di Dario Rossi
Il 30 dicembre 2020 Netflix ha pubblicato in blocco la miniserie documentaristica in 5 puntate SanPa, di Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, con la regia di Cosima Spender. Ve ne sarete accorti, perché sui social network, soprattutto Fb e Twitter, non si parla d’altro. Ma, cosa rara, il clamore ha invaso anche i media tradizionali, giornali e tv.
Google Trends registra la crescita dell’interesse sulla chiave di ricerca “San Patrignano” da 1 a 54 fino ai giorni del lancio della serie, e da 54 a 100 (dati proiettati) a inizio 2021. Una crescita esponenziale. Curiosamente, ma non troppo, il nome della comunità è molto più di tendenza rispetto al titolo della serie (che va da 0 a 11, a 32) o persino rispetto a quello che tutti riconoscono come protagonista, Vincenzo Muccioli (che va da 1 a 38 a 81 per il solo cognome, e da 0 a 19 a 41 per il nome completo). I dati ovviamente si aggiornano di continuo, e il confronto lo tenete d’occhio qui. C’è da dire che chi in questi giorni dovesse cercare su Google “San Patrignano” sarebbe travolto (soprattutto sulla sezione “Notizie”) dalla messe di articoli che i giornali online hanno dedicato al clamore intorno alla serie, con tanto di contro-interviste ai vari personaggi, da Red Ronnie ad Andrea Muccioli, ognuno impegnato a correggere il tiro della narrazione contenuta nella serie Netflix.
Tutte queste cose sembrano delle ovvietà, perché SanPa è una serie che parla di San Patrignano, e come ogni documentario che si rispetti attira interesse sull’argomento che tratta. Eppure già da queste ricerche si nota una cosa: la docuserie si sovrappone idealmente all’argomento, e lo vampirizza fino a esaurirlo, come se non esistesse San Patrignano al di fuori di SanPa, come se non fosse possibile parlare oggi di San Patrignano se non in rapporto dialettico con la serie, per convalidarla o confutarla in base al caso e, soprattutto, sul suo terreno dialettico.
Ma SanPa non è affatto San Patrignano, anche se fa di tutto per sembrarlo. Come tutti i documentari è costruito dando l’illusione dell’oggettività, ma come tutte le docufiction in voga ora si basa su un arco narrativo che ha una direzione precisa, che risponde a canoni consolidati, e riportati anche nei titoli dei vari episodi: Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta. I titoli sono volutamente ambigui: si riferiscono a San Patrignano oppure al suo demiurgo Vincenzo Muccioli?
Si potrebbe rispondere che non c’è differenza, perché Muccioli era San Patrignano, con una sovrapposizione narcisistica e padrepadronale. Peccato che questa risposta è viziata di forma, perché accetta e introietta l’impianto narrativo della serie, che con la morte di Muccioli (Caduta!) finisce. Ma San Patrignano è tutt’altro che finita: come la serie accenna, la comunità ha continuato a espandersi e a prosperare a livello politico, economico e comunicativo, guidata per ben sedici anni dal figlio Andrea – anche se SanPa glissa clamorosamente su come sia stato poi estromesso per una gestione economica (a dir poco) opaca dai Moratti.
La sovrapposizione tra Muccioli e San Patrignano è quindi una scelta drammaturgica, che permette due scorciatoie: da una parte trasforma il documentario sulla storia di una comunità di recupero (per definizione articolata e complessa) in un appassionante e rapido biopic, in cui ogni personaggio esiste solo in funzione del protagonista principale; dall’altra permette di costruire un arco narrativo limitato e teso, scandito addirittura nei cinque atti formali delle tragedie francesi e nei più chiari tre atti strutturali di ogni storia: introduzione dei personaggi, scontro e lotta, risoluzione della crisi.
