito il grafico 1, qui sotto, fotografa chiaramente l’andamento dell’indice della severità della risposta dei due governi): se in Italia ci sono stati quasi 360 casi ogni 10.000 abitanti, il numero in Svizzera sale a più di 550 casi (dati presi da qui) e dalla fine di ottobre, come si vede dal grafico 2, la differenza tra i due stati si fa sempre più netta e marcata a svantaggio della Svizzera.

 

 

Grafico 1 (Indice della severità della risposta dei governi: in rosso l’Italia, sistematicamente più severa, in blu la Svizzera)

 

Grafico 2 (Casi di covid per un milione di abitanti: sopra la Svizzera, in blu; sotto l’Italia, in verde)

 

Non così per il tasso di letalità, invece, come si vede dal grafico 3 (numero di vittime in rapporto al numero dei casi). Se quello della Svizzera è inferiore al 2%, quello dell’Italia, come purtroppo sappiamo, ha sfiorato cifre catastrofiche durante la prima ondata e si attesta ora quasi al doppio di quello svizzero. Non voglio e non posso in alcun modo discutere le ragioni di questa differenza, che pure ci sono e andrebbero indagate, ma non si può non partire anche da qui per riflettere sulle decisioni che interessano la scuola.

 

Grafico 3 (Tasso di letalità del Covid: in rosso l’Italia, in blu la Svizzera)

 

Come dicevo, tutte le scuole svizzere sono rimaste sempre aperte. Inizialmente, con una nonchalance che molti hanno riconosciuto come eccessiva, i docenti potevano non indossare la mascherina in classe e gli allievi erano tenuti a indossarla solo se nella loro aula non era possibile mantenere il distanziamento di un metro e mezzo. In alcune aule, come ho raccontato all’inizio di settembre qui, gli allievi potevano non tenere la mascherina. Poi è arrivata la seconda ondata, che ha causato una stretta nelle disposizioni, con l’obbligo di indossare la mascherina per tutti gli allievi delle scuole medie superiori e poi medie (mia figlia, alle elementari, non la indossa) e per tutti i docenti.

 

La vita scolastica, in questo modo, è andata avanti fino a Natale, pur con qualche evidente zoppìa (una su tutte: come recuperano gli argomenti svolti a lezione gli allievi finiti in quarantena?): la quarantena di classe veniva ordinata solo se due o più allievi erano positivi; quella individuale solo se i ragazzi e le ragazze erano stati/e a contatto con una persona positiva senza mascherina e senza distanza per più di 15 minuti (quindi non a scuola, dove la mascherina è obbligatoria); per tornare in classe a un allievo positivo bastava non avere sintomi da 48 ore, ad almeno dieci giorni di distanza dalla scoperta della positività, senza la necessità di presentare un tampone negativo.

 

Com’è andata, in termini sanitari? Ancora una volta, snocciolo qualche cifra: nel mio Cantone, il Ticino, si sono ammalati più di 200 docenti (su un totale di più di 6400, se decifro bene le tabelle cantonali: poco più del 3%) e un migliaio di allievi. Gran parte di loro, però, sembra essersi ammalata al di fuori dell’ambito scolastico (sport, famiglia). Non so dire se qualcuno sia andato incontro a un decorso grave.

Avrebbe retto in Italia, un modello che presuppone la collaborazione e la coesione di molte parti sociali come questo? Probabilmente no. In Svizzera invece questa impostazione pare aver funzionato, ovviamente con qualche scossone, e per capire se è stato ragionevole adottarla devo spendere qualche parola anche su come sono andate le cose nelle nostre classi, con l’avvertenza che quanto sto per scrivere è frutto inevitabilmente di impressioni e pensieri personali.

