di Matteo Marchesini
[Pubblichiamo la risposta di Matteo Marchesini agli interventi di Fabio Vittorini e Fabio Rocchi, che reagivano a un corsivo di Marchesini su Francesco Orlando e Mario Lavagetto apparso sul «Foglio» il 30 dicembre 2020].
Ringrazio Fabio Vittorini e Fabio Rocchi, che hanno speso tempo ed energie per confutare su questo sito un mio corsivo a proposito di Mario Lavagetto, di Francesco Orlando e dello statuto della critica. Dato che alcuni redattori di “Le parole e le cose” sono stati tanto gentili da sollecitare una mia replica, proverò a chiarire qualche punto.
Prima di tutto, nego di avere mai proposto una forma di “impressionismo” critico che rifiuta gli strumenti di analisi e la ricerca teorica. Al contrario. Quello che ho scritto molte volte è che teorie e strumenti devono essere dosati e utilizzati diversamente a seconda dei casi, perché il critico si trova a fare i conti con uno sfondo per sua natura indelimitabile e incerto – lo sfondo a cui, citando Giacomo Debenedetti, allude Lavagetto nelle ultime pagine di Eutanasia della critica. Dire che i confini della critica, come della letteratura e di ogni scienza umana, sono quelli della vita, cioè che non sopportano gli a priori, e ricordare che di conseguenza il critico è obbligato, se vuole andare fino in fondo, a collegare con chiarezza il testo singolo all’intero di un’esperienza, non significa eliminare i problemi teorici ma riconoscerne la complessità. Mi guardo bene dal sognare, come crede Rocchi, un “critico che legge dominato sostanzialmente dal solo istinto e da una personale Weltanschauung”. Anzi, appunto perché ritengo che il critico non debba essere tirannicamente dominato da questi fattori, ineliminabili nella ricerca, considero suo dovere mediarli, discuterli, metterli in campo; o comunque, in modo magari implicito ma limpido, dimostrare al lettore di averli ‘scontati’. Scrivevo nel corsivo che un critico dovrebbe mettere “tutto radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra il presente e il passato. Nella critica è cruciale il senso della posizione: argomentazioni e sensibilità devono comporre una visione del mondo”. Come si potrebbe affrontare un compito del genere senza strumenti di lettura, senza esplorazioni teoriche o sensibilità storica, lasciandosi possedere “dal solo istinto”?
Ripeto queste parole con una certa stanchezza, perché mi accorgo che malgrado la pubblicazione di lunghi saggi sul tema – troppi e troppo lunghi, direbbe uno dei miei censori – tocca sempre ricominciare da capo. Succede la stessa cosa con altre dicotomie logore, che pure continuano ad avere corso, evidentemente perché rappresentano uno stallo della società e della cultura: quella di impegno/disimpegno, per esempio. Da molto tempo ormai l’“impressionismo” è un fantasma fobico degli studiosi di letteratura, che gli contrappongono un rigore a sua volta fantasmatico, e pericolosamente simile all’oggetto del loro esorcismo. Lo conferma Vittorini, associandomi addirittura al “culto impressionistico dell’empiria vigente nel totalitarismo di massa dei social network”, che avrebbe dichiarato la teoria “nemico pubblico insieme a ogni categoria che implica studio e/o insegnamento”.
Mettiamo un po’ d’ordine. L’impressionismo, o quello che qualcuno, giudicando altri generi letterari, chiama “spontaneismo”, indica un atteggiamento irriflesso verso qualcosa. Si può essere benissimo degli “impressionisti della teoria”, nel senso in cui il termine “teoria” viene usato nei dipartimenti delle humanities a partire dal tardo Novecento – cioè in un senso non sovrapponibile, per le sue implicazioni culturali e anche sociali, a quello che gli si dava nella precedente modernità otto-novecentesca. Per verificarlo basta discutere con un buon numero di studenti e letterati che si sono formati nei centri degli studi umanistici a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo. Molti di loro sono candidamente certi che fuori da quella ideologia della “teoria” non si diano né teoria né salvezza, e che tutta la storia non abbia fatto che tendere alle sue magnifiche sorti. Esistono anche degli spontaneisti “sanguinetiani”, cioè dei letterati inclini a rapportarsi alle forme delle neoavanguardie con la stessa naïveté con cui i poeti della domenica che detestano, quelli satireggiati nei romanzi di Giuseppe Pontiggia, si rapportano alla koinè ungarettiana o cantautorale. E il caso mi sembra più grave, dato che il loro spontaneismo nasce su un terreno culturalistico.
