di Filippo Tuena
[Filippo Tuena ha appena ripubblicato per Il Saggiatore un nuova edizione del suo romanzo Ultimo parallelo (I ed 2007), in cui aggiunge al testo originale una corposa prefazione e, soprattutto, un’appendice contenente molti brani inediti appartenenti a varie fasi di lavorazione del romanzo. Oltre a essere documentazione del processo creativo, queste aggiunte in realtà hanno un fascino (e una bellezza) tutto autonomo, testimoniano di altre possibilità, altri percorsi, altre vite. Ne pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, una selezione tratta da una prima stesura di Ultimo parallelo che portava il titolo di Profezie per gli esploratori (gc)]
di Filippo Tuena
P. 12
Li ho visti arrivare in una giornata di gennaio.
Con circospezione la nave affrontò il pack
e ancorò poco distante dai luoghi ai quali
avevano dato nomi che non capisco
e che mi sembrano ridicoli.
Da allora bisbigliai ai loro orecchi
gli eventi che sarebbero accaduti.
Perché in queste terre
è l’infinito presente che domina
ogni avvenimento.
Non mi ascoltarono
o più probabilmente non seppero ascoltarmi.
E se avessero voluto riferire
una soltanto delle mie profezie
non penso che sarebbero stati creduti.
P. 22
Dei rumorosi trattori
uno lo feci sprofondare
appena sbarcato con grande fatica
e argani e cime inutilmente
molto resistenti.
Il pack s’incrinò e ora
è un relitto in fondo al mare.
Mare mi sembra d’aver detto, come se conoscessi bene questa
parola. Ricordo con grande precisione quel mostro precipitare
e ho chiarissima l’idea di che cosa significhi cadere in questo
mare gelido. Non so, ma credo di ricordare nel mio volo l’istante
dell’impatto con l’acqua e la perdita della solitudine e
infine il partecipare del tutto.
P. 27
Le mogli e le madri alle quali per due anni scriveranno lettere
che non potranno raggiungerle nella natia Inghilterra saranno
sostituite da questa divinità algida e ingannatrice, la divina
candida Antartide. Ma si tratterà di una divinità senza miti,
solitaria, che domina deserta da milioni di anni. Perché quali
leggende possono tramandarsi in una terra senza uomini senza
neppure la più piccola traccia di un genius loci ansioso di
ricevere gli esploratori non foss’altro che per rigettarli nel mare
dal quale provengono.
P. 34
Mi spaventano le loro intenzioni
e mi sfuggono i loro motivi.
Ne conto pochi, rispetto ai pinguini e alle foche,
ma temibili, determinati.
Scellerati, improvvidi, sguaiati.
Forse ho per loro
la parola adatta:
conquistatori.
P. 42
In un giorno di sole sono apparso
molto lontano ma quanto basta
perché notassero la mia presenza.
Cerco di nascondermi dietro i rottami
dei trattori e faccio affidamento
sulle forme distorte dei miraggi.
Ma occhi vigili possono notarmi.
Manderò nebbie fittissime
e sole accecante.
La mia montagna alle loro spalle
emette il suo dissenso
ma scambiano questi avvertimenti
minacciosi per fenomeni naturali.
Dipingono aurore boreali
e le imprevedibili luminescenze
create dall’inclinazione dei raggi
del sole sulla superficie ghiacciata.
Sembrano a volte viaggiatori
del Grand Tour anche se questa espressione
mi risulta di difficile comprensione.
Tengono diari, scrivono lettere e stranamente
viaggiano di notte e si rinchiudono
di giorno nelle tende aguzze che montano
con ammirevole destrezza. Allora, quando soltanto
i cani e i cavalli rimangono
esposti ai venti, tento sortite fulminee
e come un ladro furtivo
mi avvicino alle loro slitte.
Faccio dispetti: innervosisco i pony,
inquieto i cani. Creo maligni crepacci
che subito nascondo sotto un manto
di neve farinosa.
Durante la marcia successiva
gli esploratori vi cadranno sovente.
P. 61
Come fosse un torrente in piena, dicono.
E termini scientifici che sento ripetere spesso.
Così descrivono l’immensa lacrima
del ghiacciaio che continuamente
piango e che scende lungo
la strada che s’è formata
lungo il letto che s’è scavata.
Ne ho visti tre, salire una volta.
Adesso sono dodici. Mi sembrano troppi
anche se procedono in silenzio.
P. 72
Sono l’esperto norvegese degli sci, assoldato dal capitano Scott
e lasciato alla base di capo Evans forse perché norvegese, forse
perché troppo giovane. Ho insegnato agli inglesi quel che sapevo
e spero lo abbiano appreso ma è difficile convincere questi
uomini a fare affidamento sui miei attrezzi. La marcia si effettua
a piedi, ho sentito spesso ripetere, rinunciando a ogni aiuto
esterno. Ce la faremo comunque, dicevano.