 

Partirei dalla DAD, dato che diversi docenti, anche in questo sito, hanno sostenuto che la scuola a distanza tutto sommato non sia da demonizzare. Ebbene, avendo potuto sperimentare la differenza tra un semestre di DAD (quello primaverile scorso) e un semestre di scuola in presenza immediatamente successivo a quello a distanza, mi sento di poter dire, in modo per forza di cose sintetico, che nella grande maggioranza dei casi la DAD di marzo-giugno ha prodotto un buco cognitivo che oggi si fa fatica a colmare. È come se gli argomenti, le letture affrontate nei mesi primaverili fossero perlopiù spariti nel nulla. Qualche vago ricordo, qualche cenno superficiale, ma nulla di quanto si è fatto a distanza è diventato, per così dire, strutturale, specie per quanto riguarda le classi seconde (ex prime), che sono quelle oggettivamente più in difficoltà. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, e ci sono allievi e allieve che – per carattere o indole – si sono persino trovati/e meglio con la scuola a distanza, ma da un certo punto di vista queste eccezioni costituiscono un ulteriore problema da discutere: sappiamo tutti, per esperienza, che la DAD non è democratica, che gli allievi sono tutti uguali in classe ma non certo a distanza, per motivi familiari, sociali o anche soltanto tecnici (difficoltà di connettersi, dispositivi inadatti o condivisi con sorelle e fratelli, stanze affollate, ecc.). E sappiamo quanta frustrazione e fatica provochi, in tutti (e soprattutto nei soggetti psicologicamente fragili), la prolungata esposizione al video, nelle modalità di cui ha parlato qualche giorno fa Igino Domanin su questo sito e di cui ci aveva raccontato Giovanni Accardo nel suo Diario della distanza. Su questo, dunque, non ho dubbi: la DAD fa quel che può per tutelare il diritto all’istruzione di tutti (a mio parere uno dei diritti più preziosi e inalienabili di qualunque democrazia), ma non ci riesce fino in fondo, nonostante l’impegno, la buona volontà e persino la dedizione del corpo docente (sicuramente non percepiti fino in fondo dal mondo esterno alla scuola). Se il diritto alla salute, dunque, è il primo diritto da difendere, quello all’istruzione è il secondo, perché solo da un’istruzione e da un’educazione gratuite e garantite a tutti può continuare a nascere una società che aspiri all’uguaglianza.

 

Se tutto quello che scrivo ha un senso, allora il modello svizzero per me (docente e padre di una bambina che frequenta la seconda elementare) ha funzionato, così come ha funzionato per la stragrande maggioranza di famiglie, docenti, studenti e studentesse che l’hanno rispettato e fatto girare senza grossi intoppi.

L’ho premesso sin dall’inizio: i Paesi sono diversi e alcuni dati (su tutti, credo, il tasso di letalità) non sono comparabili, ma se ora in Svizzera occorresse mettere in atto ulteriori restrizioni e chiudere alcuni gradi di scuola, questa decisione sarebbe percepita unanimemente (da studenti, docenti, famiglie, società civile) come un’extrema ratio cui si dovrebbe ricorrere dopo aver tentato di difendere fino all’ultimo il diritto all’istruzione di tutti. Non credo che per l’Italia, viste anche le proteste che montano da più parti (per esempio queste), si possa dire lo stesso, purtroppo.

11 thoughts on “Cosa succede dove la scuola non ha chiuso

  1. Grazie per questo quadro, che ho trovato molto interessante proprio nel confronto per differenza della sua parte organizzativa (sulla parte sanitaria, pur concordando con te che andrà studiata, non mi soffermo perché non ne sono competente in termini analitici).
    Mi colpisce molto questa frase: “un modello che presuppone la collaborazione e la coesione di molte parti sociali”, perché mi pare esattamente ciò che è mancato, da subito, in Italia. Aggiungerei ai due sostantivi da te proposti un terzo: la “comprensione”. Sono anche io simmetricamente consapevole di quanto il mio osservatorio sia parziale, come tu ricordavi a proposito delle tue riflessioni, tuttavia mi pare che questo punto – una mancata collaborazione e coesione di tutte le parti sociali (e gli attori in causa), alimentata a monte da una complessiva non “comprensione” di quanto stava accadendo nella, alla e per la scuola – sia stato cruciale, a tutti i livelli.
    In primis dall’alto: se una attenzione e una programmazione nella scuola ci sono state, queste non sono state agite in modo che potessero essere percepite come tali dalle istituzioni scolastiche, che si sono sempre trovate a fare fronte a richieste che avevano la percezione dell’urgenza, dell’ultimo minuto (note inviate alle sette di sera del venerdì per una compilazione entro la mattina del martedì successivo – quando è andata bene; dico solo che la nota ministeriale che ci informa del decreto della non riapertura in presenza al 7 gennaio delle superiori ci è arrivata alle ore 16 del 6 gennaio, giorno rosso scolastico e nazionale). E questa mancata comprensione, a cascata, ha riguardato ogni altra parte sociale e, forse, anche, minato nel profondo un autentico percorso di collaborazione, così che ci si è finiti per polarizzare su alternative binarie e soprattutto atemporali, e “presenza” e “distanza” sono diventate sineddochi di “scuola buona” e “scuola cattiva” o forse meglio ancora di “come prima senza il virus” e “come ora nell’incubo”, in assoluto, dimenticando che cosa questi termini vogliono dire nell’anno del Signore 2020/21, e quanto il mosaico sia viceversa terribilmente sfaccettato e che, soprattutto, qualunque ragionamento serio sulla organizzazione didattica in questo momento deve ricacciare nell’orizzonte del ricordo le parole “come prima”.
    Di conseguenza, quando qualcosa non è condiviso, l’infido messaggio dell'”uno vale uno” agisce a ogni livello, in maniera sottile, pervasiva e sostanzialmente carsica. E il risultato, mi pare, è che nessuna opinione, in nessuna materia, ha autorevolezza di azione, di nuovo, condivisa.
    Questo è un elemento che, mentre leggevo le tue righe, si è dischiuso alla mia attenzione da una prospettiva altra, su cui voglio riflettere. E di questo ti ringrazio molto.

