di Gregorio Magini

 

[lo Pseudoglossario di Gregorio Magini è il capitolo di chiusura della raccolta di saggi a cura di Federico di Vita La scommessa psichedelica, uscita a novembre 2020 per Quodlibet. “Glossario” perché mette alla prova alcune parole chiave delle culture psichedeliche, per verificarne l’attualità e l’usabilità; “Pseudo” perché, in ossequio alla frattalità del tema, non dà alcuna definizione e anzi non riesce nemmeno a mettersi in ordine alfabetico. Ne presentiamo qui una versione ridotta.]

 

Sottoterra

 

La clandestinità toglie ossigeno a una cultura e ne mummifica il linguaggio. Quando ci si riduce a sopravvivere nelle catacombe, i fondamenti restano non indagati. In un certo senso, indagare non è necessario, perché ai fondamenti ci si è già. Anzi scavare ancora, sottoterra, diventa rischioso, non si può aprire una buca o spostare una soglia a cuor leggero, perché se la volta non regge e crolla non c’è alcuna via di fuga.
Quando poi però si riemerge alla luce del sole, ci si trova tra le mani parole e accezioni non perfettamente calzanti, come chiavi di foggia antiquata che aprono solo serrature d’altri tempi. Ci si accorge che a forza di parlare cifrato, non sappiamo più con precisione qual era il messaggio originale. Rischiamo di perderci in una nebbiolina di nomi dal significato indefinito, che non corrispondendo più all’esperienza, la occultano più di quanto non la illuminino. Ora con questo Rinascimento psichedelico ci troviamo in una situazione simile. Le idee che abbiamo ereditato, le dobbiamo rimettere alla prova, per vedere se funzionano ancora.

Il senso del glossario dunque non è mettere al corrente, fornire definizioni neutre, ma testare tendenziosamente parole chiave, similmente a quando si stendono e distribuiscono, esplorando col metodo dell’assenza di metodo, della disconnessione controllata che è lo stato di equilibrio dello psiconauta, le tessere di un puzzle sul tavolo.
Con la difficoltà aggiuntiva che in Italia, al contrario che nel mondo anglosassone, un discorso pubblico di ampia risonanza sulle sostanze non c’è mai stato, rimanendo più o meno paradigmatica tra gli intellettuali, fino a oggi, una posizione come quella di Alberto Moravia: «Non amo le cose che modificano la droga del mio pensiero, cioè la droga che mi produco da me. Sì, so benissimo che mi drogo anch’io, con la scrittura. Anzi, io mi drogo con la mia immaginazione. Ma non vedo perché dovrei modificare il mio stato normale, aggiungerci qualcosa».
Nel bene e nel male, con o senza sostanze psicoattive, non viviamo più in un’epoca in cui ci possiamo cullare nella sicurezza illusoria di poter vivere appieno, e forse nemmeno sopravvivere, nel proprio «stato normale».

 

Rinascimento psichedelico

 

Puzza terribilmente di hype. Per me ha connotazioni addirittura angoscianti, siccome abito nell’iperturistica Firenze ridotta, come da slogan d’inizio secolo, a «Disneyland del Rinascimento». Insomma so bene che la celebrazione del Rinascimento può degenerare nel culto di un Uovo scaduto (un Beherit?): se ci sia ancora dentro qualcosa di mangiabile non si sa; l’importante è far pagare ai visitatori il diritto di fotografare – e fotografarsi – il guscio.
Tuttavia, l’hype potrebbe anche essere giustificato. In fondo, chi usa l’espressione lo fa in riferimento specifico a un movimento nella ricerca medica. Dal punto di vista di ricercatori, psichiatri e pazienti, sono tempi eccitanti, di speranza, che prefigurano, come sostiene eloquentemente Ben Sessa in The Psychedelic Renaissance, una psichiatria che possa finalmente accogliere nel suo linguaggio la parola «cura», dopo un secolo passato, in mancanza di meglio, a nascondere le malattie alleviando i sintomi.
C’è però una connotazione più ampia in questo Rinascimento, che di solito non viene esplicitata, benché sia chiaro che tutti i suoi fautori la tengono a mente, ed è la speranza che la diffusione dell’uso terapeutico di MDMA, psilocibina, ketamina, ecc. porti a una specie di Rinascimento culturale e spirituale di un’umanità afflitta da una terribile epidemia di disagio psichico.

Un’accezione idealistica che resta sottotraccia perché per propiziarla bisogna evitare di attirare troppa attenzione; bisogna tenere la faccenda nei sobri binari della ricerca scientifica, dell’evidenza empirica raccolta con cura per i dettagli e le condizioni degli esperimenti; e soprattutto evitare come la peste qualsiasi associazione con gli hippie, cioè con il radicalismo politico degli anni ‘60 (gli stessi hippie che negli anni ‘60 venivano accusati di disimpegno piccoloborghese decadente e a cui ancora oggi la destra post-sessantottina imputa niente di meno che la fine della civiltà occidentale).
Come risultato, la nuova psichedelia si pensa spesso come un movimento per strappare certe sostanze psicoattive per natura benigne dalle grinfie della politica, e rimetterle nelle mani fidate da cui gli sconvolgimenti controculturali e le relative reazioni li avevano strappati: quelle degli scienziati.

