di Margaret Killjoy



[Questa intervista ad Alan Moore è stata recentemente pubblicata in italiano nel volume di Margaret Killjoy, Miti e molotov. Interviste su anarchia e narrativa, uscita per Contrabbandiera (2020) nella traduzione di Reginazabo]

 

Margaret: Per cominciare, che rapporti hai con l’anarchismo? Ti consideri anarchico? Come sei entrato in contatto con la politica radicale?

 

Alan: Be’, direi che sono entrato in contatto con la politica radicale per forza di cose alla fine degli anni Sessanta, quando queste posizioni facevano parte della cultura generale. La controcultura, come la chiamavamo all’epoca, era molto eclettica e onnicomprensiva: al suo interno rientravano le mode, gli stili musicali, le posizioni filosofiche e, inevitabilmente, quelle politiche. E anche se di volta in volta prendeva il sopravvento una tendenza piuttosto che un’altra, direi che in generale la posizione politica che godeva del maggior consenso era quella anarchica, anche se probabilmente a quei tempi, quando ero appena adolescente, non la mettevo proprio in questi termini. Forse non avevo ancora familiarizzato abbastanza con i concetti anarchici per definirmi effettivamente tale. Solo in seguito, quando avevo una ventina d’anni e ho cominciato a riflettere più seriamente sulle cose, sono giunto alla conclusione che fondamentalmente l’unica visione politica a cui avrei mai potuto aderire doveva essere quella anarchica.

 

Mi sono reso anche conto che, in fin dei conti, l’anarchia è di fatto l’unica situazione politica veramente possibile. Per me tutte le altre condizioni non sono altro che variazioni o derivazioni di una generale situazione di anarchia: dopotutto quando si accenna all’idea di anarchia quasi tutti rispondono che è una pessima idea perché il gruppo più potente assumerebbe il controllo. Ed è più o meno così che io vedo la società contemporanea. Viviamo in una condizione di anarchia che ha preso una brutta piega perché il gruppo più potente ha assunto il controllo e ha dichiarato che quella in cui ci troviamo non è una condizione di anarchia, bensì uno stato capitalistico o comunista. Io penso piuttosto che l’anarchia sia la forma più naturale di politica che un essere umano possa davvero praticare. Il significato della parola, in fondo, è assenza di capi. An-arché. Senza capi.

 

E credo che se osserviamo la natura davvero senza pregiudizi, scopriremo che è questo lo stato di cose generalmente diffuso. Voglio dire: una volta quando i naturalisti vedevano un gruppo di animali subito dicevano: “Ah, sì, questo esemplare è il maschio alfa, quindi è il capobranco”. Invece negli studi più recenti si sta ipotizzando che quella non fosse altro che una proiezione dei ricercatori, che applicavano la propria visione sociale a un gruppo di animali, mentre se si guarda più da vicino si noterà che, sì, c’è un maschio grande e grosso che sembra uscire vincente da quasi tutti i combattimenti, ma il membro più importante del branco è probabilmente la femmina che rimane in disparte e attorno a cui tutti si raccolgono nel corso di qualunque conflitto. Nel branco ci sono altri animali che potrebbero svolgere un ruolo importante nella ricerca di nuovi territori. Di fatto, il branco non si struttura in termini gerarchici: a quanto pare, ogni animale occupa una posizione specifica al suo interno.

 

E in realtà, se si guarda ai raggruppamenti umani più naturali come quelli della famiglia o dei gruppi di amici, si noterà ancora una volta che in genere non abbiamo capi. A meno di non parlare di una rigidissima famiglia vittoriana, nessuno può essere definito il capo di una famiglia: ognuno ha la sua funzione. E a me pare che l’anarchia sia la condizione che si ottiene più automaticamente quando i comuni esseri umani vivono in modo naturale. Solo quando si instaurano quelle strutture di ordine piuttosto stranianti che sono rappresentate dalle nostre scuole di pensiero principali cominciano a insorgere problemi tremendi, problemi relativi al nostro posto all’interno della gerarchia e alle incertezze e alle insicurezze che ne derivano. Allora iniziano le gelosie, le lotte di potere da cui, tutto sommato, il mondo animale è generalmente escluso. A me sembra che l’idea della leadership sia innaturale e probabilmente fu inventata da un capo in un certo momento dell’antichità; da quel giorno in poi i leader hanno fatto valere quel principio con brutalità, al punto che ormai quasi nessuno riesce a concepire un’alternativa.