Ciò che propongo è quindi un atteggiamento più riflessivo, più sospettoso, più teorico verso una cultura che, sebbene dopo l’euforia scientista degli anni Sessata e Settanta abbia ripiegato sui sincretismi più vari, quasi mai ha ridiscusso quel senso molto limitativo di “teoria” – un senso che anziché riconoscervi il lievito di tutta la maggiore critica moderna finisce per farne il suo opposto, liquidando secoli di grande saggistica come rozzi esordi da ricordare in breve, con malcelata compassione, in poche note a piè di pagina.
E’ vero che al teoricismo ha reagito una critica impressionistica. Io però l’ho sempre considerata altrettanto dannosa: nella premessa alla mia ultima raccolta deploro l’estetismo “volgarmente autobiografico” di chi “fraintende Garboli, facendo grandi misteri su una banalità qualunque, ed estremizza la lezione vaporosa di Citati”. Per riprendere uno spunto di Rocchi, si tratta di un saintebeuvismo degradato, quello dell’“io lo conoscevo bene” (al quale si aggiunge, orribile a dirsi, un saintebeuvismo ammantato di suggestioni neuroscientifiche…). Ma anziché confliggere con gli scientisti più o meno moderati, oggi i rappresentanti di questo filone si spartiscono tranquillamente con loro il campo delle influenze: e in mezzo resta schiacciata la critica autentica, cioè quella forma di letteratura i cui autori sono costretti a tirarsi su per il codino a ogni nuovo scritto come il Münchhausen di Adorno. Per definirla, nel corsivo ho ricordato un passo famoso di Fortini. Dall’anno in cui il saggista di Verifica dei poteri stese quelle righe, le possibilità di praticare una tale critica si sono molto ridotte. Eppure, benché resti sospesa in uno spazio minimo da racconto beckettiano o peggio, ancora adesso il suo significato dipende da una tradizione illuministica e romantica alla quale non abbiamo trovato alternative. Vittorini ignora la citazione, ignorando così la sostanza del mio discorso; Rocchi invece prova a correggerla con un’altra dello stesso autore. Opporre Fortini a Fortini, si sa, è un po’ come opporre Marx a Marx. Il gioco può continuare all’infinito. In ogni caso, il Fortini scelto da Rocchi non è affatto incompatibile con il mio. Quando servono, è bene che la critica impugni gli strumenti ‘specialistici’ adeguati: ma l’economia del discorso per cui li utilizza non è quella dello specialismo. Non bisognerebbe mai smettere di studiare il corpo concreto dei testi, la metrica, i caratteri linguistici e strutturali, la storia dei generi e delle tecniche: ma occorre farlo sapendo che mentre nelle materie delimitabili, nelle materie di cui è possibile analizzare gli oggetti servendosi di a priori consistenti e decisivi, studi di questo tipo garantiscono già di per sé un alto grado di conoscenza, qui restano una morta cassetta di attrezzi finché un’intuizione complessiva della vita e del suo rapporto con la pagina non li richiami a sé, finché non li concentri col suo magnete tutti in un punto e non li convogli verso un fine.