Scrive Ben Sessa: «Senza la validazione della professione medica, gli psichedelici rimarranno vestigia arcaiche del passato, denigrati come sostanze ricreative e d’abuso, perennemente soggetti a un’opinione pubblica negativa. Allo stesso modo, le persone che ne fanno uso – sia pure a fini psico-spirituali – saranno sempre calunniate e rifiutate dalla società». Passaggi del genere mettono un certo disagio. Pare che questi scienziati non si rendano conto di non vivere più negli anni ’90 del millenarismo tecno-scientifico: se la scienza oggi sollecita visioni nel pubblico laico, sono sovente visioni di angoscia, controllo e schiavitù, persino di apocalisse. Dopo il crollo di legittimità innescato dalla gestione neoliberale della crisi del 2008, il razionalismo «basato su fatti e logica» non è stato sufficiente per difendere i vaccini dall’ondata di risentimento contro la tecnocrazia (perché tutto questo accanimento contro i vaccini? Non sarà che i genitori desiderano acclimatare brutalmente i loro figli a quella stessa «durezza del vivere» che li terrorizza e ne perverte la ragione?); sarà sufficiente per difendere gli psichedelici, quando entreranno sotto il radar delle destre tradizionali o, peggio, delle nuove destre radicali? Non è psicofantapolitica: abbiamo già esempi in tal senso negli Stati Uniti, con il gruppo di ultradestra The Base impegnato nella produzione di DMT; i neonazisti della Atomwaffen Division, cultori dei funghi magici; per non parlare dei numerosi esponenti della destra intellettuale (angloamericana – per fortuna i nostri sono ancora troppo ignoranti per accodarsi), come Jordan Peterson e Sam Harris, che non hanno avuto problemi nell’associare la passione per l’ayahuasca al razzismo e alla misoginia.
Ciò non significa certo che la scienza è sbagliata, che la validazione medica non sia necessaria, o tantomeno che si debba cercare di puntellare l’autorità degli scienziati con altre fonti di legittimità, magari di tipo religioso! Piuttosto, questo incerto Rinascimento, perché non resti circoscritto a circuiti ristretti (e costosi) di psicoterapia per élite, deve farsi carico di tutta la sua portata politica e diventare un movimento per il diritto all’accesso alla cura psichedelica e per la libertà cognitiva.

 

 

Psiconauta

 

Scrisse Terence McKenna nel 1991: «abbiamo bisogno di molti diari di molti esploratori». Vent’anni prima, Ernst Jünger aveva dato agli esploratori un nome che forse in tedesco suonava meno da cartone animato: psychonauten, psiconauti. E di esploratori ne abbiamo avuti una quantità, continuano ad andare e tornare, sempre più numerosi al punto che le piste più battute sono aperte ai turisti, e i loro bizzarri diari sono un genere letterario assai frequentato (vedi in questo libro Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio di Peppe Fiore).
Nella mia esperienza, di psiconauti ce ne sono due tipi: i concavi e i convessi. Entrambi valorizzano un approccio soggettivoempirico e usano gli stessi metodi, ma differiscono per mentalità.

Gli stati alterati di coscienza, in generale, prevedono una porta girevole: esce una realtà, ne entra un’altra. Gli oggetti della prima sono quelli normali della vita quotidiana; quelli della seconda sono lo strano risultato delle varie modalità di deformazione, moltiplicazione, aggiunta, cancellazione, scomposizione, assemblaggio, trasferimento ecc. proprie della sostanza.
(Va sottolineato che definiamo gli stati alterati in base a quello sobrio solo per comodità, ma potremmo fare anche il contrario, dicendo per esempio che lo stato sobrio è quello che fa collassare i frattali in oggetti stabili, dalle forme geometriche semplici e dai contorni ben definiti. L’unica superiorità obiettiva dello stato sobrio è che essendo raffinato evolutivamente, è lo stato più utile per sbrigare le necessità quotidiane. Quando si prescinde dall’utilità, come sarebbe nostra mira generale quando parliamo di civiltà, non c’è alcuna gerarchia, nessun punto di vista è in sé sbagliato, illusorio, allucinato o tantomeno folle, ma sono tutti giudicati, caso per caso, in base ai fini e ai mezzi preposti.)

Ecco: lo psiconauta convesso ottiene, dall’esperienza psichedelica, accesso a una dimensione profonda, i cui strani oggetti sono più veri o in qualche modo più rappresentativi della verità di quelli normali. Il concavo invece crede che i due piani si equivalgano. Dell’esperienza, mette a frutto l’aspetto sottrattivo, la pars destruens per così dire, cioè tutte quelle caratteristiche che lo portano a perdere certezze, dubitare, aprirsi a indefinite possibilità alternative. Potrebbe prendere a suo motto quello di McKenna: «Il fungo mi ha detto che nessuno ci capisce un cazzo di quello che sta succedendo».
Il convesso invece trova verità positive. È affermativo, dotato di scoperte e rivelazioni. Non è detto che sia più eloquente del concavo, del resto anche lui si deve confrontare con l’ineffabilità dell’esperienza, ma è molto probabile che per descriverla userà parole come pace, sublime, trascendente; mentre il concavo userà: caos, assurdo, ridicolo. Sempre in cerca di unità, il convesso orbita attorno a pochi, grandi centri di gravità concettuali, metafisici; mentre il concavo, scostante e confuso, salta da un sistema all’altro come una cometa.
Dal punto di vista della spiritualità, non è questione di scetticismo contro fideismo, esistono infatti convessi agnostici (o addirittura nichilisti nietzschiani, come il filosofo Peter Sjöstedt-H, autore di Noumenautics) e concavi credenti. Eppure, il convesso si leggerà i Veda e andrà sempre volentieri a fare un pellegrinaggio a Eleusi, mentre il concavo preferirà il Daodejing e un giro su un forum di Reddit.