 

Questa è una cosa importante da dire a proposito dell’anarchia: se domani dovessimo radunare insieme tutti i leader, metterli al muro e ucciderli uno per uno… e questa è una prospettiva fantastica, quindi permettimi di soffermarmici per un momento prima di metterla da parte… se lo facessimo, probabilmente la società andrebbe in frantumi, perché per migliaia di anni la maggioranza è stata condizionata a dipendere dalla guida di una leadership esterna. Per un bel po’ di persone questo è stato un sostegno, e se lo scaraventassimo via con un bel calcio, quella gente precipiterebbe a terra trascinandosi dietro l’intera società. Per instaurare una situazione d’anarchia praticabile e realistica, è ovvio che bisogna prima educare le persone, educarle in massa, per raggiungere una condizione in cui ognuno possa prendersi davvero la responsabilità delle proprie azioni ed essere allo stesso tempo cosciente di trovarsi ad agire in un gruppo più ampio, di dover permettere agli altri membri del gruppo di prendersi la responsabilità delle proprie azioni. In scala ridotta, quando si tratta delle famiglie o dei gruppi di amici, questo non sembra difficile, ma bisognerebbe fare una grossa opera di educazione per far riflettere le persone su come vivere in quel modo tutta la propria vita. Ed è ovvio che il governo, lo stato, non educherà mai il popolo fino al punto di privare di senso lo stato stesso. Quindi se vogliamo che le persone vengano educate fino al punto di potersi assumere la responsabilità delle proprie leggi e delle proprie azioni, diventando, a mio parere, esseri umani pienamente realizzati, allora l’iniziativa dovrà partire da una fonte diversa dallo stato e dal governo.

 

Ci sono state dottrine clandestine sia politiche che spirituali. Ci sono stati personaggi come John Bunyan, che trascorse quasi trent’anni in prigione a Bedford, qui nei pressi. Bunyan, l’autore del Viaggio del pellegrino, trascorse quasi trent’anni in prigione perché le idee che esponeva erano troppo incendiarie. Intorno a lui c’era tutto un movimento: nell’Inghilterra del XVII secolo, soprattutto nella mia zona, le Midlands, vennero a galla idee strane d’ogni tipo. C’erano un sacco di religioni, anche se spesso considerate eretiche, che affermavano che i preti erano inutili, che non c’era bisogno di capi: speravano di annunciare l’avvento di un paese di santi, che tutti sarebbero diventati santi e loro filosofi meccanicistici. Uno, diciamo uno stagnaio, poteva lavorare tutto il giorno, ma alla sera avrebbe potuto alzarsi in piedi e predicare la parola del Signore con la stessa autorevolezza di un altro che saliva sul pulpito. Sembra un’idea fantastica, ma puoi immaginare quanto possa aver terrorizzato i potenti a quei tempi. E in effetti è stato nel XVII secolo che, mosso anche da idee del genere, Oliver Cromwell insorse dando inizio alla Rivoluzione inglese che si concluse con la decapitazione di Carlo I. Per citare l’espressione di uno dei migliori libri scritti sul periodo, insomma, “il mondo fu letteralmente rovesciato”. Queste tradizioni clandestine spirituali o puramente politiche hanno espresso idee anarchiche per secoli, e oggi le possibilità di diffondere concetti come quelli sono ancora più numerose. Con lo sviluppo di Internet e della comunicazione in generale, queste idee sono molto più difficili da reprimere. Rinchiudere John Bunyan per trent’anni in prigione non servirà più a niente. Inoltre, da Internet possiamo trarre possibili strategie per rovesciare il controllo dello stato centralizzato.