Se questa critica non è specialismo, non è però nemmeno divulgazione. Il suo compito distintivo non consiste infatti nel tradurre un sapere che è già stato acquisito “in latino”, ma nel servirsi anche del “latino” per elaborare in un altro linguaggio un sapere di cui non si dà scienza. Ed è proprio per eseguire questo compito con il massimo rigore che il critico si trova a praticare la forma saggistica. Purtroppo a partire dagli anni Sessanta, con il rapido sviluppo di un’industria culturale e di un’università di massa, questa forma è stata a poco a poco emarginata. Da allora, la maggior parte delle energie viene impiegata nello sforzo di rendere trasmissibile per moduli standard un sapere che di per sé lo è poco. Così la critica, e il saggio, che richiedono una vocazione teorica ma non la esibiscono come un’etichetta, hanno cominciato a essere considerati un inutile ostacolo. Si sono invece privilegiate le teorie esposte col cartellino o usate come passe-partout, cioè in maniera acritica, e le forme di discorso più adatte a essere riassunte. Non a caso l’enfasi sull’ermeneutica come cornice è cresciuta in modo inversamente proporzionale all’ermeneutica concreta, praticata nel quadro. Le conseguenze ulteriori sono note. Con un piglio positivista che nelle scienze dure è stato abbandonato da oltre un secolo, gli ambasciatori dipartimentali riaffermano stagione dopo stagione che certi problemi sono ormai superati grazie a nuovi strumenti teorici. Il loro impegno consiste soprattutto nell’inventare degli enti burocratico-metafisici (pseudoconcetti, avrebbe detto Croce) assolutamente incongrui con l’oggetto trattato, ma utilissimi a posizionarsi all’interno della struttura che finge di avere il monopolio della ricerca: si pensi alla cosiddetta “ecocritica”, pendant di una altrettanto fantomatica “ecopoesia”. Se messe a confronto con i risultati del saggismo critico moderno, tendenze del genere mostrano subito la loro pochezza; ma proprio per questo si evita accuratamente un simile confronto, e ci si premura di legittimarle con una produzione drogata di prolissi studi monografici. In questi studi, di solito, dalle citazioni di alcuni grandi classici della critica filosofica e filologica primonovecentesca si passa direttamente alle citazioni dei teorici più in voga del momento; e in mezzo non resta quasi traccia di quella saggistica militante senza la quale è impossibile capire la cultura letteraria del ventesimo secolo (nei testi sul romanzo, si fatica addirittura a trovare il nome di Debenedetti).
Questo genere di produzione accademica costituisce il prodotto e insieme il mezzo di riproduzione del programma di letture prescritto nei nostri dipartimenti letterari, che come mi è capitato di osservare sembra più uniforme di quello dei dottori scolastici nel Medioevo. Cosa curiosa, se si pensa che viene ammannito proprio nei luoghi in cui si ripete che la biblioteca di Monaldo Leopardi è esplosa da secoli. E siccome la circostanza è indubitabile, la finzione che si dia un’istruzione canonica è assurda, anzi dannosa. A forza di mitizzazioni e di silenzi, si perde infatti la memoria di ciò che c’era prima. Le generazioni passano, e gli studenti cominciano a credere sul serio che quei canoni coincidano con il panorama completo. Non ne avvertono più la parzialità interessata, ideologica. Al termine del percorso accademico, e di un’adolescenza scandita da eventi editoriali che a quel percorso s’intrecciano perversamente, quasi nessun ‘esperto’ di letteratura sembra avere anche solo sfogliato, per fare qualche esempio, i libri di Edmund Wilson o di Hans Magnus Enzensberger, di Cesare Garboli o di Luigi Baldacci, né sembra aver letto in maniera adeguata saggisti come Adorno e Fortini, dato che di solito, anziché riprenderne le domande e riflettere sulla loro straordinaria capacità di unire dialetticamente dettagli, aforismi e astrazioni, li si tratta come autori di assiomi, cioè li si neutralizza nel momento stesso in cui li si evoca. Non parliamo poi di Nicola Chiaromonte, che a chi riflette su romanzo e teatro potrebbe offrire una teoria tra le più originali, inscindibile oltretutto da una visione del mondo che conferisce veramente al suo pensiero una coerenza filosofica: credo che il suo nome non compaia in nessuno dei manuali di lusso che si portano agli esami in tutta Italia.