  2. Uno degli articoli più interessanti sull’argomento. Che organizzazione e coesione possano sostituire alcune misure di distanziamento appare piuttosto logico , e il fenomeno che sembra confermato anche in altri paesi. Da insegnante, sebbene in modo non continuato, tra scuola e università, non posso che sottoscrivere il deficit cognitivo prodotto dalla didattica a distanza. Spesso gli adulti s’immaginano che gli adolescenti vivano in un mondo dove “tecnologia sive natura” ma mi sembra il tipico abbaglio generazionale prodotto dalla paura di essere superato.

  3. Grazie dell’articolo, delle informazioni e delle utili considerazioni. Non ho particolari obiezioni, la tue conclusioni le trovo condivisibili. Ho però una curiosità (e/o richiesta): riesci a delineare le differenze tra scuola liceale svizzera e quella italiana (se ne hai una qualche esperienza), in termini di programmi, metodi didattici, regole di valutazioni e soprattto prassi e comportamenti invalsi. Grazie Buon lavoro.

  4. Caro Massimo, grazie per questo intervento, utile ed equilibrato. Ci permette di riflettere meglio sull’opportunità di tenere un po’ più aperte le scuole anche da noi.

  5. @Orsetta Innocenti
    Grazie delle tue riflessioni. Capisco benissimo quanto dici. Pur guardando le cose da fuori, è la mia stessa impressione, e direi che la comprensione e la condivisione – certamente non acritiche e non sempre generali, ma in qualche modo strutturali – sono proprio le caratteristiche che hanno permesso al sistema scuola di funzionare.

    Ringrazio anche Fillipo Bruschi, anche per la conferma riguardo alla DAD, e Mauro Piras, che si è sempre battuto per la scuola in questi mesi.

    @mario
    Grazie. Non ho esperienza di insegnamento nei licei italiani (né, di conseguenza, di prove Invalsi). Certamente le differenze sono molte, a partire dall’impostazione di fondo. Qui esiste un solo Liceo che offre i vari curricula, con specializzazioni generalmente meno marcate e più materie rispetto ai licei italiani: già in prima le ore di lezione vanno dalle 30 alle 35, o forse anche di più, a seconda degli indirizzi. Ci sarebbe molto altro da dire…