 

Tecnologia

 

«Il nichilismo latente nella logica de-umanizzante dell’interfaccia droga/tecnologia è sempre in agguato, in attesa di un’occasione per schiudersi». Così Simon Reynolds vent’anni fa, descrivendo la discesa al «lato oscuro» della prima generazione di raver britannici, verso la fine del 1992. Per Reynolds, tutte le «culture della droga» finiscono per autodistruggersi per i costi psichici degli eccessi.
Il burn-out da social network con cui abbiamo iniziato a fare i conti da qualche anno, però, illumina la storia delle controculture «distrutte dalla droga» con una luce differente.
(L’intera ondata della cultura partecipativa è da considerarsi un grande moto di cattura tecnologica del processo di generazione delle subculture – mentre fino agli anni ‘90 la mercificazione si era limitata a incanalare movimenti più o meno spontanei, oggi è la spontaneità stessa, la sua energia primale, a essere messa immediatamente al servizio del mercato. Le subculture non fanno nemmeno più in tempo a nascere – esplodono direttamente).

Le crisi di ansia per eccesso di Instagram non possono, mi pare, essere ascritte all’abuso di psichedelici e anfetamine. Anzi, se c’è un abuso di sostanze, in specie farmaci sedativi, ipnotici e ansiolitici, è da associarsi a tentativi di armonizzazione di un armamentario psichico obsoleto con le macchine del desiderio perpetuo dell’Internet odierna, tentativi che sono forme di resistenza, non metodi per instaurare sinergie combattive del tipo «drug/tech nexus». La parte fatta di carne del complesso uomo-macchina continua ad accusare il colpo anche in assenza del primo termine, «droga» – anzi le alterazioni chimiche sono armi di difesa. Non più o non solo tecnologie dell’estasi o della trascendenza, ma tecnologie della crisi.
In fondo parlare di nesso droghe-tecnologia è pleonastico, perché le droghe stesse sono tecnologie, non solo in quanto ritrovati tecnici, ma nel senso che il loro stesso consumo sollecita e inculca una serie talmente ampia di relazioni da tracciare solchi e abitudini indistinguibili da quelli lasciati dalle automobili, dai fucili o dai dispositivi elettronici. La tecnologia è un compromesso tra libertà e dipendenza – esattamente come le sostanze psicotrope. Compromesso al rialzo o al ribasso, dipende dalla situazione.

E la situazione è che ogni novità tecnica che si affaccia all’orizzonte, persino la più solare, ormai si tramuta in pochi anni in una terribile macchina di morte. Evidentemente sono i meccanismi stessi del coinvolgimento a dover essere giudicati, non i mezzi. Il che non significa dire che la tecnologia è neutra, anzi significa proprio individuare gli aspetti non neutrali nella tecnologia, distinguendo le disgrazie dai crimini, gli incidenti di percorso dagli effetti by design. L’insostenibilità di una dieta a base di MDMA e speed rientra tra i primi; le dipendenze causate dai sistemi di ricompensa innescati da Facebook tra i secondi.
L’incapacità di operare discorsi agli appropriati livelli di astrazione è il difetto principale di gran parte dell’analisi della tecnologia che si fa oggi, che si concentra troppo spesso sul singolo gadget, la singola applicazione o interfaccia, piuttosto che interrogarsi sui movimenti e le trasposizioni che la tecnologia consente e ostacola. Lo possiamo imparare dalla storia: la tecnologia si sposta, in una continua riconfigurazione dei mezzi e dei fini. Per esempio, Sadie Plant in Writing on Drugs racconta come la CocaCola nel 1902 inventò «la prima merce a creare dipendenza che non contiene alcuna sostanza che crea dipendenza», sostituendo la cocaina, che sarebbe divenuta presto illegale, con la pubblicità; l’esaltazione farmacologica con l’esaltazione del consumismo. Una trasposizione di mezzi (cocaina-pubblicità) per ottenere una nuova configurazione di fini (esaltazione-profitto).

Un altro esempio è la vicenda odierna dell’esketamina, raccontata in questo libro da Agnese Codignola nel saggio L’antidepressivo di Donald Trump.
Ogni tecnologia importante ha effetti collaterali che richiedono lo sviluppo di nuove tecnologie per controllarli, valorizzarli o eliminarli. Sono questi effetti collaterali, non la volontà d’innovazione in sé per sé, il motore dell’accelerazione tecnologica moderna. Ogni fuga in avanti è una reazione al rischio di un’involuzione. È sul controllo degli usi impropri che si gioca la partita della direzione dello sviluppo tecnologico.