 

Un esempio interessante è una trasmissione televisiva di dieci minuti realizzata da un signore della London School of Economics, un professore che aveva l’aspetto meno minaccioso che si possa immaginare. Non sembrava certo un agitatore politico apocalittico: pareva più un ragioniere o un economista. Eppure il quadro che ha dipinto era più che convincente. Ha detto che l’unico motivo per cui i governi sono governi è che controllano la moneta: in realtà per noi non fanno niente che non si debba pagare, per non parlare del fatto che con i loro atti sconsiderati ci espongono al rischio di guerre con gli altri stati. Non ci governano neanche davvero: si limitano a controllare la valuta e a incassare gli utili.

 

In passato, se volevi che ti mettessero dentro e buttassero via la chiave, la cosa migliore da fare non era molestare un bambino, tuffarti in un’orgia omicida o cose del genere: quello che era meglio fare era cercare di coniare una nuova valuta. Questo perché la natura del denaro è una specie di magia: questi pezzettini di metallo o di carta hanno un valore soltanto finché c’è qualcuno che ci crede. Se qualcuno avesse introdotto un altro tipo di frammento metallico o cartaceo e se la gente avesse cominciato a credere in quel tipo di valuta più che nel tuo, allora tutte le tue ricchezze sarebbero svanite di colpo. Quindi in passato i tentativi di adottare monete alternative sono stati brutalmente repressi. Ora che c’è internet reagire in quel modo non è più tanto semplice. E in effetti molte aziende moderne hanno qualche sistema di premi: i supermercati propongono raccolte punti che in un certo senso sono paragonabili a una forma di valuta. In molte società si applicano sistemi per cui i lavoratori vengono pagati in crediti scambiabili con qualunque cosa, da una casa alle scatole di fagioli in vendita nello spaccio della ditta. Qua e là stanno anche venendo alla luce economie alternative in cui, per dire, in una città povera dell’Inghilterra c’è un meccanico disoccupato che vorrebbe farsi tinteggiare i muri di casa. Questo meccanico disoccupato avrà accumulato una certa quantità di crediti effettuando lavoretti nel suo quartiere, come riparare la macchina del vicino o cose del genere, e potrà spendere questi crediti contattando un imbianchino disoccupato che andrà a casa sua e gli darà il bianco alle pareti.

 

Insomma, progetti come questi sono sempre più difficili da controllare, e quel professore della London School of Economics diceva proprio che in futuro dovremo prepararci a una situazione in cui per cominciare non esisterà più il denaro e poi, per conseguenza diretta, non esisterà più neanche il governo. Quindi è possibile che la tecnologia di per sé e il modo in cui noi reagiamo alla sua presenza – il modo in cui adattiamo la nostra cultura e il nostro stile di vita alle svolte e ai mutamenti tecnologici – ci mettano in condizione di aggirare il governo. Di evolverci oltre il governo fino al punto in cui un’entità del genere non sia più necessaria o auspicabile. Forse è una prospettiva un po’ troppo ottimistica, ma è uno dei pochi modi in cui riesco a immaginare realisticamente l’avvento di una situazione come questa.

 