Eppure questa notte, 15 dicembre, ho sognato che Amundsen
ha raggiunto il polo. Segno questa data sul mio diario. Ho
chiaramente visto i norvegesi raggiungere il polo, determinare
la posizione e piantare la bandiera nazionale in nome del
nostro re.
P. 87
Mi piace assistere alla caccia.
Tra le vittime predestinate
l’orca assassina sceglie la preda più debole,
la più vecchia. Osserva i malati nel branco
e al momento opportuno
ne assale uno
per farne pasto.
Ma non sempre mangia chi uccide.
P. 103
La musica del karusel del Polo è appena percettibile e credo rimandi a momenti lieti infantili. Piuttosto che valzer forse una polka o una di quelle musiche americane da banda o da circo che potrebbero aver ascoltato in Nuova Zelanda molti mesi prima e in momenti felici di eccitazione e attesa irreprimibile magari mentre la Terra Nova salpava e sulla banchina la banda festeggiava i partenti e i fazzoletti sventolavano.
Su quelle musiche festose ma in quella terribile immobilità all’interno della tenda potrebbe esser balenata come un mal di capo o un vago movimento della tenda che ruota lentamente attorno al polo una vaga reminiscenza e qualcuno avrebbe persino potuto domandarsi ma questo che sto vivendo è un sogno?
P. 106
Non credo che nessun esploratore o gruppo di esploratori si sia mai trovato tanto solo, tanto lontano da ogni forma di vita, di calore umano, di civiltà quanto gli esploratori dell’Antartide. La separazione del continente da altre propaggini di terra, il suo essere totalmente disabitato e completamente inospitale amplifica il senso di solitudine selvaggia e straziante che attanaglia chi lo percorre. Si potrebbe paragonare l’Antartide a un luogo della nostra anima o meglio della nostra psiche che genera timore e che per tale motivo non viene mai avvicinato. Un enorme anfratto nero o privo di colore, di cui percepiamo la presenza ma che raramente esploriamo. Sia esso un rimorso per azioni compiute in tempi remoti o una paura costante e ricacciata nel più nascosto angolo della nostra psiche, esso appare come terra selvatica, impercorribile.
P. 107
Dunque questo è un racconto su pagine scritte. C’è una volontà nel perpetrare la memoria di quel viaggio che si espande con la medesima forza che ebbero gli uomini del Southern Party mentre trascinavano la slitta sulla via del ritorno.
Ma il nocciolo della questione, nella tragedia della spedizione Scott, va ricercato proprio nel suo lampante destino fallimentare. Storici di cultura anglosassone hanno più volte ripetuto che l’impresa non fu vanificata dall’essere arrivati secondi al polo; hanno affermato che i dati scientifici raccolti nei due anni di permanenza al circolo polare antartico hanno rappresentato un lascito fondamentale per la cultura scientifica del xx secolo. Forse è proprio così: la spedizione Scott rappresentò un notevole passo avanti nella conoscenza dell’Antartide. Ma un narratore, se così fosse, non se ne sarebbe interessato; che cosa possono importare a lui questioni apparentemente di lana caprina sulla riproduzione dei pinguini imperatore; o sulle correnti marine o sull’esasperante lentezza con cui la grande barriera si forma e si disperde nelle acque del mare artico? Si chiederà piuttosto come sia stato possibile sopravvivere nella tenda per cinque giorni non avendo combustibile e cibo mentre fuori imperversava l’inaspettata e ferocissima tempesta antartica. E quali immagini saranno loro apparse in quell’inazione che congelava i corpi intabarrati dai sacchi a pelo gelati, pesantissimi, quasi fossero scatole funebri in anticipo sull’evento della morte. Lo sguardo folle di Evans, caduto bocconi sulla neve del ghiacciaio, con le mani nude e il naso congelato e la mente sconvolta sarà tornato all’interno della tenda a 17 chilometri dal One Ton Camp? E le parole di Oates, I’m just going outside and maybe some time, avranno risuonato in quel piccolo spazio sferzato dai venti? Ed è possibile misurare quel tempo indeterminato – some time – o, essendo effettivamente indeterminato, sfuggirà sempre a ogni analisi, a ogni tentativo di ricondurlo all’apparente ordine delle parole scritte?
Dunque si chiederà, quando tornerà Oates? Poiché è certo un percorso di ritorno e non c’è tempesta o blizzard o tormenta polare a impedirlo. Lo scriverne è un ritorno. Il problema sarà essere lì nel momento del ritorno, quando inaspettatamente l’apertura della tenda si muoverà e non sarà per il vento che fuori imperversa. No, sarà perché l’esploratore solitario ha stabilito il tempo del ritorno, il peso della solitudine avrà avuto la meglio, le cose da vedere saranno state sufficienti, la nostalgia lo trascinerà via e immaginerà come nuova meta un tepore improbabile al quale vorrà avvicinarsi e lo identificherà anche all’interno di quel rifugio fragilissimo e sterile.