 

Morte dell’ego

 

Nei discorsi della nuova psichedelia si intrecciano approcci spiritualisti, che sostengono cioè l’irriducibilità della coscienza alla materia; e tecno-positivisti, che scommettono cioè nell’avanzamento scientifico come motore della civiltà e negli strumenti tecnologici come interfaccia tra il soggetto e l’evoluzione della razza umana.
Restano ai margini sia posizioni materialiste classiche, sia posizioni di tipo religioso esplicito (per quanto elementi di metafisiche d’ispirazione buddhista o taoista siano molto diffusi, tuttavia solitamente depurati dai risvolti più impegnativi dal punto di vista fideistico – se si sente spesso parlare di karma o di Equilibrio, non altrettanto si sente di reincarnazione o di elisir dell’immortalità). Entrambe le posizioni infatti sono tenute lontano dagli psichedelici dal moralismo insito in tutti gli approcci (a)teisti.


Il connubio tra spiritualità e scienza rimane però inconcluso, perché è inconcludibile, essendo i due approcci l’uno la stampella dell’altro. Si impone invece una divisione del lavoro: la sostanza chimica fornisce la parte spirituale, che il neuropsichiatra equilibra con la sua scienza, la quale supera l’approccio aneddotico e dimostra che gli psichedelici funzionano.
Abbiamo ormai prove su prove di ciò che è già ovvio a chiunque l’approccio aneddotico l’abbia arrischiato: funzionano, sono «antibiotici psichiatrici» (così li chiama Ben Sessa), ansiolitici sul lungo periodo, antinfiammatori, aiutano a superare dipendenze e paure, accrescono apertura, connettività, senso di comunione, innescano esperienze estatiche, morte dell’ego.
Funzionano, ma non si sa su cosa. Infatti modificano la coscienza, ma noi non sappiamo cos’è, la coscienza. Come possiamo allora capire veramente cos’è uno psichedelico?

Gli utilizzatori finali si trovano a compiere il bricolage interpretativo delle proprie esperienze utilizzando, in mancanza di altro, il linguaggio degli scienziati. Che di fronte alla difficoltà dell’esperienza mostra la corda: i forum di Reddit sono pieni di dubbi e problematiche chiaramente figlie dell’imposizione irriflessa di un quadro interpretativo inadeguato. Vedi gente che domanda preoccupata: «Cosa succede se divento dipendente dalle sostanze che mi liberano dalla dipendenza da sostanze?». «Ho perso la Paura della Morte e ora non ho più voglia di vivere; consigli per alternative al suicidio?». «Aiuto: mi sa che ho esagerato con la neurogenesi, credo che le mie nuove sinapsi abbiano fatto corto-circuito, perché continuano ad accendersi e spegnersi come le lucine di Natale». «Ho raggiunto la piena illuminazione: l’universo in realtà è la proiezione olografica della mente di un alieno che ha fumato DMT, e noi siamo le sue allucinazioni».

La morte dell’ego occupa un posto d’onore nel novero degli pseudoproblemi dello psiconauta, di solito sotto forma di richieste di consigli per riuscire a ottenerla; oppure di richieste di opinioni se l’esperienza tale sia da considerarsi genuina morte dell’ego oppure no. Quando poi vai a leggere i resoconti, le esperienze soggiacenti sono tutte diverse le une dalle altre: c’è chi non sapeva più chi era, chi si era unito con il Tutto, chi non riconosceva più gli amici, chi pensava di essere qualcun altro, chi aveva capito tutto ma riusciva a spiegarlo solo in una lingua aliena, chi ha visto la sua mano tramutarsi in un totem algoritmico che rigirava la sua personalità come se fosse un cubo di Rubik in otto dimensioni. La morte dell’ego è il mito tecno-spirituale dello psiconauta sprovveduto, o meglio, sprovvisto di un linguaggio adeguato. In essa si riversano le speranze di palingenesi e rinascita che sono il motore della neopsichedelia. Si riversano e si banalizzano nello stesso momento. E così, nel proiettare ciò che si desidera, ne creiamo una caricatura, e poi cerchiamo di ottenere quella, e non siamo soddisfatti. Ci siamo anzi preclusi la possibilità di realizzare il desiderio originario.
Il nostro ego è tenuto in vita dal desiderio di ucciderlo.

 

 

Strano

 

Conclusasi per sfinimento la guerra contro la realtà dichiarata dalle avanguardie artistiche agli albori del ’900 (cfr. Zygmunt Bauman), ci troviamo oggi ingaggiati in una più virtuale guerriglia contro il realismo, inteso come modalità retorica, come stile di pensiero e di discorso dell’oggettività e della ragione esasperate ed esclusive. Probabilmente è un ripiego fruttuoso, purché si sia in grado di escludere i falsi amici, cioè gli irrazionalisti ipocriti (per intendersi, quelli che ammirano l’incapacità di provare vergogna che accomuna i leader politici odierni), che sfruttano la confusione generata dalla crisi del paradigma neoliberista per giustificare la menzogna, la prevaricazione e la sete di potere. Bisogna infatti sempre tenere a mente che la guerra contro il realismo non è una guerra contro la ragione. Che il regime di post-verità, cioè di predominio sul dibattito pubblico di aspetti emozionali e identitari, non è altro che una fase in cui un autoritarismo rinnovato trova opportunisticamente conveniente abolire temporaneamente la verità – solo finché non sarà in grado di imporre la propria contro il paradigma liberale sconfitto. In breve, che l’alternativa non è tra una verità o nessuna, ma è sempre, al di là delle mistificazioni degli scontri di potere, tra molte verità.