Non credo che una rivoluzione violenta potrà mai avere successo, semplicemente perché non è mai accaduto neanche in passato. Insomma, io vivo a Northampton, e durante la Rivoluzione inglese da queste parti appoggiammo Cromwell: producemmo tutti gli stivali del suo esercito, ed eravamo un epicentro del sentimento antimonarchico. Ma guarda caso, producemmo anche tutti gli stivali dei Confederati, quindi è evidente che sappiamo come ingraziarci il vincitore. La rivoluzione di Cromwell? Immagino che sia andata a buon fine. Il re fu decapitato, e a quell’epoca di decapitazioni non se ne vedevano ancora tante in giro: per quanto riguarda la monarchia europea, penso che possiamo affermare di aver lanciato noi quella tendenza. Ma è bastato dargli altri dieci anni e alla fine si è visto che anche Cromwell era un mostro. Lo era tanto quanto lo era stato Carlo I, e per certi versi era anche peggiore. Alla morte di Cromwell seguì la restaurazione. Carlo ii ascese al trono e ce l’aveva così a morte con la gente di Northampton che fece abbattere il nostro castello. Così lo status quo fu ripristinato. Non penso proprio che una rivoluzione violenta potrà mai costituire una soluzione duratura per i problemi della gente comune. Penso che cose del genere sia meglio gestirle da soli e che si realizzeranno con più probabilità attraverso la semplice evoluzione della società occidentale. Però potrebbe volerci un bel po’, e naturalmente la questione aperta è se tutto questo tempo lo abbiamo o no.

 

Quindi direi che sono queste le mie riflessioni principali sull’anarchia. Sono cose su cui medito da tempo. Ancora negli anni Ottanta, quando ho cominciato a buttare giù V per Vendetta per la rivista inglese Warrior, quella storia è stata per molti versi un risultato del fatto che per un bel po’ di tempo non avevo fatto altro che chiedermi quali fossero davvero i poli opposti della politica. Perché mi colpiva che il capitalismo ordinario e il comunismo non fossero i poli attorno a cui ruotava tutto il pensiero politico. Avevo capito che due estremi opposti molto più pertinenti erano il fascismo e l’anarchia.

 

Il fascismo è la rinuncia più completa alla responsabilità personale. Si cede allo stato tutta la responsabilità delle proprie azioni nella convinzione che l’unione faccia la forza, secondo la definizione del fascismo rappresentata dall’antico simbolo romano del fascio di rami legati insieme. Già, è un argomento molto convincente: “L’unione fa la forza”. Ma inevitabilmente poi si tende a concludere che il fascio sarà più robusto se tutti i rami saranno della stessa forma e dimensione, se non ci saranno elementi deformi o ricurvi che turbano l’ordine del fascio. Quindi da “l’unione fa la forza” si passa a “l’uniformità fa la forza”, e come abbiamo visto in tutto l’arco del XX e in questo inizio di XXI secolo, da qui agli eccessi del fascismo il passo è breve.

 


Invece l’anarchia parte quasi dal principio per cui “la diversità fa la forza”, un principio che appare molto più sensato se si guarda al mondo naturale. La natura e le dinamiche dell’evoluzione – sempre, naturalmente, che ti capiti di vivere in un paese dove si crede ancora alle dinamiche dell’evoluzione – non hanno ritenuto opportuno seguire il criterio per cui “l’unione e l’uniformità fanno la forza”. Vogliamo parlare delle specie più resistenti? Allora parliamo di pipistrelli e scarabei: di pipistrelli e scarabei ci sono migliaia di varietà differenti. Certi tipi di albero e di arbusto si sono diversificati in maniera così egregia che ormai ci sono migliaia di variazioni di specie più generiche. Confronta ad esempio questa situazione con quella dei cavalli o degli esseri umani, per cui esiste solo un tipo generale di essere umano e due o forse tre tipi generali di cavallo. Se guardiamo all’albero dell’evoluzione, noi siamo un ramo nudo, spoglio. Sembra proprio che il programma principale dell’evoluzione sia quello di diversificare, perché la diversità fa la forza.

 

Applicando questa visione al livello sociale, si ottiene qualcosa di simile all’anarchia. Ognuno viene riconosciuto per le sue specifiche abilità, per i suoi progetti particolari, e tutti avvertono il bisogno di cooperare con gli altri. Quindi è concepibile che lo stesso tipo di circostanze che si ottiene in un gruppo ristretto di esseri umani, come una famiglia o un gruppo di amici, si possa ottenere in un raggruppamento umano più vasto come un’intera civiltà.
Ecco: direi che al momento sono queste, più o meno, le mie riflessioni sull’anarchia. Anche se naturalmente l’anarchia è una faccenda piuttosto volubile, quindi se mi fai la stessa domanda domani potrei avere un’idea diversa.