L’ha detto con altri termini Andrea Muccioli in un’intervista al Corriere della sera: “Beh, non lo definirei proprio un documentario. È pura e semplice fiction. Cerca l’effetto ‘pulp’ creando più ombre possibili intorno alla figura del protagonista. Ci riesce benissimo, ma ne falsifica la storia, il pensiero e il modello”. Ovviamente lui lo diceva con tutt’altro senso, ma al netto della prevedibile difesa d’ufficio del padre e della comunità, è facile vedere nelle sue parole lo straniamento che qualsiasi persona reale prova nel vedere la sua esistenza complessa, sfaccettata e contraddittoria, ritratta tramite sublimazione drammaturgica in un’opera di fiction. Eppure: SanPa è un documentario, no?
Non proprio. Volendo semplificare molto, a livello cinematografico la forma classica del documentario risponde idealmente alla saggistica, mentre i film e la serie tv rappresentano la versione per immagini della narrativa. La cara vecchia divisione tra fiction e non-fiction è insomma anche una divisione di finalità: la non-fiction avrebbe come prioritaria una funzione informativa, mentre la fiction rientra più propriamente nell’intrattenimento – questo al di là di quanto io possa trovare divertente leggere un saggio sulla situazione in Medioriente o sull’empatia dei bonobo. Da un po’ di tempo, però, hanno preso molto piede delle forme ibride, anche e forse soprattutto grazie al successo del cosiddetto true crime, che in forma documentaristica fornisce lo stesso thrilling di un buon giallo. È una cosa che in Italia, terra di Un giorno in pretura, Blu Notte e Chi l’ha visto?, sapevamo già, ma come molte altre cose abbiamo pensato di doverla importare culturalmente dagli Stati Uniti.
Il successo del true crime ha insomma portato al consumo di massa una forma precedentemente di nicchia come quella del documentario, ma la truecrimizzazione ha anche portato, con un doppio rovesciamento, alla fictionalizzazione del documentario. Le docufiction infatti assomigliano tutto sommato più ai film tratti dalle storie vere che non ai classici documentari, sacrificando l’informazione all’intrattenimento, e la realtà alle regole drammaturgiche. Se in un altro momento storico la vicenda di San Patrignano sarebbe stata raccontata col tono autoriale e grave (e forse un po’ noioso) di un documentario vero e proprio, nel 2020 la sua vicenda diventa inevitabilmente materia per una serie dagli stilemi true crime.
E che cos’è in fin dei conti, SanPa, se non la versione in salsa romagnola di Wild Wild Country, la docuserie di Netflix su Osho e la sua pazzesca comune fondata nell’Oregon nei primi anni ottanta? I punti in comune sono tantissimi: una comunità isolata dai meccanismi settari, un santone autonominato capo carismatico, violenze, armi, omicidi, indagini, vecchi filmati e nuove interviste a fuoriusciti e testimoni, la patina retrò degli anni ottanta coi golfini e i tagli di capelli così lontani dai nostri. La storia di San Patrignano viene insomma ricondotta e in parte ridotta alla storia di una setta e di un santone – forse non a caso il sottotitolo americano della serie, Sins of the Savior, insiste sulla sovrastruttura religiosa per una comunità che in teoria era del tutto laica e non iscritta in nessun culto.
Persino la tanto insistita e così tanto apprezzata ambivalenza morale della narrazione, sempre attenta a sfumare i confini tra buoni e cattivi, era già presente in Wild Wild Country. Sul sito del critico Roger Erbert la recensione recitava: “by handling this story so intelligently and by opening its heart to a very complicated idea of good and evil, Wild Wild Country has a profound, mesmerizing power itself”. Tutte cose rimbalzate anche tra le recensioni italiane e i pareri entusiasti sui social nel caso di SanPa. Piccolo particolare: la recensione della docufiction su Osho si intitolava Netflix Docuseries Wild Wild Country is Fascinating Entertainment.