  6. Condivido il suo giudizio sulla DaD: il” buco cognitivo” difficilmente sarà colmato, ma questo sembra preoccupare poco l’opinione pubblica , essendo perlopiù sia politici che normali cittadini, abituati a vivere in un orizzonte ristretto, limitato al ” qui e ora”, ancora di più in tempi di pandemia. Anche se ultimamente qualcuno, improvvisamente consapevole dei disastri che sta provocando quella che poco prima veniva presentata come la grande ” innovazione didattica ” ( per colpa, ovviamente, dei doocenti incapaci di utilizzare ” bene” le nuove tecnologie) , propone la ricetta apparentemente più economica e semplice : “perché non allungare il calendario scolastico a luglio e agosto?”, ha proposto Andrea Gavosto che ignora o finge di ignorare quanta fatica e stanchezza sia costata questa “didattica a distanza o integrata” cosi poco gratificante a tanti/ e docenti, che hanno messo a disposizione le loro abitazioni, i propri mezzi, il proprio tempo …senza limiti d’ orario, pur di continuare a fare lezione e non perdere i contatti con studenti e studentesse.
    La scuola, come ogni altro servizio pubblico fondamentale ( ospedali, tribunali, uffici pubblici, biblioteche…) , nel nostro caso, per la sopravvivenza ” culturale” e ” civile” di una comunità, dovrebbe teoricamente restare fuori da ogni possibile ” scossa ” determinata da ogni eventuale “stato d’ emergenza”; ma purtroppo sappiamo bene che così non è stato in passato ( pensiamo ai tagli indiscriminati ai servizi pubblici essenziali a ogni crisi economica, la sola ” ricetta”messa in atto frettolosamente per mettere in ordine i conti dello Stato, specie da alcuni decenni in poi…) , e non è cosi nel tempo presente, al punto che molti politici nazionali e locali tendono generalmente ad anteporre le esigenze economiche al diritto a un’istruzione efficace e significativa delle nuove generazioni, diritto che non può certamente essere surrogato da una ” didattica” appiattita su uno schermo in un ambiente virtuale ” decorporeizzato”…
    In ogni caso, come lei stesso ha sostenuto, non è possibile istituire confronti tra realtà così eterogenee., come quella di Lugano di cui offre un’importante testimonianza che comunque ci fa riflettere. Per quello che riguarda la mia esperienza, essendo ritornata in Sicilia quindici anni fa, posso confermarle che anche all’interno dell’Italia la realtà degli istituti, delle condizioni di partenza, dei territori è estremamente differenziata … e da questa realtà concreta non è possibile prescindere, tanto piu in tempi come i nostri che stanno incrementando disparità e disuguaglianze, anche all’interno delle singole classi.

  7. Vorrei sapere se c’è un link ai dati del Canton Ticino.
    I docenti contagiati, 200,sono un numero enorme se paragonati al migliaio di studenti. Un docente ogni 5 studenti. Non credo che le classi in Svizzera siano di 5 alunni.
    Vorrei vedere bene quei dati ecfr con il resto della popolazione cantonale.
    Noto poi che il distanziamento in Svizzera é di un metro e mezzo per tutti, docenti e discenti, in Italia é un metro tra gli alunni.
    Se moltiplico 1, 5 per 1, 5 ottengo 2, 25 metri quadrati per studente. Nelle mie classi se lo sognano tanto spazio.
    Vorrei poi sapere se in Svizzera c’è l’aria condizionata nelle classi, cosa che in Italia manca.
    In Italia siamo di fronte a un vero e proprio negazionismo del contagio scolastico a opera degli (ex) scienzati del Cts.

  8. Gentile Lorenzo Galbiati, mi sfugge la logica del conto: nell’articolo c’è scritto che gran parte dei positivi che passano del tempo a scuola (docenti e allievi) sembra essersi ammalata al di fuori della scuola (lo sostengono le autorità). Consideri, per esempio, che in Svizzera è consentita, ancora oggi, «l’utilizzazione delle strutture culturali e sportive per attività con bambini e giovani fino al compimento dei 16 anni», che nel corso della seconda ondata non ci sono mai state zone rosse o coprifuochi per la limitazione della circolazione delle persone e che i ristoranti, per esempio, sono rimasti aperti fino al 22 dicembre (con limitazioni di posti e orari). Ci si può anche riunire in casa e all’aperto per un massimo di 5 persone, ma prima del 9 novembre in Ticino il limite era di 10, e nel resto della Svizzera questo limite permane tuttora.
    Giusto il conto per i metri quadrati per ogni studente (2.25): i piani di protezione prevedono che questo spazio vada garantito «nel limite del possibile». Le mie classi, a titolo di esempio, sono di 20-25 allievi.
    L’aria condizionata non c’è, salvo qualche eccezione: per ventilare usiamo le finestre.

