di Giuseppe Nicoletti

 

[E’ uscito da poco per  Salerno il volume di Giuseppe Nicoletti Attraverso il novecento: saggi e interpretazioni. Ne presentiamo il primo capitolo per gentile concessione dell’editore].

 

1. È pensabile che oggi, per il lettore comune, il nome di Giacomo Debenedetti venga associato a un’opera di indiscusso prestigio ma di materia essenzialmente critica, e semmai questi dovesse indicare un titolo, in luogo delle mitiche serie dei Saggi critici (preferite di solito dagli studiosi e dai professori), egli sarebbe propenso a indicare una delle fortunate opere postume, e forse, e non a torto, quella uscita per prima e tuttora periodicamente ristampata, Il romanzo del Novecento. Esiste però anche un altro Debenedetti, un Debenedetti non diremo tout court narratore, il che sarebbe forse esagerato, ma un Debenedetti “scrittore in proprio” (questa sì è formula per lui più congeniale): anche in questo caso la risposta del pubblico sarebbe univoca e indicherebbe, piuttosto che la plaquette degli Otto ebrei, quella assai più conosciuta e citata (ma assolutamente coeva all’altra) intitolata 16 ottobre 1943. Insomma, quella che di lui è restata come “scrittore” è l’immagine di un austero e fermo testimone di una delle più atroci pagine della nostra storia patria recente, ovvero il curatore non impersonale e invece discretamente partecipe di un drammatico referto storiografico, predisposto a pochi mesi dall’accadimento, quasi a volerne esorcizzare un colpevole oblio che non era poi tanto difficile, già a quell’altezza di tempo, preconizzare con amarezza.

 

L’esordio di Debenedetti scrittore, risalente a quasi vent’anni prima, è invece rimasto più in ombra e solo pochi lettori professionali (fra i tanti che pure si sono occupati del critico insigne) si sono sentiti di rilasciarne una testimonianza di lettura. Parliamo naturalmente delle pagine di Amedeo che l’autore, appena venticinquenne, ebbe la ventura di affidare ai tipi di un giovanissimo ma già periclitante editore, il conterraneo Piero Gobetti. Certo, quell’esordio non potrebbe essere più difforme dal 16 ottobre 1943 e cioè dal racconto (poi assai celebrato) della retata degli ebrei romani del ghetto da parte dei tedeschi comandati da Herbert Kappler. Le due operette, anzi, quasi non sembrano di conio dello stesso autore, tanto mancano di una interna sintonia, tanto divergono per scrittura e destinazione. Per dirne una, nel secondo libretto latita quasi del tutto la presenza del soggetto scrivente che è invece, come vedremo, pur trasfigurato nel misterioso alter ego di Amedeo, l’oggetto piuttosto ingombrante di un’indagine implacabile e quasi ossessiva. No, nel narratore di 16 ottobre 1943 sembra di dover riconoscere invece le movenze operative di un vero e proprio storico, alla maniera, diremo per indicare l’esempio più alto, del Manzoni della Colonna infame, vale a dire di uno scrittore che certo non assistette proprio di persona agli eventi descritti[1] ma che tuttavia, contando su ciò che poteva percepire dal suo nascondiglio (voci, urla, rumori, ecc.), riesce a rappresentarli con una singolare evidenza, pari a quella strettamente testimoniale, grazie appunto a una sorta di affidamento della parola narrativa, da parte dell’autore, alla responsabilità di una «collettività popolare, un coro sgomento e terribile»[2] (donde l’importanza delle testimonianze da lui raccolte di alcuni sopravvissuti come Mario Pizzichino, Luciano Camerino e Aldo Sorani).[3] E ciò vuoi per la sapienza evocatrice della scrittura e vuoi anche per la ricercata esattezza documentaria che solo un’attenta ricognizione sul campo può offrire (per non parlare, nel caso di Debenedetti, di quel sentimento “intelligente” di fraternità partecipe che solo l’appartenenza al popolo ebraico riesce a conferire). Si legga in proposito soltanto un periodo di quello scritto per comprendere come agisca nella struttura argomentativa di 16 ottobre 1943 questo atteggiamento quasi didascalico (e però autointerrogativo) di ricostruzione dell’evento da parte di un narratore che sia particolarmente attratto dalla presunta oggettività dell’accadimento e dunque della materia storica:

 

Cominciamo a seguire la signora S. Il suo racconto, senza dubbio ripetuto molte volte nel corso di questi mesi, sarà certo un po’ ricostruito, con un ordine nell’incastro dei fatti e nella sequenza dei tempi, che forse la vita non ebbe; ma le persone da lei citate – quelle che si sono potute interrogare – confermano la veridicità degli episodi e l’esattezza dei particolari.[4]

 

Di tutt’altro tono, come dicevamo, la prosa di Amedeo (già in «Il Convegno», iv/11-12 1923) che richiama prima di tutto una stagione altra della nostra cultura letteraria, di quel Novecento di cui il giovanissimo autore divenne ben presto uno degli interpreti più perspicui e prestigiosi.[5] Le pagine di Amedeo infatti sarebbe impensabile poterle collocare in altro ambito se non quello di certo autobiografismo post-vociano, di quel sofferto e non sempre limpido e invece a tratti effusivo scavo interiore di cui sono piene le pagine dei più accreditati virtuosi del frammento e, subito dopo, di quella compiaciuta analisi del profondo (non ancora battezzato dalla sistematica freudiana) così tipica della timida e non assertiva avanguardia di «Solaria»: insomma tutti caratteri che segnano di netto la distanza (se non proprio l’estraneità) rispetto all’esigenza forte di struttura e al respiro progettuale richiesti di norma dall’impresa romanzesca di marca borgesiana. Eppure, mai Debenedetti, neanche nei suoi verdi anni torinesi, abbandonò quell’abito di rigore (di stile) e di discrezione (aristocratica?) che gli impediva di varcare i confini di una confessione più aperta e liberatoria. Bene ha detto a questo proposito Geno Pampaloni rievocandone la figura di «scrittore così intimamente e tormentosamente autobiografico» nella cui opera però, tiene a precisare, non «trovi mai una pagina effusiva, un abbandono all’io della memoria».[6]

 