Abituati come siamo alle dicotomie del pensiero occidentale, non ci è facile camminare sul filo tra razionale e irrazionale che è necessario percorrere per accogliere verità multiple e contraddittorie. L’istinto è sempre quello di dover pendere per forza da una parte o dall’altra. C’è dentro di noi una coazione isterica a fare scelte di campo definitive, a vedere tutte le alternative come ingiunzioni a combattere, a isolare un tratto e tagliare tutto il mondo in base a quello, come se l’assenza di qualcosa implicasse la presenza del suo contrario, e ci impegnasse a eliminarlo. Insomma, non riusciamo a vivere in santa pace con le contraddizioni, le dobbiamo «risolvere», cioè distruggere, o se non ci riusciamo (e di solito non ci riusciamo), nascondere, dimenticare. La tolleranza non ci aiuta molto, perché è una virtù sintomatica, e comunque è appannaggio solo di chi è in ogni caso convinto di essere nel giusto. Mentre quello che vogliamo è trovare il modo di non sentire più il bisogno di avere ragione a tutti i costi.

Come si combatte il realismo senza diventare irragionevoli? Come si lascia vivere il mondo senza esserne travolti? In queste domande enormi risuonano mille temi, non da ultimo quello ecologico. Non ho pronta alcuna risposta, ma so che una condizione necessaria è farsi trovare preparati dall’incontro con la contraddizione; ci vuole allenamento per sopportare la sua presenza, per non farsi prendere dal panico alla sua apparizione o direttamente impazzire, come i personaggi di Lovecraft. Empiricamente, la contraddizione si mostra come un evento o una cosa strana, cioè (a seconda dell’intensità): inaspettata, improbabile, assurda, inconcepibile, apocalittica.
Abbiamo visto, negli ultimi anni, un’ondata di interesse per tutte le cose strane, perfettamente esemplificata dalla rinnovata e accresciuta considerazione per l’opera di H.P. Lovecraft. Qualche esempio, in ordine di notorietà decrescente: la serie Stranger Things; il genere New Weird istanziato da Ann e Jeff VanderMeer; la vita come «qualcosa che non dovrebbe esistere» della linea pessimista e nichilista di un Thomas Ligotti; lo «strano estraneo» del pensiero ecologista di Timothy Morton.

Questa ondata sembra rispondere a un’esigenza profonda, cioè alla volontà di acclimatarsi con l’irruzione dello strano nella realtà quotidiana – oppure, per i pessimisti, di venire a patti con l’impossibilità di venire a patti con lo strano; ciò che Thomas Mann chiamava «l’abitudine a non abituarsi». Perché non possiamo continuare a impazzire tutte le volte che Cthulhu o qualche altro «paradosso incarnato» (Ligotti) fanno capolino. La virtù primaria di chi combatte il realismo è l’equilibrio.
Un equilibrio che è apertura estrema: disponibilità a farsi cambiare dalle altre persone e dalle altre cose. (Per inciso, l’apertura come categoria psicologica è una dimensione su cui frequentemente sono valutati gli effetti positivi sull’umore impartiti dagli psichedelici).
Per suffragare questo tipo di confronti con lo strano esiste addirittura una branca di studi, i «weird studies», che sarebbe bello poter tradurre in «anomalismo» o «stranologia». Uno dei maggiori alfieri della stranologia è lo storico delle religioni californiano Erik Davis, autore di studi importanti come TechGnosis e High Weirdness.

Leggiamo in High Weirdness che un approccio rispettoso al «fringe event» deve partire dal riconoscimento della sua realtà peculiare, che non è mai del tutto evidente come vogliono i soprannaturalisti, né del tutto impossibile come vogliono i materialisti di ferro. «Anomalie, sincronicità, prodigi, stati di estasi: questi sono fatti dell’esperienza con cui ci dobbiamo confrontare, senza accontentarci di ridurli ad altri aspetti della realtà che già comprendiamo».
Davis chiama in causa l’antropologo e filosofo francese Bruno Latour e il suo progetto di «neoempirismo radicale», sviluppato nell’arco dell’intera carriera e giunto alla sua formulazione più compiuta nel 2012 con Enquête sur les modes d’existence, dove, fedele al suo proposito di considerare «reale» tutto ciò che gruppi e individui considerano tale, abbozza una lista aperta dei diversi e contraddittori «modi di esistenza», cioè dei tipi di realtà con cui i moderni hanno quotidianamente a che fare e per coltivare i quali costruiscono e mantengono apposite istituzioni (ministeri, chiese, laboratori, forme d’arte e così via). Ciò che le istituzioni fanno, è appunto istituire certi tipi di «esseri», che seguono traiettorie esistenziali (cioè appaiono, mutano, scompaiono…) peculiari e irriducibili a quelle degli altri tipi. Latour discute quindici modi di esistenza, senza peraltro presentarli come una tassonomia compiuta, anzi lasciando aperta la possibilità che altri attualmente sottovalutati vengano presi in maggiore considerazione, o addirittura inventati. Hanno nomi suggestivi: esseri della riproduzione, della metamorfosi, della finzione, della religione, della tecnologia…