Eppure, a scorrere i giornali e i social, in questi giorni, a parte i difensori d’ufficio di San Patrignano nessuno parla mai di Entertainment per quanto riguarda SanPa. Anzi, il successo della serie ha rinfocolato tutta una serie di discussioni sulla gestione della tossicodipendenza e sul boom dell’eroina nell’Italia degli anni tra i settanta e i novanta. Ed è proprio qua che la struttura stessa di SanPa, le scelte drammaturgiche, hanno una ricaduta nella discussione. La parabola di ascesa e caduta non si limita a creare un congegno narrativo canonico perfettamente funzionante, ma fa risuonare a lungo nella mente dello spettatore lo sfracellamento etico finale, dissolvendo le impressioni più chiaroscurali che le prime puntate avevano seminato.
Ottiene così lo stesso risultato per i suoi due ideali pubblici: i pro-Muccioli potranno raccontarsi che il progetto iniziale era un quasi Eden rovinato dall’arrivo della politica e dei soldi (paradigma tutto cattolico, insomma), gli anti-Muccioli potranno leggere nelle ultime efferatezze la conferma dei primi sospetti (paradigma autoritario, diciamo). E così i pro-Muccioli e gli anti-Muccioli usciranno da 5 ore di SanPa convinti delle loro stesse convinzioni. E chi non sapeva niente di San Patrignano? Quelli probabilmente seguiranno l’arco narrativo degli autori, che è sottilmente ma evidentemente anti-Muccioli. Non c’è niente di male in questo, in teoria, perché è a questo punto che torna a galla l’origine documentaristica del progetto. I documentari, sono sempre, anche quando fingono di non esserlo, testi argomentativi, che alla fine dimostrano una tesi. Rispetto alla saggistica libresca, però, la potenza delle immagini è tale che l’essenza argomentativa svapora di fronte alla supposta evidenza di ciò che vedi con i tuoi occhi, fornendo l’ennesima dimostrazione della potenza imparagonabile tra testo scritto e audiovisivo.
Questi due elementi strutturali, però, finalità argomentativa e finalità di entertainment, entrano in conflitto, perché vanno in fin dei conti in direzioni diametralmente opposte. La storia di Muccioli e di San Patrignano era in origine un insieme di fatti e di voci, compositi e contraddittori com’è sempre la realtà, ma per la macchina terribile della narrazione le persone diventano personaggi, i fatti sono scene, e così via. Quando arriviamo alla fine della visione, ci rimane comunque nell’orecchio il rumore illusorio della verità che la matrice documentaristica ha ricreato con molta sapienza, e ci catapultiamo sui social a dire la nostra sul tema “San Patrignano e l’eroina in Italia”, quasi avessimo appena discusso una tesi di Master in Medicina delle Dipendenze.
L’obiezione canonica, potrebbe essere: be’ ma non potevano metterci dentro tutto. E infatti proprio durante la visione di SanPa si vedono scampoli di non detto che avrebbero aperto altre strade e illuminato in modo diverso quegli stessi fatti: Delogu ricattò Muccioli oppure no? Qual è il ruolo reale dei Moratti? Perché il cadavere fu portato a Terzigno? Che ne è delle altre comunità che operavano in contemporanea? Oggi com’è San Patrignano? Sono passati 25 anni dalla morte di Muccioli, come ha funzionato dopo?
La pura selezione di cosa narrare e cosa tralasciare, chi far parlare, come accostare tra loro le interviste, dà un senso preciso alle cose, e anche con lo stesso girato si sarebbe potuta raccontare tutta un’altra storia – lo dimostrano tra l’altro i servizi Rai pro-Patrignano dell’era Moratti.
Sia la regista Spender sia gli autori Gabardini e Neri hanno rilasciato interviste in cui hanno in parte risposto a queste mancanze e queste scelte, adducendo in parte motivazioni di ordine pratico: i tempi di realizzazione, il rifiuto dei Moratti a partecipare, la mancanza di fonti ferree per alcune questioni (Netflix pretende tre fonti incrociate per ogni fatto). Tutto plausibile, ma a me sembra che in realtà il problema sia un altro, cioè l’adesione al genere preciso (il truecrime delle sette) e a un intento di intrattenimento (la docufiction), che sposa un tipo diverso di complessità, che a che fare con l’ambiguità dei personaggi romanzeschi più che con l’inattingibilità dei fatti.