2. E allora, si veda più attentamente e da vicino in che modo lo scrittore nel racconto eponimo guardi e indaghi nel cuore del suo personaggio. In proposito ci si avvede di primo acchito come venga avviata una sorta di analisi estremamente ravvicinata all’oggetto, seguìto come in presa diretta, quasi un vero corpo a corpo che lo scrittore ingaggia con questo «ragazzo “senza qualità”» di cui, come è noto, in un secondo tempo (e che tempo…) avrebbe voluto poter «sviluppare una psicoanalisi» pensandolo come «un naturale candidato psicologico ai campi di sterminio».[7] Il linguaggio e le immagini che lo scrittore utilizza, proprio per una loro indubbia, studiata peregrinità (che non poco ebbe a imbarazzare i suoi primi lettori, come vedremo), tendono a far appello e quindi a esaltare la capacità riflessiva del lettore, costretto a uno sforzo di decifrazione che lo abilita a stazionare senza soluzione di continuità in un ambito quasi del tutto privo di referenze immediatamente riconoscibili. Nel primo tratto del racconto, in verità, quel «ragazzo» appare ancora un fanciullo alle prese con i primi, «confusi vagheggiamenti» pulsionali di un’adolescenza appena imboccata. Alla complessa registrazione di queste «smanie» segue quella delle manifestazioni di affettuosità che «la mamma» ancora non si peritava di impartire e, conseguentemente, viene fatto cenno al senso di estraneità e di incondita e anaffettiva superiorità che lo coglieva di fronte ai compagni di scuola («riconoscere dei competitori sarebbe stato già elevarli alla propria statura»), forte in questo di una colpevolizzante autodisciplina che noi definiremmo senz’altro di natura superegotica: «Nell’osservare i divieti, nel punirsi per le trasgressioni, Amedeo fu inflessibile: la regola divenne presupposto necessario di quella stima di se medesimo su cui si fondava il suo fanciullesco equilibrio».[8] Ma l’anamnesi spietata dell’imberbe personaggio non si ferma qui e anche la stagione subito successiva alla sua infanzia viene illuminata dallo scrittore con uno stesso zelo che vorremmo definire introspettivo: permane in lui il senso di estraneità a una più «facile adesione al concreto e limpido fluire delle cose» e, per quanti piaceri si concedesse, capiva che «della possibilità dell’amore o di una qualunque vita sentimentale, nemmeno parlarne». E pertanto, una volta imboccata la strada cui lo spingeva la vocazione per il lavoro letterario, si era sviluppata in lui una «disposizione di fatalistica attesa», vale a dire che in quella «attesa» non poteva sentirsi rassicurato da una preventiva e salda organizzazione del proprio tempo giornaliero e quindi non gli «restava se non sperare in un caso qualunque che condensasse d’un tratto, e fruttuosamente, la disordinata germinazione che egli sentiva dentro di sé».[9] E alla fine, fattosi ormai più consapevole e un poco più maturo, Amedeo, messo di fronte a una scelta seccamente alternativa (pur nella sua trasparente e ironica allusività di ricatto scaramantico) e cioè la scelta di interrompere ovvero di proseguire una cosiddetta “catena di Sant’Antonio”, deciderà di liberarsi dall’obbligante sequenza senza dar seguito alla catena («si richiedeva di fare nove copie di una preghiera circolare partita dall’America»). Si sarebbe potuto credere che in tal modo «il destino gli avesse mandato un avviso»[10] che Amedeo, appunto, finge di non accettare rimuovendolo semmai e sostituendolo con una nozione alternativa, quella dell’attesa, così come acutamente scrive Edoardo Sanguineti:

 

La «disposizione di fatalistica attesa» è in effetti non soltanto la chiave che rende intellegibile il profilo di Amedeo, ma è la radice, soprattutto, di quella ostinatissima ricerca di «segni» propizi, onde intravvedere «qualche promessa», che è già il perno del pantografo critico con cui Debenedetti tenterà ogni volta di riprodurre i lineamenti dei propri autori o eroi.[11]

 

Ma il rendiconto narrativo di questo singolare rapporto narcisistico con il proprio doppio non si ferma per Debenedetti a questa prima puntata giovanile, e fra le altre pagine che possiamo immaginare lo abbiano riguardato negli anni avvenire, pagine e appunti presumibilmente dispersi e lasciati inoperosi fra gli inediti, risulta di grande interesse la pur breve e inconclusa ripresa che verrà portata alla luce molti anni dopo la princeps gobettiana e all’insegna di un titolo non si sa fino a che punto legittimato dall’assenso dell’autore, quell’Amedeo II pubblicato per la prima volta in una ristampa del 1984 del libro debenedettiano.[12] In questo rapido schizzo lo scrittore ritrova il suo alter ego («Per la seconda volta ho incontrato Amedeo») a Parigi, in un anno imprecisato del secondo dopoguerra: dapprima ne ristudia, con malcelato compiacimento e aggiornandoli alla temperie di una stagione più provetta, quei suoi tratti fisici ritenuti da sempre, dagli amici più intimi, inconfondibili e caratteristici (lo sguardo, la voce). Poi però resta come interdetto da aspetti del comportamento meno prevedibili e gradevoli di questo “nuovo” Amedeo, ormai uomo fatto ed esperto della vita: una sua esasperata verbosità che impediva uno scambio paritario di opinioni, taluni apprezzamenti grossolani all’indirizzo di passanti femminili, lo snobismo di certe sue occupazioni intellettuali, insomma Amedeo «non faceva che dimostrarsi un doppio dilettante: così nel lavoro pratico, come negli interessi mentali», cosicché dava l’impressione «nell’insieme» di «qualcosa di evanescente, dissimulato e bugiardo».[13] Ciò che in ultima analisi sembra motivare tanta severità di giudizio, accompagnata da un atteggiamento nemmeno troppo velato di antipatia, è però un dato che a noi appare assai significativo ai fini della valutazione letteraria (o diciamo pure autovalutazione) del personaggio. Parliamo cioè del fatto che lo scrittore (anch’egli non più principiante ormai e lui stesso uomo e letterato di esperienza) sembra imputare proprio al carattere di Amedeo quella tendenza digressiva, a volte perfino divagante, e quello studio esasperato delle forme (non puramente necessitato da un forte impegno di contenuto) che da giovane, al momento della pubblicazione del primo Amedeo, gli erano stati addebitati (come vedremo nel nostro terzo paragrafo) dalla gran parte dei lettori professionali:

 

Ma mi accorgo che anch’io, adesso, sto contagiandomi dei vizi digressivi di Amedeo. In parole povere, la mia impressione era che quell’uomo, quanto più decideva di esporre i fatti, di fare una sua cronaca precisa e coerente, tanto più perdeva il contatto con la realtà; quanto più si sentiva vivace, attraente, tanto più appariva un falotico, un acchiappa nuvole.[14]

 

3. Quanto poi ai tre restanti racconti del volume gobettiano (Cinema Liberty; Suor Virginia; Riviera, amici), va detto in via preliminare che quello stesso tenore di scrittura tendenzialmente ermetica e troppo studiatamente riflessiva e analitica non muta quasi affatto rispetto a Amedeo, cosicché ne resta impregiudicato il tenue filo di una diegesi sfocata o appena disegnata, all’interno della quale gli eventi, le circostanze, i fatti, le azioni tendono sempre a occupare uno spazio di secondo piano, continuamente sul punto di essere sopraffatti da un’analisi capillare, condotta da un punto di vista dietro il quale, più spesso, si cela un’identità autoriale ancora incerta e non definita. Che se un lettore qualunque si ponesse la domanda circa i reali contenuti narrativi dei quattro racconti, magari richiesto di enuclearne la cosiddetta trama, avrebbe di certo la necessità di ripetere più volte la lettura e l’esame del testo, data la continua disarticolazione della direttrice narrativa, e ancora l’estrema tendenza ad analizzare fin nei particolari più minuti o marginali le circostanze del racconto o le motivazioni profonde che spingono all’azione i personaggi.[15]

 