Quanto è costata questa rimozione di un genere, e di un intero orizzonte culturale? Ecco un bel tema per la ricerca. In astratto, ognuno di noi sa bene che gli atteggiamenti stilistici e teorici con cui ci si accosta a un’opera poetica, o a qualunque altro ‘oggetto’ delle scienze umane, non sono mai neutri. Ma in pratica sappiamo davvero solo ciò che ricordiamo ogni giorno; e la sovrastruttura culturale in cui siamo immersi ci fa dimenticare il prezzo della perdita di una vasta eredità critica. Il solito Fortini parlò delle periodiche immersioni “in Lete e in Eunoè” delle nostre classi dirigenti. Vale anche per gli intellettuali e i letterati, i quali non soltanto dimenticano la saggistica novecentesca, ma spesso, appena l’influenza di una “teoria” inizia a sfumare, l’abbandonano come un partito perdente alle elezioni, e senza discussione critica, in punta di piedi, passano al nuovo paradigma emergente: basta pensare a come tanti professori, entrato in crisi lo strutturalismo, si siano concentrati sui temi e sui cultural studies, cioè su una versione parodica della critica dell’ideologia rimossa.
Ovviamente la critica a cui sono affezionato è stata emarginata per ragioni non banali. Ho già citato le esigenze della “struttura della sovrastruttura”. Si può aggiungere che nell’ultimo mezzo secolo il posto della letteratura nella cultura è molto diminuito, e all’esperienza personale, diretta, si è sostituita quella puramente scolastica o pubblicitaria. Di conseguenza era forse fatale che il critico militante, il critico nella cui vocazione l’interesse per la letteratura convive con quello per la società, fosse rimpiazzato dallo studioso che nel patrimonio letterario vede soprattutto un deposito di opere, un edificio dai confini già certi all’interno del quale occorre dedicarsi a un lavoro di classificazione. Questo studioso è poco incline a stabilire rapporti tra una koinè stilistica e un’ideologia o una situazione esistenziale, tra un testo classico o appena stampato e il giornale del mattino. Non di rado s’illude di espellere così dal suo campo d’indagine l’impressionismo, e magari il frastuono qualunquista dell’infosfera; mentre invece, appunto perché rifiuta di farci i conti, rischia di arrendersi senza accorgersene alle sirene più effimere. Ogni tanto, per esempio, aggiunge in fretta un nuovo pezzo al deposito. Chi lo ha stabilito, e dove? Non si capisce bene. Di solito glielo ha imposto un mix fatale di poteri mediatici e stereotipi culturali: ed ecco che lui subito lo seziona come seziona Flaubert.
Le aule universitarie non sono affatto impermeabili alla feroce forza che il mondo possiede, e che si fa chiamare diritto. Anche per questo nessuna scelta è neutra. Quelle fatte negli ultimi decenni ci hanno garantito un miglior modo di leggere? Mi permetto di dubitarne. La disabitudine a maneggiare la saggistica in tutte le sue forme, e magari pure i corsivi, rende meno capaci di riconoscerne la ratio: con molta superficialità, s’impara a crederli superficiali. Me lo conferma anche questa polemica. Commentare un corsivo, cioè un genere letterario che ha certe caratteristiche specifiche, come se fosse una monografia, non è forse un errore da lettori “impressionisti”? Non è assurdo ritenere che io abbia preteso di comprimere analiticamente l’intera vicenda di Lavagetto e Orlando in 5mila battute, e criticarmi su questi presupposti? Nel caso di Vittorini, poi, l’arbitrarietà dell’interpretazione mi sconcerta. Arriva a ritenere “cieco e rabbioso” uno scritto in cui ho definito i due studiosi degli “elegantissimi interpreti” della letteratura, “il volto più umano” di una svolta culturale che mi lascia dubbioso. Se usassi il suo metro di misura, cosa dovrei dire io della sua risposta? Chissà poi se Vittorini interpreterebbe con gli stessi criteri un corsivo come il mio, ma dedicato a un uomo politico, o comunque a una figura pubblica un po’ più lontana dall’ambiente letterario. Temo di no. Come ho imparato a mie spese, le discussioni culturali, che per natura dovrebbero essere più libere e spregiudicate, sono invece molto più inibite, cerimoniose e ampollosamente allusive di quelle politiche. Il fondo clericale della nostra cultura riemerge oggi più vivo che mai; e l’intellettuale pronto a trattare il leader di partito con sovrano disprezzo, appena torna a occuparsi del suo milieu riveste con puntiglio i panni secenteschi, vedendo nella polemica un insulto.