 

Margaret: In Writing for Comics spieghi come le storie giungano a influire sul mondo che ci circonda, dici che in certo modo possono essere “utili”. Come pensi che una storia possa diventare utile? E in che modo la politica influenza il tuo lavoro?

 

Alan: Be’, penso che probabilmente le storie siano più che utili: le storie sono vitali. Credo che se si esamina a fondo il rapporto fra la vita vera e la narrativa, si scopre che nella maggior parte dei casi adattiamo la nostra vita vera a storie inventate che abbiamo trovato da qualche parte. Sono certo che fin dai tempi delle caverne, per costruire la nostra personalità abbiamo cercato di prendere in prestito le caratteristiche di altri: magari di persone reali che ammiriamo, ma spesso anche di personaggi assolutamente mitici, di divinità, di eroi, di figure trovate nei libri di storie. Che si tratti o meno di una buona idea dipende da cosa ne facciamo. Il nostro modo di parlare, il modo in cui agiamo, il nostro comportamento traggono probabilmente esempio da una storia inventata o da un prototipo. Anche se a ispirarci è una persona reale, può darsi che questa si sia ispirata a sua volta anche a modelli di fantasia. E per questo è piuttosto facile capire che in un certo senso la nostra intera vita, sia in quanto individui che in quanto cultura, è una sorta di narrazione.

 

È una specie di storia inventata, non è una realtà concreta e fissa: noi trasponiamo costantemente sul piano dell’immaginazione la nostra esperienza, la ritocchiamo di continuo. Alcune parti semplicemente le ricordiamo male, altre le cancelliamo deliberatamente perché non ci interessano o magari perché ci mettono in cattiva luce. Quindi rivediamo costantemente il nostro passato, sia come individui che come popoli. Lo trasformiamo di momento in momento in una specie di storia inventata, che poi è il modo in cui mettiamo assieme i pezzi della nostra realtà quotidiana. Noi non viviamo la realtà direttamente: viviamo soltanto la nostra percezione della realtà. Tutti i segnali che pulsano nei nervi ottici, o sui timpani delle orecchie: a partire da loro noi componiamo, di momento in momento, la nostra visione della realtà. Ed è inevitabile, dato che ognuno ha percezioni diverse e che i costrutti che ciascuno applica alla realtà sono diversi, che non esiste un’unica realtà fredda e obiettiva che sia solida, fissa e chiusa a qualunque altra interpretazione. Inevitabilmente, in certa misura noi creiamo una storia inventata in ogni istante della nostra vita: la storia di chi siamo, la storia del senso della vita, i significati che attribuiamo a ogni cosa.

 

Quindi in certa misura i racconti sono il centro assoluto dell’esistenza umana. A volte con effetti disastrosi: basta pensare alle varie storie religiose antiche – che forse all’epoca furono pensate come semplici fiabe – e a come hanno prodotto guerre devastanti fino al giorno d’oggi incluso. Ovviamente in certe occasioni le storie inventate su cui fondiamo la nostra esistenza ci conducono in territori terrificanti. Quindi, sì: credo che i racconti svolgano un ruolo straordinario, per certi aspetti più delle leggi o di qualunque altro tipo di indicatore sociologico. Secondo me è lo sviluppo delle nostre storie e dei nostri racconti a costituire la misura reale del nostro progresso. In genere mi viene da pensare che quando guardiamo indietro alla storia della nostra cultura, di solito prendiamo l’arte a misura dei punti culminanti della nostra civiltà. Non guardiamo alla guerra, al sindaco o agli avvenimenti politici positivi. Di norma guardiamo ai punti culminanti della cultura, ad esempio alla letteratura.