Anche in Cinema Liberty (già in «Il Convegno», vii/1, 25 gennaio 1926), seppure in misura minore, ciò accade, e dunque proprio nel pezzo che sembrerebbe più disposto al racconto di un evento di per sé facilmente documentabile, come appunto quello dell’apertura di un cinema di periferia che, con le luccicanti (e seducenti) sue vetrine (cariche di manifesti e foto), viene, se non proprio a sconvolgere, certo a compromettere la sonnacchiosa tranquillità di codesta periferia, nonché la sottile inquietudine post-adolescenziale degli alunni del vecchio ginnasio che in quei pressi sorge da sempre. Una siffatta circostanza offre così il destro al giovanissimo scrittore di riprendere il topico motivo dei primi turbamenti d’amore o, come lui stesso si esprime, «del primo disgelo dei sensi»[16], marcando in tal modo una indubbia tangenza con la narrativa di ascendenza memoriale dei narratori delle giovani generazioni e, in specie, di quelli da lui frequentati dell’area solariana (e in primis il direttore medesimo, Alberto Carocci, precoce quanto sfortunato autore in quello stesso torno di tempo dei tre racconti di Paradiso perduto), i quali narratori, guarda caso, in quegli stessi anni guardavano con particolare interesse, pur essi, al modello e alla già autorevole lezione della Recherche proustiana.[17] In proposito si può leggere in Cinema Liberty una proposizione come questa: «Qualche volta, peraltro, alcuna di loro entrava, con caute intermittenze dapprima, e poi sempre più assidua, a pellegrinare dentro l’aura angelicante dei nostri sospiri […]»,[18] e ancora quest’altra enucleata dal racconto eponimo (osservazione questa sul “tempo” che sembra ricavata dal nucleo “contingentista” di una scolastica esegesi di quel grande romanzo):[19] «Il tempo non contava: quel tempo eguale, dentro cui nessun fatto notevole era accaduto che stabilisse tappe e punti di riferimento. Poteva una parte venirne asportata, e la sua anima non ne sarebbe uscita più povera».[20] Dopo quanto si è letto e detto, perciò, non si può non pensare ai frutti qui deversati di una lettura come non mai altra formativa per l’autore di Amedeo. Parliamo naturalmente di Proust, di cui Debenedetti, come noto, fu un leggendario quanto tempestivo cultore. Ma è questa, quella cioè di una eventuale tangenza dei racconti del libretto gobettiano (che l’autore asserisce di aver composto «ai primi del ’23») con il primo tomo della Recherche, un’ipotesi che prontamente l’autore stoppa con decisione per averla, con tutta evidenza, sentita aleggiare più di una volta fra i suoi primi lettori. Così nella Nota che accompagnava nel ’67 la ristampa di Amedeo si affretta a ribattere: «D’altronde, non conoscevo ancora Proust, nemmeno di nome: solo nell’estate del ’24, tra i boschi di Champoluc, lessi per la prima volta Swann, in un esemplare imprestatomi da Guglielmo Alberti».[21] Non può che esser così se è l’autore in persona a sostenerlo, e tuttavia, come ebbe a commentare da par suo Edoardo Sanguineti, se non c’è Swann in Amedeo certo potrà valere l’esatto contrario e dunque nelle «pagine proustiane di Debenedetti» non sarà difficile «ritrovarci, come in un regime di palinsesto, i paragrafi di Amedeo, dilatati, obiettivati, e proprio ‘criticati’».[22]

 

I due ultimi racconti di Amedeo, al di là dei motivi che abbiamo indicato per i primi due e che valgono anche per questi, presentano tuttavia più di un luogo d’ interesse critico. Suor Virginia (già in «Il Convegno», v/10-11-12 1924) è fra tutti il racconto più estrovertito dalla dimensione personale e dalla presumibile sfera socio-culturale dell’autore, presentando un personaggio che lo scrittore, pur totalmente estraneo al suo mondo, tallona senza tregua interpretandone con la propria indiscussa auctoritas onnisciente ogni più riposto pensiero, intenzione, ricordo, progetto, impressione. Il giuoco narrativo che intriga chi scrive – immaginiamo – sta appunto nell’idea di potersi far carico di ciò che non gli appartiene, anzi nel piacere d’indossare un abito mentale che non è il suo ma, con quello, sa che può trovare profonde e non facilmente (immediatamente) confessabili analogie. La storia di Suor Virginia (perché questa volta si può finalmente azzardare il termine di storia)[23] è ancora una volta il racconto di un destino incompiuto, incerto, in fieri. Un lungo flash-back centrale, che illustra il pregresso dei casi della sua pur breve esistenza, viene come incorniciato, all’inizio e alla fine del brano, da una allusiva ma significativa circostanza che vede la suora, appena scesa dal treno, incerta, smarrita e quasi incapace di decidersi a trovare la strada che la porti al convento al quale è stata assegnata dai propri superiori.

 

Insomma Suor Virginia «come guidata da una volontà non sua» girovaga confusamente nei pressi della stazione e poi, addentrandosi in città come calamitata dai rumori e dalle voci della strada, non riesce a mettere a fuoco le reali sue intenzioni circa il da farsi e, una volta giunta fin quasi alla meta, si comporta, precisa il testo, «come se le sovvenissero, automatici, soltanto gli atti che doveva compiere, ma non lo scopo di quelli».[24] Non potrebbe risultare più scopertamente novecentesca, modernamente novecentesca, l’indole del personaggio che vagheggia pur confusa e come in trance una esistenza, un destino diverso da quello che il caso gli aveva imposto.[25] E questo personaggio, se non proprio un “inetto”, ci appare munito almeno di una certa dose d’inerzia gnoseologica, curioso ma confuso, spaesato, e pur tuttavia attratto da ciò che gli è estraneo e che percepisce appena di là dalla consuetudine e dall’ovvio quotidiani. Quello di Suor Virginia comunque è un novecentismo tinto di buona ed elegante scrittura, di tropi ben congegnati (pensiamo soltanto alle numerose, icastiche sinestesie), una prosa insomma talvolta fin quasi compiaciuta di una sua non proprio nascosta confezione poeticizzante e, comunque, non priva di una singolare ricercatezza retro:

 

L’ombra vasta della tettoia, sfumando nella gran luce del mattino, era vaporosa e pigra come una bruma; e, dentro di quella, le cose si disfacevano, di là dai loro contorni: apparizioni di un dormiveglia di cui ella non percepiva la durata, né ricordava le origini; ma, nell’affettuosa insidia di quel torpore, ancora si insinuavano le persuasioni del sonno. Il tremito dolce della luce era, esso medesimo, la diffusa vibrazione sonora dell’aria, fatta visibile: su cui emergevano, ma senza scalpore, gli scampanellii diacci dei tram e i bonari rotolii dei carri sulla strada, e voci d’uomini che non sembravano parole.[26]

 