Per quel che riguarda la riuscita del mio pezzo, non tocca a me giudicare. Però quando Vittorini mi imputa una goffaggine perché dopo avere espresso la mia distanza da Lavagetto e Orlando concludo in termini freudiani, credo di poter dire che fraintende grossolanamente il tono. E’ evidente che si tratta di una ritorsione umoristica; ma non gratuita, dato che l’epigramma restituisce, in un’immagine secondo me calzante, la parabola postmoderna degli studi letterari. Dove poi, avvicinando ancora di più la lente al mio linguaggio, afferma che Lavagetto “avrebbe rifuggito il moralismo a pronta cassa dell’aggettivo ‘ideale’”, io ho ancora l’impressione – mi perdonerà la parola – che di nuovo interpreti con troppa fretta: non uso infatti quell’aggettivo nell’accezione che allude a un valore supremo ma a un tipo. Nella pratica, spiego nel corsivo, i tipi ideali di critico e studioso si traducono in una serie di gradazioni su uno spettro. Ed ecco il punto: Lavagetto e Orlando incarnano a mio parere un compromesso abbastanza problematico tra i due tipi. Come ribadisce giustamente Vittorini, entrambi si servono delle teorie in un modo assai più duttile e ragionevole di tanti loro colleghi (e il mio paragone di Lavagetto con Maigret anche a questa dote alludeva); ma nonostante la duttilità, la ragionevolezza e la raffinatezza, dai loro maestri e dalla critica ‘totale’ del Novecento li divide un’omissione che non mi pare un vantaggio. Si allontana cioè, nel loro discorso, la domanda sulle ragioni per cui leggiamo certi testi, sul rapporto tra la scelta delle letture e la nostra situazione in senso lato culturale – situazione che non è una specie di trascurabile contorno, ma che può determinare, oltre alla scelta di un canone, anche quella dei dettagli stilistici su cui soffermarsi. Entrambi, ognuno alla sua maniera, si muovono insomma in uno spazio dai confini delimitati altrove, agitando una torcia speciale per rivelarne meglio le caratteristiche. E la torcia frutta spesso scoperte importanti, che ci rendono tutti debitori a chi con tanto scrupolo e intelligenza l’ha manovrata. Resta il fatto che il legame con l’intero dell’esperienza, da cui altre scoperte potrebbero scaturire anche in una esplorazione ravvicinata, risulta quasi reciso. Sostenere questo significa misconoscere i grandi meriti di Lavagetto e Orlando? Dire che appena Mengaldo si stacca dai testi, e dalla cultura estetica che immediatamente li circonda, per volgersi a una più vasta realtà sociale ed esistenziale, si appoggia in modo troppo schematico alle idee di Fortini e Cases, e che quando gli viene a mancare il nutrimento del marxismo eretico anche le sue scelte testuali ne risentono, significa negare la portata straordinaria delle sue ricerche? E’ una rabbia cieca, il sentimento che mi porta a distinguere questi orizzonti più limitati da quelli delle indagini di Debenedetti sul romanzo – dal tatto con cui i più disparati elementi confluiscono in quelle indagini – o dai saggi di Fortini sul rapporto tra metrica e storia? Ovviamente tutti i critici, Debenedetti e Fortini compresi, hanno i loro punti deboli, le loro cecità; ma una cosa è quel limite che è il rovescio del pregio, quel buio necessario perché si stagli la luce, un’altra cosa sono le ombre e le mancanze che rendono la luce opaca, attenuandola all’interno del raggio che dovrebbe illuminare. La delusione di molti, davanti al panorama continiano del nostro Otto-Novecento, non viene tanto dal disaccordo con le scelte dell’autore, ma anzi dal fatto che in quelle scelte non è abbastanza Contini: cioè dal fatto che in quel caso le argomentazioni e la sensibilità non si compongono più in una visione, condivisibile o meno, e che riflettono una notevole arbitrarietà prima di tutto dal suo punto di vista. Un critico deve rispondere il più possibile di sé stesso; ed è dove non lo fa che si rivelano i difetti più gravi.