 

Quanto al rapporto fra la politica e il processo narrativo, direi che probabilmente è molto simile al rapporto della politica con tutto il resto. Quello che voglio dire, per citare la vecchia massima femminista, è che “il personale è il politico”. Non viviamo mica un’esistenza in cui i diversi aspetti della società sono suddivisi in compartimenti stagni come se fossimo in una libreria. Nelle librerie c’è una sezione dedicata alla storia, una alla politica, una agli stili di vita contemporanei, o all’ambiente, alla filosofia moderna, alle mode del momento. Queste cose sono tutte politiche. Niente di tutto ciò è scisso dal resto: tutto è mescolato assieme. E io credo che sia inevitabile che vi sia un elemento politico in tutto quello che facciamo o non facciamo. In tutto quello che crediamo o non crediamo.

 

Insomma, per quanto riguarda la politica, penso che sia importante ricordare il significato effettivo della parola. A volte la politica prova a spacciare una sua dimensione etica, come se ci fosse una politica buona e una cattiva. Per come la vedo io, il termine potrebbe avere la stessa radice della parola polite, “cortese”. Si tratta dell’arte di trasmettere informazioni in modo politico, in un modo che sarà discreto e diplomatico e offenderà il minor numero di persone possibile. In fondo stiamo parlando di interpretazioni. Più che un termine collegato esclusivamente alla fine del XX e agli inizi del XXI secolo, è ovvio che la politica non è mai stata altro che un’interpretazione. Ma detto questo, si tratta comunque di un sistema intrecciato con la nostra vita quotidiana, quindi ogni aspetto della nostra vita, compresa la scrittura narrativa, presenterà inevitabilmente elementi politici.

 

Suppongo che qualsiasi forma artistica si possa definire propaganda di un certo stato della mente. È inevitabile che se crei un dipinto o scrivi una storia, in un certo senso stai propagandando il tuo modo di sentire, di pensare, di vedere il mondo. Si cerca di esprimere la propria visione della realtà e dell’esistenza, e quindi si compie inevitabilmente un atto politico, soprattutto se la propria visione dell’esistenza è tanto lontana da quella comune. Ed è per questo che in passato tanti scrittori si cacciavano in guai tremendi.

 

Margaret: Hai mai avuto problemi con i tuoi editori a causa delle tue idee politiche radicali?



Alan: Be’, stranamente no. A farmi appassionare ai fumetti è stato soprattutto l’influsso delle pubblicazioni underground statunitensi: probabilmente è stato così che è nato tutto, da una specie di venerazione della cultura underground USA e delle sue strisce a fumetti. E quell’ambiente è sempre stato molto politico. Quindi fin dall’inizio c’è stato qualche elemento di satira politica, almeno ogni tanto. Quando serviva o quando mi pareva la cosa giusta da inserire nella storia, nelle mie creazioni sono spuntati elementi di satira politica fin dagli inizi: come in molti racconti che ho scritto per “2000AD”, raccontini fantascientifici con finale a sorpresa. Quando era possibile cercavo di inserirvi una morale politica, o comunque una morale. Semplicemente perché in quel modo ottenevo storie migliori che mi piaceva scrivere anche di più perché così esprimevo le mie idee.
E dato che quei racconti erano apprezzati, e che i fumetti vendevano di più, non ho mai avuto nessun tipo di problema. Anche se chi pubblicava i libri non condivideva le mie opinioni e le mie idee politiche – che in molti casi erano diametralmente opposte alle loro – almeno una cosa che capivano bene erano i dati delle loro vendite. E a quanto pare gli andava più che bene di pubblicare posizioni che dal canto loro non sottoscrivevano, se poi i lettori compravano libri in quantità. Gli editori sono pronti a perdonarti qualunque cosa se li fai guadagnare abbastanza, direi che è questo l’insegnamento generale che ho tratto dalla mia carriera di sceneggiatore di fumetti: se sei bravo, se diventi famoso, se i tuoi libri vendono, allora saranno tutti contenti di metterti a disposizione i loro servizi editoriali per diffondere idee che magari sono pure molto radicali. A volte anche su temi potenzialmente pericolosi. È questa la bellezza del capitalismo: la sua avidità intrinseca si preoccupa più di ammassare denaro che del messaggio che viene messo in circolazione. Quindi no: non ho mai avuto davvero problemi del genere.