È stato lo stesso Davis a notare che sono gli esseri della metamorfosi a corrispondere agli oggetti dei weird studies: tutti quegli eventi che vengono normalmente derubricati al rango di superstizioni, cioè negati come illusioni, allucinazioni, oppure interpretati come sintomo di una vita interiore, cioè tradotti nel linguaggio oggettivante e quindi svilente della psicologia. L’esperienza corrispondente a questi eventi è che quella di una «crisi», di un «sentirsi “presi di mira” da un’emozione» e di trovarsi alla fine trasformati. L’entità si presenta inizialmente come qualcosa che ce l’ha con noi e deve essere deviata su un oggetto, un feticcio, un simbolo, perché divenga controllabile. Se non riusciamo a scrollarcela di dosso, ci possiede, ci porta alla disperazione, ci rovina. Quando la crisi è passata, tiriamo un sospiro di sollievo e ci troviamo trasformati: «Come se esistessero molti esseri che vogliono essere chiamati PSICOTROPI; perché modificano il tuo essere quasi in ogni suo aspetto; ti rimescolano tutto facendoti girare l’anima come una trottola».

Non solo psicotropi; Latour questi esseri della metamorfosi li chiama anche «divinità tutelari». Si trova così, in questo nesso tra psicologia e politeismo pagano (come modalità di pensiero, più che come religione), che ha trovato il suo più grande interprete nello psicanalista James Hillman, una possibile chiave della virtù dell’equilibrio.
Mi affascina l’ipotesi di una specie di polismo, approccio metafisico che starebbe al monismo (la metafisica del «tutto è uno») come il politeismo sta al monoteismo: non esiste una realtà, ne esistono molte e reciprocamente incompatibili; a seconda del tipo di esperienza in campo, alcune prendono il sopravvento, altre recedono. Non c’è alcuna tavola della legge che obbliga a tifare per l’una o per l’altra; ciascuno è libero di indossare i propri amuleti.
… E se stai pensando «ma non possono avere tutti ragione, non può essere tutto vero, la realtà oggettiva è una e le altre sono fantasie oppure errori, punti di vista soggettivi», rimando con maggiore insistenza alla Enquête, in particolar modo alla discussione sul demonietto razionalista Doppio Click – che Latour chiama così proprio perché è ossessionato dalla necessità di sdoppiare tutto ciò che esiste in una parte oggettiva e in una soggettiva.

 

Visione

 

«Leggendo le cronache e osservando le figurazioni della festa della Ragione e della Festa dell’Essere Supremo, si ha l’impressione che quanto mancava nelle pratiche cultuali della rivoluzione francese fosse precisamente la visione: non la visione offerta dai partecipanti alla festa (ché anzi essa risultava programmata e attuata con speciale cura), ma la visione di cui avrebbero dovuto godere i partecipanti alla festa. Essi si facevano vedere, non vedevano» (da Materiali mitologici di Furio Jesi). E ugualmente oggi, chi «“vede” in esperienze festive, sia esso sotto l’influsso dell’“autosuggestione” o di sostanze allucinogene, di fatto non “vede”, ma si vede vedere […] poiché il suo vedere non ha nulla a che fare con l’essere consapevolmente in istante privilegiato dinanzi al disvelarsi dell’εἴδωλον». (Eidolon = idolo, simbolo.)

Così Jesi, per mostrare come i moderni non abbiano accesso alla festa tradizionale, quella in cui si manifesta la visione. I moderni non hanno l’idolo, non hanno la visione; l’hanno sostituita – segnati una volta per tutte dalla «parola di Nietzsche, “Dio è morto”» – con un oblio della razionalità che instaura un fantasma effimero del tempo mitico.

Se c’è una certezza che al contrario la psichedelia ci ha dato, e che ci porta a contraddire categoricamente Jesi, è che la visione fa parte dell’orizzonte di esperienza in Occidente, esattamente nel senso di «visione nel tempo storico» che egli ritiene irraggiungibile. E questo avviene, proprio attraverso il ricorso agli «allucinogeni», i quali forniscono quel riflesso involontario o decisione preconscia che è la base della fede necessaria all’apparizione della visione. Non c’è alcuno strappo irrimediabile con l’antichità, e d’altronde non si capisce come potrebbe esserci, dato che siamo la stessa specie di allora, abbiamo le stesse facoltà. Come può bastare una formula magica, per quanto potente (Gott ist tot!), per rimescolarci il DNA e privarci della facoltà della visione? La verità è che abbiamo poche visioni spontanee, private o collettive, perché sono represse dei tabù del materialismo – dalla paura di impazzire.

 

(Ciò che scava un abisso tra noi e gli antichi è tutt’altro: è la vastità degli orizzonti spaziotemporali aperti dalla scienza, con cui la tecnologia ci familiarizza e ci logora).
I festanti allucinati odierni sono dunque assimilabili agli antichi. Se proprio vogliamo tenere i moderni al riparo dall’accessibilità alla visione, allora dobbiamo ammettere che moderni non siamo più, o addirittura, ripetendo il meme di Latour, che moderni non siamo mai stati.