Ma per tornare a Lavagetto e a Orlando, il loro compromesso mi interessa proprio perché avviene a un livello molto alto; e anche perché riguarda una generazione di passaggio tra i regimi culturali del primo e del secondo Novecento. Da lì in poi, però, ha prevalso la logica del telefono senza fili: passando di voce in voce, di generazione in generazione, la progressiva elusione della domanda sulle ragioni e il senso della lettura di certi testi in una determinata situazione personale e generale si è trasformata in una diffusa incapacità di interrogarsi, in una insensibilità crescente al rapporto tra la letteratura e il resto dell’esperienza. L’egemonia appartiene ormai a un nuovo tipo di letterato e di studioso, le cui membra, per così dire, sono cresciute o si sono rattrappite in modo abnorme. C’è in questo tipo una scissione rivelatrice. Nella sua opera la critica, inibita, si deforma nell’aggressività di un contegno caricaturalmente matter of fact, e il giudizio idiosincratico è introdotto surrettiziamente in un contesto che fa apparire le interpretazioni monche o immotivate. Quando un tale studioso abbandona l’abito e lo stile che ritiene più consoni alla sua attività, la radice di sfrenato soggettivismo che la alimenta affiora senza mediazioni. Non sa più distinguere critica, satira, polemica e bestemmia, in sé quanto negli altri. Appena sente messe in questione le basi su cui si fonda il suo contegno percepisce l’attacco come un insulto, e nell’insulto con cui reagisce vede solo una reazione dignitosa.
Se non si avvertono le differenze di tono – cioè se non si legge, se non si interpreta con un grado sufficiente di correttezza – comunicare è davvero difficile. Nel corsivo su Lavagetto e Orlando ho raccontato un piccolo aneddoto che serviva a illuminare una diversità, ad abbozzare un doppio ritratto di scorcio; e credo che solo un’assoluta mancanza di umorismo possa indurre a considerarlo un’offesa. Vittorini invece, cercando di ribattere, diventa subito volgare: “come se, quando non si viene accolti in gloria nella dimora dell’accademia, non restasse che ridicolizzarla facendola apparire come un grottesco maniero in rovina”, scrive commentando le mie parole. Ora, a parte la brutalità con cui salta dal testo all’autore – cedendo a una prassi che altrove condanna – per dare un senso alla sua mossa il mio censore avrebbe dovuto almeno avere un’idea attendibile dell’autore e dei suoi (moltissimi) punti deboli; ma chi mi conosce sa che la sua accusa è invece del tutto fuori bersaglio, anzi francamente grottesca.