  9. Gentile Massimo Gezzi,
    (è la prima volta in 20 anni che mi rispondono con “Gentile” su un blog letterario)

    la logica è chiara: ci sono troppi docenti contagiati rispetto agli alunni, ergo ci sono molti alunni asintomatici che non vengono rilevati.
    Rispetto alle autorità (svizzere o di ogni altra nazione): fanno politica, non ricerca scientifica. E’ ovvio che sarebbe difficile tenere le scuole sempre aperte ammettendo la loro pericolosità nella diffusione del contagio. E del resto stiamo parlando della Svizzera: un paese tutt’altro che virtuoso nella lotta alla pandemia: lo descrive lei stesso. Una diffusione del contagio enorme, maggiore dell’Italia, e pur avendo una densità di popolazione simile. Sulla letalità, inoltre, dovremmo vedere se la Svizzera la conta come l’Italia.

    Quindi, che le autorità affermino che i ragazzi si contagiano fuori dalla scuola non significa nulla, lo fanno un po’ ovunque in Europa, pur sapendo che le scuole sono posti pericolosi. Che diffondano tutti i dati in loro possesso, piuttosto.

    In Italia, il Comitato tecnico scientifico si sta per esempio dimostrando un comitato politico che si contraddice di continuo: nega la pericolosità delle scuole, ma procrastina la chiusura delle superiori, per poi arrabbiarsi con le regioni se la allungano ancor di più. Non diffonde i dati grezzi raccolti dal Miur, poi li usa in modo contorto e pressapochista come fa l’Iss nel suo ultimo documento, sempre per minimizzare l’impatto delle scuole. Dopo di che assicura che i docenti saranno vaccinati per primi, insieme agli over 80: perché, se le scuole sono sicure come dicono?

    Anche in Germania ora approfittando delle vacanze di Natale le chiude, e tutte (in Italia non è mai successo) poiché i dati del contagio sono (relativamente) elevati: secondo lei perché lo fanno tutti gli stati, oltre una certa soglia di contagio?
    Mi sembra lapalissiano, le scuole come ogni posto al chiuso contribuiscono alla diffusione del contagio. Chi lo nega, o è in malafede, o è un incompetente in materia (a meno che sostenga la non efficacia dei lockdown per abbassare il contagio, in quel caso quanto meno sarebbe coerente).

    La domanda corretta è: qual è il contributo delle scuole (e dei posti di lavoro ecc.) nella diffusione del contagio?
    E poi, oltre quali parametri conviene chiuderle?
    Infine: quali sono le norme di sicurezza da applicare se le si tiene aperte?
    (In Italia dubito fortemente che ci siano tante scuole con la metratura a testa di cui le dicevo (2,25 metri quadrati)).

    In Italia non è mai stato fatto uno screening a tappeto tra docenti e discenti per vedere l’evoluzione del contagio, ma i dati che sono stati diffusi, per quanto incompleti, parlano chiaro sull’effetto della apertura e della chiusura delle scuole medie o superiori. Parlano chiaro a chi non li manipola a scopo politico.
    Uno scienziato deve fare lo scienziato, cioè dire la verità, poi se vuol fare il politico può anche decidere di tenere le scuole aperte, ma sarebbe più corretto o etico evitare di negare il loro impatto sulla diffusione del contagio.

    Sui dati italiani nell’età scolare 11-18 anni, io ho scritto questo pezzo:
    https://www.pressenza.com/it/2021/01/scienzainrete-pubblica-i-dati-sui-contagi-da-covid-19-suddivisi-per-fascia-deta-nel-periodo-tra-settembre-e-dicembre/?fbclid=IwAR3sRhU4loIioUPO96LbzCJ9Fr8kN_EMF_tc-3BmRf9pAeoPHshSW2ItIfA

    Se mi desse il link ai dati del canton Ticino, le sarei grato.