Lo studio insistente di una scrittura fortemente autoriflessiva e volta all’esame puntuale dei propri stati d’animo è carattere evidente e distintivo anche dell’ultimo pezzo del libretto, Riviera, amici (già in «Il Quindicinale», i/8, 30 aprile 1926). Il testo si avvale di un primo paragrafo (dei sei di cui si compone) interamente virgolettato in ragione della sua natura di «rendiconto dello stato d’animo di Stefano», inteso come materiale argomentativo al «capitolo terzo del suo romanzo: “Vita di Stefano Strozzi, poeta”».[27] Il brano perciò prende avvio da questa “sperimentalistica” premessa anche al fine di marcare la matrice autobiografica di un io narrante che, forte di questa acclarata vocazione letteraria, nei paragrafi successivi si esprimerà pour cause alla prima persona. In realtà, il racconto si dipana attraverso le linee di una sorta di relazione di viaggio che chi scrive compie (o immagina di compiere) da Torino a Savona e da Savona alla più remota e solitaria Noli, sempre sulla riviera ligure di Ponente, in compagnia, per un lungo tratto, di una silente giovane incontrata in una casa di piacere, Irma. Non è difficile immaginare a questo punto, considerando il già chiaro orientamento analitico del suo stile narrativo, come l’attenzione dello scrittore venga attratta dalle possibilità di argomentare intorno alla psicologia del viaggio: dalla prima idea, al progetto puramente fantasmatico, all’investimento di favola classicista dei luoghi visitati o soltanto intravisti dal mezzo di locomozione e fino ai «timorosi presagi» con i quali il viaggiatore se ne parte da casa, gravato peraltro da una notevole «quantità di rammarichi» e di «responsabilità inesaudite». Ma ancor prima di partire il protagonista ha modo di documentare (con particolare dovizia di notazioni peregrine, giusta una sensibilità non certo comune per i fatti dell’arte) alcuni momenti della sua recente esperienza di spettatore: intanto come patito wagneriano documenta la straordinaria soddisfazione interiore per l’ascolto recente dei Maestri cantori diretti da Toscanini, quindi, vivendo da solo, non si perita di decantare quella che lui chiama «la mistica speciale» e «dilettosa» del teatro di varietà, allora così in voga anche presso letterati e intellettuali alla ricerca di pose vagamente eccentriche e spregiudicatezze di facile appagamento.

 

Il viaggio del protagonista (come richiede ogni brava esperienza che intende collocarsi al centro del modernismo novecentesco) non risulta da un mero trasferimento logistico ma è anche (o unicamente) un percorso a ritroso nella memoria e nel proprio immaginario privato. Dimidiato fra i piaceri più effimeri e passeggeri che la compagnia galante di Irma potrebbe assicurargli e l’immagine eroica di un Leonardo «emblema di una stagione di castità» che rimanda alla «gioia di sapere e di conoscere», il viaggiatore “incantato” si dispone infine a portare a termine il proprio percorso verso Noli immaginandosi in compagnia degli Argonauti di Apollonio Rodio. Ed è una fantasia, questa, che non appaga soltanto un inesausto desiderio “di favole antiche” ma pur anche «il bisogno sentimentale di una brigata eletta e aggraziata» con la quale poter far «vita in comune» e dunque «consolare una solitudine vaga a un tempo di eroiche visioni e di un raffinato commercio con uomini ideali».[28] Ebbene, questa eletta compagnia (che per l’autore del racconto finisce per assoggettare con la propria aura l’evocazione cui lo stesso toponimo di Riviera rimanda) risponde propriamente per lui a un drappello di amici liguri, riconoscibili e nominabili in concreto, i quali hanno fatto di quei luoghi un ideale e invidiato porto di rassicurante concordia affettiva, oltre che di «libertà e di svago».[29] Naturale perciò che l’io del racconto si disponga a questo punto a tracciare un affettuoso e intelligente elogio del libro montaliano da poco uscito alle stampe presso lo stesso editore di Amedeo, Ossi di seppia, e ciò per la capacità di quella poesia di evocare, fra l’altro, proprio quel sentimento amicale e quella sottile solidarietà intellettuale di cui il viaggiatore ha fantasticato finora:

 

Ora, a sfogliarlo, trovo sempre più viva accanto a me la corona degli amici che impregna del suo spirito la Riviera e me la rende così ospitale. Montale li ha tutti raccolti nel suo libro e iscrivendone i nomi, a titolo di offerta, in cima alle poesie del volume, ha composto delle loro persone un fregio vivente.[30]

 

4. Quale fu l’accoglienza di amici e colleghi allorquando Amedeo ed altri racconti vide la luce nella prima edizione gobettiana? È assai conosciuto in proposito (e lo ricorda non senza un grano di civetteria lo stesso Debenedetti nella sua Nota alla ristampa del ’67) il giudizio non proprio lusinghiero, anzi «tremendamente negativo», che un Italo Svevo, apparentemente svogliato, ne dette scrivendo a Eugenio Montale poco tempo dopo la sua uscita:

 

Ho ricevuto l’Amedeo. Non so che dirne. Sono distratto e non so leggere. La prima novella che pare la più importante non mi disse niente. Probabilmente non la compresi. Ce n’è un’altra che mi si confà meglio. Molto meditativo quel signore e poco portato al racconto. Ma forse io sono troppo distratto. In queste circostanze manderò un biglietto di ringraziamento […].[31]

 

Circa i rapporti fra il giovane critico piemontese e lo scrittore di Trieste (da poco “sdoganato” alle patrie lettere, come si sa, grazie soprattutto all’impegno del giovane Montale) si è sempre parlato di una sostanziale, reciproca diffidenza, una sensazione di disagio e di laconica incomprensione che certo le poche proposizioni epistolari di cui disponiamo per documentarne la relazione non riescono a eludere. E neppure la circostanza che permise, finalmente, a Giacomo conferenziere, di incontrare l’autore di Senilità nella sua città, poté riuscire a stabilire fra loro un tenore di rapporti meno impersonali se non addirittura meno gelidi.[32]

 

Cosa in quel libretto dovette dispiacere a Svevo è subito chiaro in realtà, ed è indicato senza molte perifrasi nella lettera a Montale appena citata: Debenedetti – egli pensa – non è «portato» per il «racconto», giacché il suo modo di porsi di fronte alla realtà impedisce al lettore di vedere le cose, di conoscere i fatti, insomma quel giovane è un tipo «molto meditativo» e, come tale, la sua scrittura risulta astratta e poco avvincente («non mi disse niente»). Se Svevo, come si vede, non si perita (pur di sfuggita e non direttamente) di avanzare una valutazione tranchant, un amico vero di Debenedetti come Umberto Saba, qualche tempo prima, terminata la lettura di Amedeo, gli si rivolge con parole certo affettuose e accoglienti ma che nascondono pur esse una certa perplessità circa i pericoli cui andrebbe incontro il racconto debenedettiano:

 

Entrando […] nel merito dei tuoi scritti, non posso non rinnovarti ora quegli appunti che ad essi avevo fatti l’ultima volta che te ne ho parlato […]. Quello che ad essi manca è la fatalità dell’argomento. È una cosa apparentemente banale, ma che non cesserò mai di ripeterti. Mentre il tuo stile ha qualcosa di soave, forse anche qualche volta di troppo uniformemente soave, ed avvolge il lettore della musica che è della tua anima, le cose delle quali tu parli mi fanno sempre l’effetto di esserti state piuttosto estranee; si direbbe che parlare di una cosa o dell’altra ti sia indifferente […].[33]

 

Se per Saba è dunque la «fatalità dell’argomento» ciò che fa difetto nel racconto, per Svevo è l’eccesso di autoriflessione e, alla fine, anche per l’amico Montale, che pure si dimostra tutt’affatto solidale con lui e lettore ammirato del racconto eponimo, spunta una qualche riserva, individuando in quella prova giovanile una sorta di stonatura e, con grande intuito critico, proprio nella dimensione dei «fatti» del racconto:

 

Amedeo vive nel nostro ricordo anche senza fatti a cui vada legata la sua figura. Direi anzi che l’unico fatto, quello della circolare-catena, sia la parte meno felice di questa composizione che tende a un cristallo, a un’arrotatura di tipo superiore, in cui particolari del genere, un poco realistici, stanno a disagio. È preferibile che i dettagli siano tolti da una sorgente più eterna – Ricorda oltre il bussar che si sente alla porta di Macbeth, i colpi d’ascia sui tronchi, nel ciliegeto (nel dramma di Cekov).[34]

 

Che sia un’operazione, quella di Amedeo, di non facile definizione critica e perciò esposta a tutta una serie di riflessioni che difficilmente riescono a condensarsi in «un giudizio preciso e distaccato», sarà lo stesso Montale a trovare il modo di rimarcarlo più ampiamente in una recensione al libretto pubblicata su «Il Lavoro» di Genova due anni più tardi, nel settembre del ’26.[35] In un resoconto di letture di Scrittori nuovi (oltre a Debenedetti, si parla di Delia Benco e Piero Gadda) il giovane poeta, infatti, una volta assodato che «questo signorile Amedeo» rappresenta «uno dei libri narrativi più degni di considerazione che siano usciti negli ultimi tempi», non può fare a meno di notare come una certa, vistosa ricercatezza di stile (si parla di «forme volutamente letterarie e colte») venga applicata a una materia desueta e spenta, forse un po’ troppo feriale, vale a dire «smorti episodi di vita quotidiana», ovvero «alcuni momenti di vita au ralenti». Quale potrebbe essere «il pericolo di simili esperienze», si chiede allora il recensore? La risposta data dal critico (e con lui, come si è visto, dalla maggioranza dei lettori “specialisti” contemporanei) non lascia adito a dubbi circa l’implicita richiesta rivoltagli di impegnarsi per il futuro in una scrittura meno “pensata” e più vitale, capace cioè di stimolare positivamente, oltre a quelle intellettive, anche le risorse dell’immaginazione e del piacere del testo. In ultima analisi, anche secondo Montale, il pericolo che la prosa di Amedeo corre «è quello di non consentire allo scrittore un impegno convinto e sostanziale; e di inclinarlo a un’arte troppo intellettiva e scevra di sensualità».[36]

 

Dovette mantenersi costante e dunque quasi unanime il tenore (non propriamente entusiasta) della ricezione giornalistica del libretto di Amedeo (o almeno tale parve all’autore il quale, a detta dell’amico poeta, «era nato già pienamente maturo») se in effetti l’esperienza del Debenedetti narratore (almeno in una sua dimensione strettamente pubblica) conobbe una sostanziale soluzione di continuità e proprio all’indomani della stampa gobettiana.[37] Ad esempio, parlando dell’intervento recensivo («molto discutibile, ma non infido») di un critico già allora considerato fra i più autorevoli, e cioè il Cecchi del «Secolo XX», Montale ne riportava per sentito dire l’opinione secondo la quale il critico fiorentino reputava Debenedetti «più realizzato, o meglio più originale, nell’attività critica che non in quella creativa in senso stretto» e aggiungeva (probabilmente già reso più scaltrito dai riscontri della pubblicistica seguìti alla propria recente esperienza autoriale degli Ossi):

 

Mandami qualcuna delle altre esecuzioni [recensioni]; e prendile con allegria, convinto che giovano al libro – e alla tua situazione – più del silenzio e delle solite lodi.[38]

 

Ma poi, sul finire di quel sofferto 1926, lo stato d’animo dell’autore di Amedeo, sempre a seguito di quelle che Montale definisce «le facezie dei tuoi critici», dovette far fronte a un avvilimento ulteriore e di certo più acuto se l’amico genovese gli si rivolgeva in questi termini e con questa accorata raccomandazione:

 

[…] sono molto contento della tua bella visita. Solo mi duole trovarti un po’ troppo amareggiato dalle facezie dei tuoi critici. È uno stato d’animo più che comprensibile, ma devi superarlo e rimetterti al lavoro. Quando avrai dato il tuo libro definitivo (e può essere il tuo prossimo) vedrai che anche i ciechi torneranno con altri occhi all’Amedeo e s’accorgeranno di parecchie cose.[39]

 

Si dà il caso che, molti anni dopo, sarà ancora l’amico poeta a riprendere seppur brevemente la questione, facendo cenno appunto alle ragioni di quel deciso e (apparentemente) definitivo abbandono dell’agone narrativo da parte dell’antico sodale torinese. Fu al momento di riprendere la penna per «Giacomino» avendo accettato di presentare la sua prima opera postuma, il fortunatissimo Romanzo del Novecento. In quell’occasione Montale parlò del «tiepido successo» di Amedeo come di una «ferita» inferta all’orgoglio di un giovane naturalmente vocato per il lavoro del letterato, aggiungendo però, con un’intuizione davvero perspicua, che un tale rammarico non impedì certo a una «vocazione» così spiccata come la sua di farsi sentire e dunque di esprimersi, ne cambiò soltanto la destinazione, trasferendo dal racconto al ritratto critico quella singolare, “virtuosa” attitudine di scrittore (con ciò confermando, non si sa fino a che punto ingenuamente, il motivo dell’elogio continiano di cui sopra):

 

Ho già detto che la prima vocazione di Debenedetti parve essere quella del narratore, del romanziere. Il tiepido successo di Amedeo fu per lui una ferita. Ma non penso affatto che tale vocazione sia stata impedita o interdetta se rifletto al grande arco romanzesco di tutta l’opera sua. Giacomo, il Giacomino dei suoi amici più cari, fu a modo suo un artista compiuto, un incomparabile virtuoso di testi. Proprio così, come si dà nelle esecuzioni musicali.[40]

 

Note

 

[1] «Chi scrive questo resoconto passò la mattinata del 16 ottobre in casa di una vicina» (G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Milano, Il Saggiatore, 1959 [19623], p. 56). È questa la prima ristampa in volume (nella «Biblioteca delle Silerchie» fondata e curata dallo stesso Debenedetti) dopo la princeps romana sempre in volume (Roma, Oet, 1945), ristampa cui seguirà, presso lo stesso editore milanese, nella collana (mai portata a compimento) «Opere di Giacomo Debenedetti», a cura di C. Garboli, l’accoppiata con Otto ebrei: G. Debenedetti, 16 ottobre 1943 – Otto ebrei, pref. di A. Moravia, in append. la Lettera a Hitler di Louis Golding, Milano, Il Saggiatore, 1973. Nella Nota anonima (ma crediamo uscita dalla penna dello stesso Debenedetti) che precede il testo nell’edizione ’59 si ricorda fra l’altro la prima edizione in rivista e la teoria delle successive ristampe: «Pubblicato per la prima volta nel dicembre 1944 dalla rivista “Mercurio” di Roma, in un numero dedicato alla Resistenza, fu subito ripreso da “Libera Stampa” di Lugano; nel 1947 J.-P. Sartre lo fece tradurre per “Temps modernes”; nel 1955 la rivista “Galleria” lo mise al centro del suo fascicolo per il decennale della Liberazione» (p. 8). Fra le ultime riproposte del testo, cfr. quella palermitana di Sellerio, uscita nel 1993.