Dice Gabardini: “La nostra idea era, appunto, realizzare un prodotto documentaristico, raccontando la storia nella sua complessità, non compiacere una delle mille parti in causa che saranno sempre scontente. Quella che abbiamo voluto proporre è una storia più grande. Una storia che aveva bisogno di essere raccontata, ed era doveroso riportare anche nei confronti di quanti ne sono stati protagonisti. Una storia che racconta l’Italia del 1978 e l’Italia di oggi. Dal tema della droga al ruolo dell’uomo forte”.
Ecco, mi sembra che se l’uomo forte ci sia assai, dentro SanPa, proprio la droga è curiosamente assente. Non è strano che in 5 ore di documentario non venga mai interrogato uno psichiatra, o un qualsiasi esperto, che risponda ad alcune semplici domande di metodo sulla cura della tossicodipendenza? Se negli anni ottanta si poteva sentire Vincenzo Muccioli dire impunito che il loro metodo, per quanto brusco, salvava tante vite, possibile che gli unici interpellati oggi siano gli ex ospiti di San Patrignano? Appare fugacemente il direttore del Sert di Rimini solo per dire che erano da subito stati estromessi da Muccioli, e per il resto della serie echeggia la retorica sanpatrignanesca sul metadone “droga di Stato” o sull’inutilità degli psicofarmaci. Ma se uno dei temi doveva essere la droga, come sostiene Gabardini, è ben strano che non si trovi il tempo di entrare nei dettagli del problema, dato che nonostante dagli anni ottanta a oggi la ricerca farmacologica ha fatto passi da gigante, alla San Patrignano dei Moratti tutt’oggi i medicinali specifici non entrano perché il tossicodipendente “non viene considerato affetto da una ‘malattia’”.
Nonostante l’OMS consideri infatti la dipendenza patologica una malattia a tutti gli effetti, per San Patrignano ancora oggi guarire è tutta una questione di forza di volontà e “iniezioni di amore”. In questo senso è molto interessante leggere la recente intervista di Letizia Moratti, che fa di tutto per smarcarsi dalla figura ingombrante di Muccioli, pur rivendicando praticamente l’intero pacchetto (messe tra parentesi le botte) di San Patrignano. Siamo sicuri allora che San Patrignano e Muccioli siano così sovrapponibili, come ci mostra la serie? E siamo sicuri che il metodo fosse inscindibile da lui? Perché 25 anni dopo la sua morte, è tutto o quasi ancora intatto.
Se SanPa voleva essere un documentario e non una fiction, avrebbe potuto impiegare insomma un po’ del suo minutaggio a smontare davvero la retorica del “metodo”, attenendosi non al racconto dei processi, ma ai dati medici e statistici. Alla questione scientifica si accenna giusto nell’ultima puntata, ma è solo per dire che il mastodontico volume di Franco Angeli si basava su un campione fornito dalla comunità stesse, e quindi di valore scientifico nullo. Benissimo. Non era il caso di andare a cercare se si potevano ricavare altri dati?
No, perché SanPa non è un documentario, è un’opera di fiction costruita attraverso documenti originali e interviste. Non è fiction perché racconta il falso, ma perché non è interessata al lavoro documentaristico quanto alla costruzione di un racconto che, banalmente, avvinca e funzioni. Per cui il problema della droga diventa solo una variante tematica, e la comunità solo un caso specifico tra le comuni, una sette tra le sette più che un argomento vero di dibattito. Ma la cosa che è più agghiacciante, in realtà, è che nel fare questo SanPa ha tributato un ultimo incredibile omaggio alla figura di Vincenzo Muccioli, il “salvatore” di San Patrignano.