 

Margaret: Credi che le tue storie abbiano cambiato il mondo in qualche modo, e se sì come?

 

Alan: Mi vengono in mente molti cambiamenti positivi. Mi piace pensare che certe mie creazioni hanno aperto la mente di alcuni su determinati argomenti. A un livello molto elementare, sarebbe bello pensare che avendo letto le mie opere qualcuno abbia cambiato leggermente idea riguardo al fumetto come mezzo e oggi vi intraveda maggiori potenzialità e si sia reso conto di quanto sia utile per divulgare informazioni. Questa sarebbe già una conquista, e si tratterebbe di uno strumento molto valido da inserire nel proprio arsenale per chi cerca di ottenere un cambiamento sociale, perché in questo campo il fumetto può rivelarsi incredibilmente efficace. Mi piace anche pensare che forse, a un livello più alto, alcune mie opere possano far cambiare drasticamente idea su certe questioni, che magari prima o poi, decenni e decenni dopo la mia morte, determineranno una qualche svolta secondaria nella visione e nell’organizzazione della società. Alcune delle mie storie più suggestive cercano di rappresentare la realtà e le sue potenzialità sotto una luce diversa. Mi piacerebbe che alla fine questa strategia sortisse qualche effetto, che Lost Girls, con cui ho cercato di riabilitare il concetto della pornografia, possa esercitare un influsso positivo, che ne venga fuori una forma di pornografia che non sia perversa ma intelligente e che possibilmente trasformi il porno in un contesto piacevole e accogliente in cui discutere in maniera sana e aperta dei segreti sessuali più intimi, dove le fantasie di cui ci vergogniamo non vengano lasciate a imputridire per trasformarsi in qualcosa di mostruoso, nel lato oscuro che c’è in noi. Sarebbe bello pensare che magari cose come Lost Girls e altre storie fantastiche possano cambiare il modo di pensare della gente.

 


Rispetto al fantastico, mi torna in mente una delle ultime conversazioni che ho avuto con la scrittrice Kathy Acker, una mia carissima e compianta amica. È successo quando avevo appena cominciato a interessarmi e ad appassionarmi alle storie magiche. Io le stavo dicendo che per come vedevo le cose, in sostanza la magia sarebbe stata il bastione più solido e decisivo della rivoluzione. La rivoluzione politica, quella sessuale avevano tutte il loro rilievo e anche i loro limiti, mentre l’idea di una rivoluzione magica doveva puntare a cambiare la coscienza, il che equivale a dire che bisognava cambiare il modo in cui si percepisce la realtà. Kathy era assolutamente d’accordo: questi ragionamenti combaciavano anche con alcune sue esperienze, e io sono ancora convinto che sia così. Per certi versi la magia è il più politico dei miei ambiti d’interesse. Per esempio prima stavamo parlando, o meglio stavo parlando, di come l’anarchia e il fascismo siano i due poli opposti della politica. Da una parte c’è il fascismo, con il fascio di rami legati assieme e l’idea che l’unione faccia la forza, dall’altra c’è l’anarchia, che è completamente determinata dall’individuo e in cui l’individuo determina la propria vita. Se si traspone questo ragionamento sul piano spirituale, allora è nella religione che intravedo l’equivalente spirituale del fascismo. La parola “religione” deriva dal verbo latino ligare, “legare”, e in sostanza significa “legati insieme in un unico credo”. In sostanza si tratta della stessa idea del fascismo, e la componente spirituale non è sempre necessaria. Dal Partito repubblicano fino alle scout, sono molte le cose che si possono considerare una religione: basta essere legati insieme in un unico credo. Quindi per me, come dicevo, la religione è senz’altro l’equivalente spirituale del fascismo. E secondo questo ragionamento la magia diventa l’equivalente spirituale dell’anarchia in quanto è pura autodeterminazione, e il mago non è altro che un essere umano in tutta la sua essenza e in termini più drammatici che sta al centro del proprio universo. E questa, a mio avviso, è come una dichiarazione spirituale delle posizioni anarchiche fondamentali. Io vedo un bel po’ di punti di contatto fra la visione politica anarchica e la ricerca dell’anarchia, e ci sono anche molte affinità fra le due.