[2] Nota, in Debenedetti, 16 ottobre 1943, cit., p. 9.

[3] Cfr. M.E. Debenedetti, Cronologia, in G. Debenedetti, Saggi, progetto editoriale e saggio intr. di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999, p. xvii. Fra le proposte antologiche dei Saggi debenedettiani merita una speciale menzione quella curata da F. Contorbia (Milano, Mondadori, 1982).

[4] Debenedetti, 16 ottobre 1943, cit., pp. 44-45.

[5] Basti riportare a questo proposito il giudizio di un altro grande interprete della cultura letteraria del secolo appena trascorso (e, a suo modo, altrettanto prestigioso) come Gianfranco Contini che di Debenedetti ebbe a esprimere il seguente, celeberrimo giudizio: «[…] il primo critico letterario italiano di questo secolo, il solo forse che al servizio del genere critico abbia piegato le qualità di un vero scrittore» (G. Contini, Una parola per Giacomo Debenedetti, in Giacomo Debenedetti. 1901-1967, a cura di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 102-4, a p. 102).

[6] G. Pampaloni, L’oroscopo di Narciso, in «L’Espresso», 16 aprile 1967, poi in Giacomo Debenedetti. 1901-1967, cit., pp. 113-17, a p. 115 (l’articolo è per buona parte un’interpretazione di Amedeo).

[7] Sono, queste parole, tratte da una importantissima Nota che Debenedetti volle allegare alla ristampa del solo Amedeo procurata pochi giorni prima della sua morte: G. Debenedetti, Amedeo, pref. di G. Noventa, due disegni inediti di F. Casorati, lettere inedite di E. Montale, Milano, Scheiwiller, 1967, p. 34. Per intendere meglio si legga tutto il periodo dal quale è stata tratta la citazione: «Debbo ancora aggiungere che, nella primavera del ’44, a Cortona, mentre i voli sempre più fitti dei ricognitori alleati annunciavano imminente la liberazione, avevo progettato di sviluppare una psicoanalisi di Amedeo, della quale parlai, un anno dopo, a Noventa e a Pampaloni. Mi pareva di vedere in quel ragazzo “senza qualità” un naturale candidato psicologico ai campi di sterminio».

[8] Debenedetti, Amedeo, cit., pp. 17-18.

[9] Ivi, p. 24.

[10] Proprio sul concetto tipicamente debenedettiano di «destino» insiste più di una volta l’autore di Amedeo. Edoardo Sanguineti nella sua lettura del racconto si preoccupa di ricordarlo riportandone tutte le occorrenze: «Non ritorneremo ancora sopra la nozione di “destino” (i recensori ’67 di Amedeo non hanno penato molto per indicare proposizioni e accenni come i seguenti: “inseguendo l’episodio s’era scordata la necessità di inserirlo in un destino”; “quel destino buio e onnipotente che non era lecito tentar di conoscere se non dalle piccole cifre che associava al suo passo misterioso”; “questa volta bisognava proprio credere che il destino gli avesse mandato un avviso”; “per agire sul destino, e cioè sostanzialmente per limitarne con coraggio le possibilità, Amedeo avrebbe seguito ben altri piani”; o finalmente “gli ironici controlli della nostra sorte convengono solo quando essa è già domata e riconosciuta”» (E. Sanguineti, Cauto omaggio a ‘Amedeo’, in Giacomo Debenedetti. 1901-1967, cit., pp. 118-19). Anche Alfonso Berardinelli riprende l’argomento con significative argomentazioni di sintesi: «È stato ripetutamente osservato (e qualunque lettore può accorgersene facilmente) che la parola “destino” è una delle più ricorrenti e cruciali nel discorso di Debenedetti. Il problema, in sintesi, è tutto lì. L’arte è intesa come rivelazione di un destino (“un romanzo è sempre una parabola del destino”). La cosa che interessa, alla fine, è la coscienza di un destino che prende forma attraverso l’arte, in particolare l’arte del romanzo, moderna produttrice di miti. E destino non è altro, a sua volta, che il punto d’incontro fra un io profondo e un io socializzato, fra gli appelli, le necessità dell’inconscio e gli imperativi, i codici della convivenza organizzata» (A. Berardinelli, Giacomo Debenedetti, il libertino devoto, in Debenedetti, Saggi, cit., pp. xi-xlix, a p. xvii).

[11] Sanguineti, Cauto omaggio a ‘Amedeo’, cit., p. 119.

[12] Cfr. G. Debenedetti, Amedeo e altri racconti, a cura di E. Ghidetti, con l’inedito Amedeo II e due lettere di U. Saba, Roma, Editori Riuniti, 1984. L’inedito qui riprodotto, all’incirca di otto pagine a stampa – scrive il curatore – «è stato trascritto da un quaderno di Giacomo Debenedetti, senza indicazione di data, messomi cortesemente a disposizione da R. Debenedetti» (p. xiv). Circa la sua matrice più scopertamente autobiografica rispetto al “primo” Amedeo, si legga quanto è detto in alcune proposizioni iniziali del testo: «Per completare l’elenco dei nostri incontri, basterà ricordare che di Amedeo mi si era data qualche informazione negli ultimi anni della guerra, quando anche lui condivideva la sorte degli ebrei […]. Mi rallegrai di saperlo nascosto in modo abbastanza sicuro sotto la tutela di amici coraggiosi, ma non più di quanto mi rallegrasse il saperlo di altri, esposti ai medesimi rischi» (p. 83).

[13] Ivi, p. 89.

[14] Ivi, pp. 88-89.

[15] Intorno a questo dato di vitale dispersione “sperimentalistica” della pagina debenedettiana (e circa i suoi pericoli), ha speso parole convincenti M. Lavagetto: «[…] ci accorgiamo che Debenedetti mette sul tavolo e risolve di volta in volta dei problemi in cui impegna con impazienza tutte le sue risorse; che, dal punto di vista narrativo, non è un buon amministratore e che la prodigalità, di cui fa splendida prova, lo espone ai rischi della bancarotta» (Il critico sulle tracce di Orfeo, in «Paragone», xviii 1967, 208 pp. 114-28, a p. 116).

[16] Per i restanti racconti si cita dalla prima edizione: G. Debenedetti, Amedeo e altri racconti, Torino, Edizioni del Baretti, 1926, p. 45.

[17] Su Carocci scrittore “della memoria adolescenziale” e sui primordi del proustismo in Italia a metà degli anni Venti, con al centro l’esperienza debenedettiana, rinvierei a G. Nicoletti, La scrittura della memoria nei narratori toscani degli anni Trenta, in Id., Scritture novecentesche a Firenze, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 135-57.

[18] Debenedetti, Amedeo e altri racconti, cit., p. 45 (il corsivo è nostro).

[19] «Qui preme di notare che i protagonisti del romanzo proustiano occupano, non uno spazio materiale, bensì una durata: il terreno sul quale nascono, si posano, si succedono ordinatamente fra loro, sviluppano e intrecciano le loro microscopiche vicende, vorrà essere il luogo di tutte queste durate: cioè la memoria» (G. Debenedetti, Proust 1925, in Id., Saggi critici. Prima serie, Milano, Il Saggiatore, 19693, pp. 181-200, alle pp. 194-95).