 

Spiritualità

 

Molti raccontano di essersi avvicinati agli psichedelici, prima di tutto, per curiosità. Non solo e non tanto per curiosità di provare sensazioni nuove, quanto per una precisa curiosità filosofica, o esistenziale dir si voglia: «cos’è questa “spiritualità” che tanti propugnano e altrettanti disprezzano, ma nessuno mi spiega?». Rispetto a queste faccende, la maggior parte degli europei sono ancora oggi nella posizione dei membri dell’Azione Parallela del romanzo L’uomo senza qualità di Robert Musil: concepiamo il Geist come un fantasma dell’incomprensibile, di ciò di cui tutti parlano ma nessuno sa dire niente, un’idea-guscio che racchiude tutte le speranze e disillusioni dell’epoca.
Rispetto a simili premesse, gli psichedelici possono sia essere delle delusioni sia superare ampiamente le aspettative più ardite. Delusioni se attraverso di essi non si trova alcuna certezza – si resta uno psiconauta concavo; sorprese perché nonostante la delusione si mostra attraverso di essi l’inconcepibile alterità di ciò a cui prima si aveva accesso solo per via intellettuale e immaginativa. Il mondo dello spirito è infatti sconcertante oltre ogni iperbole. In tale ampio contesto, i rovelli di Ulrich e Agathe e dei membri dell’Azione Parallela, benché inimitabilmente narrati, sono dei pallidi sussulti.

Chi dagli psichedelici ha ricevuto magari dei doni, ma tra questi nessuna rivelazione o svolta spirituale duratura, può comunque dire di essersi trovato all’ingresso del sentiero della fede e di aver deciso, forse dopo qualche tentennamento, di non percorrerlo. Una situazione non infelice, basti considerare quanto è terribilmente non felice quella opposta, di chi cerca invano il sentiero della fede e chiama «fede» il cercarlo e non trovarlo.
Gli psichedelici funzionano come micce spirituali perché sono, fra le altre cose, degli auto-placebo: mentre i placebo funzionano solo se credi che siano medicine, gli auto-placebo funzionano anche se non ci credi, cioè anche se sai che sono solo placebo, perché ti rendono estremamente credulo. Può sembrare un intento denigratorio, ma in realtà i placebo sono tra le migliori medicine: economici e senza effetti collaterali.
Il punto dell’auto-placebo è che non ha un contenuto specifico, porta dove il set e il setting determinano di andare, e opera le sue trasformazioni attraverso la visione. Come funzioni veramente tutto questo, e che significato abbia, non lo sappiamo.
La spiritualità diventa così un confronto appassionato con una specifica questione: cos’è che mi cambia? e che mi connette con il mondo in trasformazione? Il corpo? I simboli? L’inconscio, inteso non in senso psicologico, ma in senso metafisico, come insieme di ciò che non conosco? Tutto? Nulla? Non esisto? E così via. In quest’ottica, la questione spirituale coincide con il problema della coscienza.

 

Coscienza

 

Si usa in filosofia della mente il concetto di «trasparenza» della coscienza, a indicare il fatto che percepiamo le caratteristiche degli oggetti appunto come caratteristiche degli oggetti, non come proprietà di rappresentazioni mentali eventualmente riferite a qualcosa di ulteriormente esistente. Per sviluppare la metafora, la coscienza è come la luce: non la vediamo, ma ci permette di vedere; ciò che vediamo invece sono le superfici che la riflettono. Questa caratteristica della coscienza spinge i bambini a credere che percepire il mondo sia come affacciarsi a una finestra, e rende anche per gli adulti assai poco intuitivo un ribaltamento di prospettiva.

L’esperienza psichedelica (EP) «opacizza» parzialmente questa trasparenza, rendendo evidente ciò che normalmente è afferrabile solo a livello teorico (o al più con illusioni ottiche, come quella dell’anatra-coniglio commentata da Wittgenstein, che però, essendo limitate a singoli oggetti e non all’insieme del campo cosciente, non rendono giustizia alla pervasività dell’effetto di trasparenza). Leggendo diversamente la metafora della trasparenza: nelle adatte condizioni di luce, un vetro pulito è trasparente, non possiamo vederlo ma ci permette di vedere ciò che sta al di là. Tuttavia, se facciamo un passo di lato, il vetro diventerà percepibile attraverso piccole impurità sulla superficie, sue deformazioni e micro-riflessi. L’EP è il passo di lato, rende tutti filosofi della mente.


O meglio, potrebbe farlo, se non intervenisse un preconcetto, il bisogno di ridurre tutto a un’unica realtà oggettiva. Eppure l’EP dà accesso a realtà alternative. Negarlo è l’equivalente filosofico di coprirsi le orecchie e pestare i piedi. Tuttavia, il modo ingenuo con cui solitamente si parla di queste realtà alternative contribuisce a sollecitare la reazione infantile di chi le nega. Prendiamo ad esempio Rick Strassman e la sua interpretazione dei frequenti incontri con alieni dei volontari a cui somministra la DMT (raccontati in DMT. La molecola dello spirito): ebbene, siccome in una certa percentuale dei casi appaiono degli alieni scienziati, allora lo scienziato umano si sente in dovere di affermare (dopo adeguata crisi di coscienza e messa in discussione della sua visione del mondo materialista ecc.) che è tutto vero, la DMT sfonda la membrana che divide il nostro mondo dal mondo degli alieni in camice multicolore, i quali non aspettano altro che li passiamo a trovare, di solito per scandagliarci l’anima o per farci giocare con un gadget translinguistico. Così dicendo, lo scienziato umano crede di aver reso giustizia all’esperienza, riportandola nel linguaggio dell’oggettività: da qualche parte c’è un luogo abitato da alieni, e ci possiamo andare irrorando i recettori serotoninergici di DMT. Certo, così dicendo si contrappone ai negazionisti per i quali questi incontri sono «solo allucinazioni», ma lo fa al costo di proiettare sulla realtà-DMT i parametri dell’oggettività propri della realtà sobria. Si preclude la possibilità di opacizzare la coscienza.