 

Margaret: Hai sentito parlare del progetto “A for Anarchy” lanciato a New York all’uscita della versione cinematografica di V per Vendetta?

 

Alan: No: vai avanti, mi piacerebbe saperne di più.

 

Margaret: Degli attivisti anarchici hanno affisso manifesti davanti ai cinema per avvertire che Hollywood aveva epurato la componente politica dal film.

 

Alan: Ah, che cosa fantastica, mi fa proprio piacere perché questo è stato uno degli aspetti che mi hanno fatto più disperare. Quello che in origine era un chiaro scontro ideale fra anarchia e fascismo è stato trasformato in una maldestra parabola dell’11 settembre e della guerra al terrorismo in cui le parole “anarchia” e “fascismo” non compaiono nemmeno una volta. Insomma, lì per lì ho pensato: ma se vogliono protestare contro George Bush e l’andazzo preso dalla società statunitense dopo l’11 settembre, cosa che sarebbe assolutamente comprensibile, allora perché non fanno come ho fatto io negli anni Ottanta quando non mi piaceva l’andazzo preso dall’Inghilterra di Margaret Thatcher e ho scritto una storia sul mio paese che parlava chiaramente delle vicende in corso in quel momento e faceva capire a tutti di cosa stavo parlando? Quel che mi ha colpito è che per Hollywood V per Vendetta non è stato altro che la soluzione trovata da un branco di liberal statunitensi frustrati e impotenti per convincersi di aver dato voce alla loro incazzatura rispetto alla situazione attuale senza correre alcun rischio. Il film è tutto ambientato in Inghilterra, paese che, per come la vedo io, è per quasi tutti gli americani una specie di regno fantastico in cui magari vive anche qualche gigante. L’Inghilterra non esiste davvero: per molti statunitensi potrebbe trovarsi tranquillamente nel meraviglioso paese di Oz. Quindi uno può anche ambientare la sua parabola politica nell’ambiente di fantasia chiamato Inghilterra, ma poi non potrà pretendere anche che la storia esprima malumore nei confronti di George Bush e dei neoconservatori. Sono state queste le mie sensazioni, ma devo ammettere che non ho mai visto il film neanche una volta e ho solo letto qualche brano della sceneggiatura. E mi è bastato. Però questa storia delle iniziative di “A for Anarchy” è molto interessante. È fantastico.

1 thought on “Letteratura, magia e anarchia. Intervista a Alan Moore

  1. Apprezzabili e condivisibili diverse idee, ma alcuni passaggi sono contradditori, o ai limiti del pensiero magico.
    Moore porta come esempio alcune situazioni in natura, ma poi invoca la necessità di “educare”. Il giochino di simulare o immaginare come sarebbe andata la storia se alcuni eventi non fossero mai accaduti o alcune azioni fossero state compiute al posto di altre è sempre stato abbastanza inconcludente perché la storia non è fatta di ingranaggi e meccanismi che si muovono in assenza di attrito. Moore tratta la storia come un frullatore al quale puoi togliere o mettere dei pezzi dando per scontato l’effetto, pensato come lineare e meccanicistico, in questo ci vedo molto poco pensiero anarchico.
    Capisco la fede, o la fiducia, nella naturale capacità dell’umano di orientarsi verso il bene, ma rimane, appunto, una fede, la realtà sembra dire qualcosa di diverso in molti ambiti, o in ogni caso sembra molto ma molto più complessa di come la racconta lui.
    In tutto questo, viva l’anarchia.
    Gert

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