[20] Debenedetti, Amedeo, cit., p. 22.

[21] Ivi, p. 33.

[22] Sanguineti, Cauto omaggio a ‘Amedeo’, cit., p. 120.

[23] Né appare estraneo alla ideazione del racconto l’input fornito da un celebre frangente narrativo della parte finale del cap. xi dei Promessi sposi: l’inopinato, fatale distacco di Renzo, appena giunto a Milano, dal convento di padre Bonaventura dove si era diretto in un primo tempo su consiglio di padre Cristoforo. Di sapore manzoniano (questa volta dal coro di Ermengarda nell’Adelchi) è da notare anche un brano successivo, a proposito del sogno d’amore (platonico) cullato per qualche tempo dalla giovane non ancora fattasi suora: «[…] e soffocati i più cari sogni e, sopra tutti, quello che ella aveva più ardentemente portato in cuore: di potere, un giorno, ascendere leggera al fianco di suo marito. […] e sognava di rivivere quei minuti irrevocabili […]» (Debenedetti, Amedeo e altri racconti, cit., pp. 85-86; il corsivo è nostro). E dell’altrettanto celebre e omonimo poemetto pascoliano, qualche tangenza o analogia stilistica può essere avanzata? Pensiamo di sì; in proposito si esamini questa citazione: «[…] una sonnolenza placida e grata la vinceva e il capo le ciondolava: ma poi un trillo di uccelli del giardino di sotto o il secco risonare di un passo nel corridoio veniva a risvegliarla […]» (pp. 56-57).

[24] Ivi, p. 54.

[25] In ciò il personaggio della suora si trova fortemente attratto nell’aura tutta novecentesca che respira lo stesso personaggio di Amedeo il quale, «come i suoi grandi fratelli della letteratura europea degli anni ’20-’30» è stato considerato partecipe «della famiglia degli antieroi per scelta razionale, per amore di dubbio, per rifiuto di certezze e di assoluti, per intima e inesauribile scissura» (O. Cecchi, Amedeo, uno di noi, in «Rinascita», xxiv/13, 31 marzo 1967, p. 20, poi in Id., Incontri con Debenedetti, Padova, Marsilio, 1971, pp. 19-22, a p. 22).

[26] Ivi, p. 59. Per una ulteriore verifica della ricercata qualità della scrittura del giovane Debenedetti, si veda la “prosa d’arte” Giardino zoologico, in «Primo tempo», 2, 15 giugno 1922, pp. 46-51 (dunque, da considerare il primo testo di scrittura creativa da lui composto).

[27] Debenedetti, Amedeo e altri racconti, cit., p. 118.

[28] Ivi, pp. 145-46.

[29] «[…] il nome collettivo di Riviera ha, da tempo, cessato di essere per me una larga designazione geografica ed è divenuto il simbolo dell’atmosfera di libertà e di svago che alitava intorno agli amici liguri: Eugenio Montale e Lodovici e Grande, quando – insieme col triestino Bobi, un Joubert silenzioso ed arguto del loro gruppo letterario – mi mandavano delle cartoline da uno qualunque di questi luoghi che ora percorro […] i miei amici di qui trovarono nei loro incontri, celebrati dentro la cornice pittoresca di questi paesi della Riviera, il più confortante riposo ai loro travagli di artisti giovani» (ivi, pp. 148-49).

[30] Ivi, p. 151.

[31] Lettera di Svevo a Montale del 18 settembre 1926, in I. Svevo-E. Montale, Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 33.

[32] È lo stesso Debenedetti a ricordare dopo molti anni la sua conferenza proustiana tenuta alla presenza dello scrittore triestino: «Non chiedo attenuanti alla condanna di Svevo. Il suo carteggio con Montale svela il retroscena, che difficilmente avrei potuto sospettare, della sua diffidenza verso di me. Gli amichevoli sforzi di Montale per dissiparla non valsero a nulla. Una mia conferenza su Proust tenuta a Trieste, alla presenza di Svevo, nella quale mi sarebbe parso adulatorio, oltre che sbagliato, parlare di Svevo come di un “Proust italiano”, aggravò senza dubbio la situazione» (Debenedetti, Nota, in Id., Amedeo, cit., p. 34). L’episodio viene rammentato dal critico anche negli appunti delle sue lezioni universitarie, cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, pres. di E. Montale, Milano, Garzanti, 1971, pp. 538-39.

[33] Lettera di Saba a Debenedetti del 19 giugno 1926, in Lettere di Umberto Saba (a Giacomo Debenedetti), in «Nuovi Argomenti», 41 1959, p. 17. Utilizzando pressappoco le stesse argomentazioni, Saba, in una precedente missiva (altrettanto appassionata e pertinente e scritta subito dopo aver letto Suor Virginia in rivista) lamentava il fatto che il giovane scrittore (di cui il poeta pure non si stanca di lodare l’ingegno) non avesse avvertito «in alcun modo la necessità dell’argomento» scelto e pertanto ne conseguiva che «la figura della protagonista non riesce, di per sé, ad interessare». In ultima analisi per Saba il racconto «lascia l’impressione totale di un saggio a freddo, di un virtuosismo inutile». «E questo – egli aggiunge – perché non hai ancora trovato l’argomento fatale» (ivi, p. 15). Le due importantissime lettere sabiane vengono riprodotte anche in Debenedetti, Amedeo e altri racconti, a cura di E. Ghidetti, cit., pp. 93-98.

[34] Lettera di Montale a Debenedetti del 10 novembre 1924, in Debenedetti, Amedeo, cit., pp. 38-39. Per il resto il giudizio montaliano contenuto nella lettera risulta particolarmente incoraggiante (seppure elaborato con un pizzico di benevola diplomazia): «[…] Amedeo è una cosa viva e riuscita – L’ho letto con crescente ammirazione e mi son detto che la tua bravura e il tuo acume sono ammirevoli – C’è una continuità di tono che non era stata raggiunta finora da nessuno dei nostri giovani che tentano questo tipo di racconto fatto di analisi, di interni e di soliloqui. E c’è un’arte che può parer fredda solo a chi trova gelidi i ritratti di Ingres».

[35] Ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, i 1996, pp. 152-54. Per quanto riguarda gli altri interventi recensivi (sia in occasione della princeps gobettiana che della ristampa di Scheiwiller), si vedano nell’ordine: L. Gigli, in «Gazzetta del popolo», 13 settembre 1926; E. Cecchi, Il movimento intellettuale in Italia, in «Il Secolo XX», settembre 1926; G. Ravegnani, in «La Stampa», 8 ottobre 1926; G.B. Angioletti, in «Il Convegno», vii/10, 25 ottobre 1926; S. Solmi, in «Il Giornale di Genova», 22 gennaio 1927, poi in Id., Opere, iii. La letteratura italiana contemporanea, to. 2. Scrittori, critici e pensatori del Novecento, a cura di G. Pacchiano, Milano, Adelphi, 1988 pp. 48-54; H. de Ziegler, «Journal de Généve», 29 agosto 1927; L. Tonelli, «Il Marzocco», 27 novembre 1927; e a seguito della ristampa di Scheiwiller: W. Pedullà, Un racconto esemplare, in «Avanti!», 19 marzo 1967; Cecchi, Amedeo, uno di noi, cit.; Pampaloni, L’oroscopo di Narciso, cit.; Lavagetto, Il critico sulle tracce di Orfeo, cit.; F. Mattesini, Un giovane difficile, in «Il Popolo», 28 aprile 1967; A. Bonsanti, Amedeo, in «La Nazione», 20 maggio 1967; G. Gramigna, Amedeo, in «La Fiera letteraria», xlii/40, 5 ottobre 1967.