  10. Caro Galbiati,
    il mio intento non era quello di negare che le scuole abbiano un ruolo nella diffusione del contagio. Non ho gli strumenti per dirlo, e temo che i dati bruti sul numero di contagi che lei raccoglie e discute con tanta cura non possano spiegare davvero tutto: perché, per esempio, in Puglia, in Sicilia e in Veneto – osservando la tabella dell’AIE – nelle settimane successive alla 44 si notano controtendenze o oscillazioni per la classe di età che presenta il calo maggiore di positivi (14-18)? Io non saprei dirlo, e lei nemmeno, credo.
    Non era questo il mio intento. Il mio intento era quello di descrivere un modello che ha scelto, non senza qualche dubbio, di salvaguardare politicamente il diritto all’istruzione, in un momento drammatico e difficile come questo. Lei è molto attento ai dati che riguardano la diffusione del contagio tra i ragazzi, ma non affianca questi dati a un discorso sulle conseguenze psicologiche e cognitive dell’interruzione della scuola in presenza. Se è vero che «uno scienziato deve fare lo scienziato, cioè dire la verità», come sostiene lei, mi pare altrettanto vero che anche questo aspetto appartenga alla realtà e alla verità, e che occorra studiarlo con la stessa cura e attenzione. Solo dopo si potrà rispondere con completezza alla sua seconda domanda: oltre quali parametri conviene chiudere le scuole?
    Grazie del confronto.
    ps. I dati che ho citato sono tratti da una lettera inviata ai direttori e ai docenti prima di Natale. Non sono reperibili online.

  11. Caro Gezzi,
    in Italia, se si eccettua un mese o poco più (dal 14/21 settembre fino a fine ottobre/inizio novembre), le scuole superiori sono chiuse da inizio marzo (in Lombardia da fine febbraio) del 2020.

    Non è pensabile tenerle chiuse anche i prossimi mesi, quindi reputo sensato riaprirle.
    Il mio pezzo linkato si concludeva così:

    “Questi risultati confermano ancora una volta, in modo evidente e inequivocabile che, per continuare a tenere bassa la curva dei contagi, ora che le scuole superiori riaprono, sarebbe utile la didattica in presenza non solo per il 50% delle loro classi, come previsto dal governo, ma anche per le classi di seconda e terza media. Inoltre, sono necessari degli screening periodici degli alunni e del corpo docenti a carico delle regioni, oltre al potenziamento dei trasporti. Infine, bambini e ragazzi di ogni età avrebbero bisogno di un maggiore supporto psicologico per aiutarli il più possibile in questo passaggio difficile.”

    Quindi non mi opponevo alle riaperture, chiedevo di dimezzare le classi e cercare di testare docenti e discenti, nonché curare l’aspetto psicologico dei ragazzi.

    Riaprire le scuole, significa però essere consapevoli che concorreranno alla terza ondata e che ci saranno molti casi di contagio tra alunni e docenti, il che significa anche tra genitori degli alunni, per non parlare delle persone che finiranno in quarantena per 10 giorni, parlo di centinaia di migliaia, forse anche un milione da qui a giugno.

    Poiché il governo e gli scienziati del Cts negano questo fatto, e platealmente non sono in grado di fare previsioni (per loro demerito), si va incontro a una situazione assurda, dove le regioni non si fidano del governo, e decidono autonomamente di chiudere le scuole.

    Un governo saggio spiegherebbe il contributo delle scuole nella diffusione del contagio, e chiederebbe sacrifici, cercando di mantenere il contagio sotto certi parametri (5 o 6, non 21), che direbbe chiaramente, oltre i quali chiuderebbe le scuole. Il governo però non è saggio e peraltro non è assistito da degli scienziati seri che gli dicono la verità (oppure sono dei totali incompetenti).

    Le osservazioni che fa sui dati Aie si possono considerare oscillazioni inevitabili, non essendo la statistica una scienza perfetta, e inoltre qui abbiamo molte variabili imprevedibili, non ultimo la discrezione nel fare i tamponi (molti ragazzi sintomatici non lo fanno).

    Per il resto, io sono d’accordo con lei, la DAD non è paragonabile alla didattica in presenza, ed è sbagliato affermare, come si è fatto su questo sito, che la Scuola non è mai stata chiusa-. La scuola superiore è stata chiusa eccome, e anche la seconda e terza media delle regioni rosse.
    La DAD non sarà MAI una vera scuola.
    Detto questo, ricordiamoci che la didattica in presenza in tempi di covid e contagio galoppante significa anche molto docenti e discenti a casa perché affetti o contatti diretti di affetti, e classi in quarantena. Non è una didattica normale, insomma, è rallentata e problematica, e gli studenti soffrono anche nello stare sempre seduti in classe senza potersi muovere.

    Questa pandemia spero farà luce sulle carenze della scuola italiana, messa peggio di molte scuole europee.

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