Quello che considero il maggior critico di fine Novecento, Luigi Baldacci, per buona parte della sua vita ha insegnato all’università. Non approverebbe il mio uso della parola “scrittore”, che evitava per evitare gli equivoci. Ma nella sostanza, incarna esattamente il critico a cui penso. Fin dall’incipit di un suo scritto, si capisce che esercita un controllo straordinario sui fattori più diversi: il taglio, la densità, la maniera di dosare epigrammi e analisi indicano al lettore non solo una posizione o l’interpretazione di un passo, ma il peso che ogni particolare ha nell’economia del discorso, il significato storico e attuale che l’autore attribuisce al suo tema. Con una metafora rivelatrice, Baldacci si definiva un “critico generico”. Come tutti i veri critici, aveva una vocazione teorica; ma proprio perché l’aveva, sapeva anche che l’oggetto viene prima del metodo: e l’ha esemplificato benissimo affrontando con strumenti diversi Tozzi e Manzoni, Moravia e Imbriani. Chi voglia farsi rapidamente un’idea delle sue doti può leggere il saggio Giosue Carducci: strategia e invenzione, dove si muove con strabiliante agilità tra metrica, ideologia e storia, e dove mostra come idee in apparenza uguali, espresse con le medesime parole, abbiano una consistenza incomparabile: dimostrazione più che mai utile, oggi che un comparatismo robotico tende a porle tutte sullo stesso piano.
Ultime notazioni personali. In un passaggio particolarmente sgradevole, Vittorini insinua che io rifiuterei la discussione con i vivi. Proprio la mia testardaggine nel promuoverla mi è costata parecchio. Bompiani ha addirittura bloccato un mio libro mentre andava in stampa: caso di fronte al quale coloro che amano esaltare la libertà e la responsabilità della critica hanno quasi tutti taciuto, o reagito secondo i peggiori costumi clericali dei letterati italiani. Infine, mentre usa arbitrariamente il mio testo per attaccare me, Vittorini mi accusa di non distinguere l’opera dall’autore. E’ così poco vero che ampie sezioni delle mie raccolte saggistiche sono incentrate sul tentativo di dividere, tra le pagine che portano la stessa firma, le riuscite dagli scacchi. Segnalo a questo proposito, in Casa di carte, i ritratti di Ermanno Cavazzoni, Walter Siti e Umberto Fiori.
[Foto di PIXNIO].
In attesa che Vittorini riponda al fuoco, se non è perito per qualche granata, si può avere un link al benedetto corsivo? (lo dico a Marchesini ovviamente)
Non so… fossimo nel 1921, tutto questo sforzo avrebbe forse un senso e, certo, un eletto pubblico di riferimento, sia nel contemporaneo che in una almeno prossima posterita’… ma cosi’ ed oggi, con millemila produttori di senso e millemila modi aperti alla produzione, ognuno pescando nel medesimo ed oramai universale bacino del poetico umano, dell’esperibile condiviso o gia’ noto ovunque, prima ancora della messa in forma locale? Neppure fa gioco la politica, visto che il romanocentrico antiberlusconismo che garantiva una qualche maniera e una minima carriera nella comunicazione e’ stato da un decennio espugnato dai barbari nostrani, che tutto inseguono tranne che lunghi discorsi e senso compiuto, men che meno aure individuali. E tali barbari rappresentano 1:1 i milioni di individui che li hanno messi in Parlamento, nelle grandi aziende e nei media mainstream. Con mezza vita davanti, tuttavia, c’e’ tempo per mettersi a fuoco, concentrarsi sulle due o tre questioni fondamentali che animano la presenza letteraria ed allargare il campo in verticale, invece di occuparlo in orizzontale a concreto beneficio di… nessuno?
“ Sabato 30 marzo 2013 – « Vittorini, Pratolini, Pasolini, Arbasini, Gnagnardini… » (Luciano Bianciardi – Enrico Vaime, Ohei! Son qui, 1965) “. Senza offesa per nessuno, solo per sdrammatizzare.
Vecchie dicotomie e vecchi metodi: questa sarebbe la critica della critica letteraria oggi.
Esiste, da molto tempo, una differenza sostanziale fra accademico e critico letterario. Non vedo un motivo valido per riparlarne e addirittura per crearne una polemica intellettuale. Due metodi che convivono insieme perfettamente e che Fortini e gli altri hanno voluto portare su un piano ideologico e politico. Forse allora poteva anche avere un senso, oggi no. Trovo sterile che ancora se ne parli. Questo dibattito non arricchisce nessuno.
“ Martedì 25 febbraio 1997 – Il debito pubblico / Romanzo. “.