[36] Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, cit., p. 154. Scrivendo a Debenedetti all’indomani della compilazione della propria recensione, Montale, quasi scusandosi di certa sua secchezza elogiativa ivi riscontrabile, scriveva: «Ho mandato al Lavoro una nota in cui parlo soprattutto di te; peccato che quel bel passo di Riviere, amici, mi impedisca di alzare il tono della voce. Ma tu capirai lo stesso, e compatirai» (Lettera di Montale a Debenedetti del 14 settembre 1926, in Debenedetti, Amedeo, cit., p. 48). Ma a commento della propria recensione, si legga anche la successiva lettera montaliana a Debenedetti, quella dell’8 ottobre, laddove il poeta confessa che, «per calmare le furie cestinatrici di Ansaldo [il direttore del giornale]», si trovò costretto a scegliere fra «due vie decenti: o tacere o impormi un distacco quasi inumano» (ivi, p. 50).

[37] In verità non fu così netta (e neppure decisa una volta per tutte) questa decisione di abbandonare il campo della scrittura in proprio e della narrativa in particolare. Scorrendo in proposito le biografie debenedettiane, nonché la cit. Cronologia approntata da M.E. Debenedetti per l’edizione dei Saggi nella collana dei «Meridiani», si possono ritrovare, in più di un caso, i segni di una ripresa d’interesse da parte di Giacomo, ma pur sempre, par di capire, ripudiata quasi immediatamente, o lasciata in tronco o nel limbo dell’inedito. Si veda ad esempio la stampa su «Solaria» (ix/5-6 1934) di Due capitoli di un romanzo inedito. Morte di Maria. Domenica, romanzo che avrebbe portato come titolo, La casa delle ragazze appassionate. Di qui l’interesse derivante dalla notizia riportata dal Ghidetti nella sua Prefazione alla cit. ristampa del 1984 di Amedeo e altri racconti secondo la quale «non sono arrivati ancora alla luce i due romanzi scritti rispettivamente intorno al ’30 e al ’55, tuttora custoditi nell’archivio familiare», il che fa dire allo studioso che l’attività di narratore di Debenedetti più che interrompersi divenne con il tempo «un fenomeno carsico con rare apparizioni in superficie» (p. xii).

[38] Lettera di Montale a Debenedetti del 3 settembre 1926, in Debenedetti, Amedeo, cit., p. 46.

[39] Ivi, p. 53.

[40] E. Montale, Presentazione, in Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., pp. ix-xviii, a p. xvii. Di un «narratore rimosso» che in Debenedetti «urge» dietro il lavoro critico, parla anche Lavagetto, Il critico sulle tracce di Orfeo, cit., p. 117.

5 thoughts on “Amedeo: Debenedetti alla prova

  1. “Soffrire di perdere il proprio tempo è ancora uno dei tranelli psicologici più sicuri che si possano tendere a se stessi per avvilire, per logorare il tempo, dargli già una qualità inutile e fastidiosa di tempo perduto, tanto più se non ci si proponga di perderlo. La leggenda proustiana – adesso che la vediamo più chiara – prendeva già atto di un punto essenziale: che in questa prima parte della sua vita le ‘petit Marcel’ era straordinariamente attratto dalla sua dissipazione mondana, ma non si proponeva, in modo consapevole o attivo, di perdere il tempo. Non giungeva fino a prendere una tale iniziativa: perdere il tempo di proposito sarebbe già stata un’azione, una maniera di occupare il proprio tempo, dandogli uno scopo.”

    Giacomo Debenedetti, Aspetti della biografia [1955] in L’illustrazione italiana, Nuova serie, agosto-settembre 1983 p. 21

  2. “ Venerdì 14 gennaio 2005 – Poi mi capita in mano il libro su Debenedetti pubblicato dal Saggiatore nel ‘68 (Giacomo Debenedetti 1901-1967 / a cura di Cesare Garboli). Giusto il tempo di ricordarmi che Debenedetti è morto in un ventigennaio – come la nonna, come il nonno – giusto il tempo di ricordarmi della nonna, del nonno. “.

  3. “Un giorno dell’estate 1944 a Sorrento, in una bellissima villa per lui un po’ troppo dannunziana, con azzurre ceramiche di Vietri che dal pavimento e dalle pareti riverberavano, colorandone l’aria, l’azzurro del cielo e del mare, Benedetto Croce mi parlava dell’Alfieri. E d’improvviso disse. «Nella Vita quel passaggio sulle scarpe quadrate dello zio anticipa Marcel Proust».
    Credevo che soltanto noialtri, proprio per il vizio di esserci tanto lasciati incantare da Proust, ci fossimo accorti di quella somiglianza. Il tratto dell’Alfieri è ben noto… «Di quella stupida vegetazione infantile non mi è rimasta altra memoria se non quella d’uno Zio paterno, il quale avendo io tre in quattr’anni, mi facea por ritto su un antico cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti, lo non mi ricordava più quasi punto di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello Zio morto già da gran tempo, né mai più veduto da me da che io aveva uso di ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch’io avea provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello Zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia. »
    Ma se il fenomeno è analogo a quelli su cui Proust fonda il suo romanzo, analogo per la finezza sensuale di quelle reviviscenze – «il sapore perfino dei confetti» – l’accostamento a Proust è più specioso e divertente che davvero istruttivo. Perché l’Alfieri si limita a quella breve, intenerita scoperta, Proust invece è un altro a cui le dissolvenze incrociate tra l’attimo che si vive e il passato che, per una affinità segreta, se ne ridesta, quelle dissolvenze incrociate sono veramente un varcare la soglia tra il mondo che non si può descrivere e quello dove si ricupera la certezza di essere artisti.”

    Giacomo Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano, 1993 pp. 396-7

  4. “ Sabato 10 marzo 2018 – « 22 agosto 1948, domenica – […] Le persone cui mi presenta Giacomo Debenedetti sono Solmi (la sua presenza per poco mi allarga il cuore), che ci sente poco a causa dell’otite ma così umano e mite; […] Unica consolazione di questa giornata certi elogi di Calamandrei […] e di Solmi, il quale […] dice che […] gli piacevano le mie recensioni sulla Fiera. “ Fatte a orecchio “, gli dico io. “ E quale altro strumento – ribatte così bonariamente da commuovermi – abbiamo? “ » (Giorgio Caproni, Frammenti di un diario (1948-1949), 1995) “.

  5. Mi ha stupito che Nicoletti non abbia fatto alcun cenno alle Conferenze sui Profeti che Debenedetti tenne nel 1924, la cui preparazione dovette impegnarlo signficativamente mentre procedeva con i racconti

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