Sarebbe invece più corretto, e aderente all’esperienza, dire che la DMT opera il passo di lato, anzi un balzo enorme. La DMT trasforma il nostro mondo in un mondo di iperclown iperattivi, un mondo in cui lo spazio e il tempo si comportano in maniera molto diversa, cioè, se spazio e tempo sono categorie fondamentali, un mondo che propone una diversa incarnazione dell’essere. In riferimento al problema filosofico di che cosa si prova a essere un’altra forma di vita (l’esempio classico è quello del pipistrello, da un famoso saggio di Thomas Nagel), la DMT ci mostra che cosa si prova a essere un essere di pura luce capace d’interagire con alieni, elfi e trickster. Il fatto è più lampante per la DMT, perché questa sostanza sostituisce quasi completamente il mondo dei sobri con uno tutto suo, ma è lo stesso per tutte le sostanze psichedeliche.
Questo è il più importante suggerimento dato dall’EP alla filosofia della mente: la struttura dell’esperienza è plastica, non siamo condannati a conoscere solo il punto di vista umano, o meglio, possiamo costruire ponti con altri punti di vista diversamente umani. La coscienza diventa un oggetto manipolabile. Solo che, di nuovo (se n’è discusso in Morte dell’ego), non sappiamo cos’è. E giocare con cose che non si capiscono, è pericoloso: lo vedremo presto, quando dalle neuroscienze trionfanti si svilupperanno neurotecniche avanzate di lettura e manipolazione.

In filosofia della mente, il mistero della natura della coscienza prende il nome di «problema difficile», che si può riassumere così: non sappiamo che cosa collega l’esperienza soggettiva (vedo un fiore) con il parallelo svolgersi di eventi oggettivi (fotoni che colpiscono la retina e generano a cascata miliardi di scariche elettriche nel cervello). È come se i due punti di vista viaggiassero parallelamente, compiendo in sincrono dei movimenti che si corrispondono, come una ballerina e la sua ombra, ma di cui non riusciamo a individuare la reciproca connessione. A una certa attivazione neuronale corrisponde una certa esperienza – fin qui siamo ormai tutti d’accordo – e possiamo perfino mappare certe caratteristiche dell’attivazione neuronale a certe caratteristiche dell’esperienza (a partire, banalmente, dal fatto che il segnale e l’esperienza iniziano e cessano contemporaneamente) – ma perché viaggiano sempre a braccetto, non lo sappiamo. Non solo: non ne abbiamo la più pallida idea. Le scariche neuronali causano l’esperienza? O bizzarramente viceversa? Sono l’esperienza? Oppure sono solo correlati, così come lo sono il tuono e il lampo (quando c’è uno c’è anche l’altro), ma non sono l’uno la causa dell’altro? Ma allora cos’è che causa entrambi? Dove si nasconde? (Secondo alcuni, il medium sarebbe l’informazione, ma a me pare che l’informazione sia solo una misura di ciò che resta invariato tra i due punti di vista.) E se lo scisma fosse così grave che non siamo neanche in grado di concepire una spiegazione? E se invece fosse tutto un abbaglio, l’esperienza è un’illusione, esistono solo scariche neuronali? E se l’abbaglio fossero le scariche neuronali?

Questi sono fra i problemi più interessanti che possa affrontare una psiconauta, certo non con la pretesa di esperire direttamente la verità ma con la fiducia che l’arma del passo di lato possa offrire intuizioni preziose.
Un progetto di ricerca che voglia formalizzare il metodo del passo di lato, può assumere a ipotesi di lavoro il modello della coscienza come simulazione. È un’ipotesi supportata, come detto, dall’EP, ma numerose scoperte della neuroscienza indicano nella stessa direzione. È una simulazione privata, non una simulazione collettiva alla Matrix. Ciò che chiamiamo esperienza è una rappresentazione semplificata di una realtà immensamente più vasta e complessa. Dal punto di vista soggettivo, dunque, interrogarsi sul problema difficile della coscienza richiede prima di tutto di interrogarsi sulle possibilità della visione. Esiste un qualche tipo di visione capace di sfondare la simulazione, mettere l’oggetto in presenza diretta del soggetto? Il mio istinto razionalista mi dice di no. Ma è appunto, solo un istinto (si sarà capito, sono un concavo).
In ogni caso, se per alcuni la coscienza come simulazione può essere un punto di vista angosciante, spersonalizzante, che fa venire voglia di ficcare il capo sottoterra – per molti potrà addirittura fungere da varco verso un senso di libertà, l’idea di poter prendere alla lettera il luogo comune «se cambi te stesso, cambi il mondo».

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[in copertina e lungo il testo: opere di Allyson Grey dalla serie Secret writing, 1975-2015]

3 thoughts on “Pseudoglossario psichedelico

  1. Molto interessante, ma non capisco e mi sconcerta il suo giudizio su Sam Harris. In che senso non ha avuto problemi nell’associare la passione per l’ayahuasca al razzismo e alla misoginia? Trovo azzardato anche definirlo di destra.

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