La frase di lancio della serie è infatti: “Quanto male sei disposto a fare, per fare del bene?”. Come mesmerizzati dallo sguardo di Muccioli, gli autori di SanPa hanno così per l’ennesima volta preso per buono il frame narrativo di San Patrignano, una falsa scelta tra mezzi malvagi e fini nobili. Per quanti “Sins” abbia commesso, accettiamo che comunque Muccioli sia stato un “Savior”. Ma se volevamo davvero spazzare via quell’orco dalla memoria d’Italia, si poteva sacrificare un po’ di fiction in nome di un po’ di documentario, e con l’aiuto di qualche esperto in più e qualche testimone in meno andare a scavare per vedere se San Patrignano, catene o no, ha davvero salvato tutte quelle vite che dice di aver salvato.
Che gli ex ospiti parlino comunque da sopravvissuti, grazie a Muccioli e San Patrignano e “nonostante Muccioli e San Patrignano”, come dice Fabio Cantelli sul finale, restituisce un quadro sottilmente ma drammaticamente falsato. Con tutte le ombre del caso, SanPa lascia che una luce continui ad accecarci. Perché se i sopravvissuti che hanno guadagnato in qualche modo una vita dopo la comunità sono chiamati a parlare e dire la loro, i morti non possono. Non i morti ammazzati o suicidi, quelli hanno i parenti a rivendicarli nella docufiction ma: i morti di droga. Di questo bias che inficia il campione ne ha approfittato forse non a caso il crociato Red Ronnie, lanciando una campagna che al grido di #SONOVIVOGRAZIEAVINCENZO pretende di raccogliere testimonianze di ex ospiti della comunità pronti a raccontare una verità diversa da quella di SanPa. Ma che tu odi o ami Muccioli, se nel 2020 puoi dire la tua è perché sei ancora vivo.
Di fronte a un certo numero di (più o meno) salvati, quanti sono stati i sommersi? Il metodo San Patrignano funzionava oppure no? La comunità riusciva a curare e reinserire oppure in molti casi ritardava solo il momento dell’overdose?
Dopo 5 ore di SanPa, ancora non l’abbiamo capito. Forse perché non parla davvero di droga, o della comunità di San Patrignano. Forse checché ne dica Google Trends o il senso comune, SanPa è solo una fiction appassionante sulla bizzarra setta che un uomo forte e spregiudicato aveva fondato nel 1978 su una collina vicino Rimini.
Mi sembra che la rappresentazione degli spettatori di SanPa sia piuttosto impietosa: le assicuro che c’è anche gente che riflette sulle cose, prima di prenderle per “buone” o “cattive” e non sono troppo sicura che gli schieramenti siano così stagni come li descrive.
Personalmente ho visto la serie consapevole di quel che è, del resto, ampiamente dichiarato ossia una docu-FICTION e, per il principio che le parole sono importanti (!), immagino che se hanno deciso di piazzarci un “fiction” dopo quel “docu” un motivo ci sarà (e come me l’hanno pensato in molti).
Dopo aver visto SanPa ho avuto degli scambi molto costruttivi sul ruolo della narrazione e sul ruolo della normatività e in nessuna delle discussioni che ho intrattenuto c’erano schieramenti pro e contro Muccioli, semplicemente perché non era utile, perché gli argomenti di cui si stava parlando erano altri.
Definire il “documentario” qualcosa assimilabile alla saggistica, che quindi deve attenersi alla realtà è una cosa superata di cent’anni. Il cinema è fatto di sguardi e di punti di vista e il documentario non fa eccezione. Una pietra miliare del cinema documentario, Nanook of the North, è prevalentemente messo in scena a partire dalla realtà. Quindi giudicare negativamente SanPa perché sceglie di costruire drammaturgicamente la sua storia(e come doveva farlo? Persino programmi televisivi d’inchiesta, speciali dei telegiornali, sono costruiti drammaturgicamente) significa fare un passo indietro e snaturare la forza del medium che si sta analizzando. Non si guarda un documentario per vedere la realtà (che poi, quale sarebbe la realtà?)ma per avere un punto di vista sulla realtà. Perché in fondo, il documentario è cinema a tutti gli effetti e fare la distinzione fra documentario e fiction non ha ormai alcun senso.