E quale ruolo avrà avuto in questa storia quella copia dell’Inferno dantesco che gli esploratori si passavano, avendo terminato di leggere un altro libro. E potrà mai essere stata terminata qualsiasi lettura dell’Inferno dantesco? E ogni libro potrà mai essere terminato di leggere o di scrivere? E ogni esplorazione potrà mai davvero dirsi conclusa? L’esperienza mi porta a dire che sia che si indaghi nell’infinito come nell’infinitesimale; nel passato come nel futuro, il gesto rimarrà sterile. Qualunque indagine rappresenterà sempre un fallimento; al massimo un avvicinamento ulteriore rispetto alle precedenti esperienze personali o di chi ha percorso il medesimo tratto di strada.
La scrittura, come la lettura è terra vasta, inesplorabile, indeterminabile.
P. 110
Rimane il percorso a ritroso, la via di casa, la strada del ritorno costellata dai cumuli di neve ghiacciata che erano stati eretti per renderla più facile, diretta, sicura. Rimangono le ore di smarrimento lungo il Beardmore, i suoi crepacci imprevedibili e mutevoli, il senso di cecità di Wilson, vittima di oftalmia; le visioni irreali, i miraggi che lasciavano intendere la presenza di altri uomini che procedevano a testa in giù nella distesa della barriera. E quell’apparente disordine dei percorsi delle squadre di soccorso, cariche di provviste e medicamenti inutili, in cerca del gruppo di Scott o forse in cerca d’altro, una ragione che rendesse quell’affannarsi risolutivo.
A volte ho la sensazione di vagare lungo una distesa sconfinata, freddissima e ostile anche quando scrivo un libro. Non dico che mi piacerebbe raggiungere Scott e i compagni prima della loro fine e sostituirmi alla storia e agli eventi. Non ho questa pretesa anche se più passa il tempo e più, in maniera molto confusa, afferro qualcosa come una possibilità che il tempo non proceda in maniera rettilinea e che il passato ancora ci appartenga.
Non so, mi sarebbe piaciuto almeno salutarli alla partenza, sollevare il berretto di lana, persino invidiarli per quel viaggio coraggioso che hanno intrapreso e che a me non è dato ripercorrere, se non nell’unica maniera imperfetta che so competermi.
P. 112
Mi dissero farewell prima di partire,
rispondendo al mio goodbye
e sulla barriera sono rimasto –
adesso ricordo –
mentre la nave partiva.
Mi lasciarono padrone dei ghiacci
non credevo tornassero
così presto. Appena un battito di ciglia,
un sospiro, un attimo di noia.
Può sembrare una questione irrilevante o, nel contesto letterario del momento, del tutto superata (e quindi mal posta), ma come lettrice di poesia vorrei capire la necessità degli “a capo” in questi testi.
Per es., se rileggiamo il testo p.12 così:
“Li ho visti arrivare in una giornata di gennaio.
Con circospezione la nave affrontò il pack e ancorò poco distante dai luoghi ai quali avevano dato nomi che non capisco e che mi sembrano ridicoli. Da allora bisbigliai ai loro orecchi gli eventi che sarebbero accaduti. Perché in queste terre è l’infinito presente che domina ogni avvenimento.
Non mi ascoltarono, o più probabilmente non seppero ascoltarmi. E se avessero voluto riferire una soltanto delle mie profezie, non penso che sarebbero stati creduti.”
Cambia così tanto? Vi sembrano davvero necessari gli “a capo” del testo di partenza? Per esempio, l’ “a capo” tra vv. 3 e 4: perché dare rilevanza a “ai quali” a fine verso? Non sento, in questi “a capo”, respirare il verso, o la musicalità (o anche, volendo, la dissonanza): mi sembrano casuali pause senza motivo. Ancora di più è evidente per testi come quello di p.27.
Ciò, tra l’altro, non cambia la natura poetico-evocativa del testo (evidente in espressioni come “in queste terre è l’infinito presente che domina ogni avvenimento”), che a me piace; solo che prosa o verso non sembrano avere una loro necessità e quindi perché l’una o l’altro? Qual è l’intenzione? Sconfinare? Confondere? Mettere in discussione la differenza prosa/poesia? Ce n’è bisogno? Mi piacerebbe sentire un’opinione diversa.
Rispondo come autore. In linea di massima non faccio grande differenza da un testo giustificato e uno che va a capo. Sono dell’opinione di Borges secondo cui prosa e poesia non siano molto diverse salvo che quando si va a capo il lettore, come giustamente si chiede Debora, si pone delle domande.
Lo scopo è esattamente questo, mettere il lettore in condizione di allerta.
Aggiungerei, come spiegazione prima che gran parte di questi brani sono detti o pensati dal narratore che, se Debora non ha letto il libro, non risolve la questione. Forse ci riesco se spiego che il narratore è un fantasma.
La seconda spiegazione è che scrivo usando pochissima punteggiatura e molte volte l’andare a capo aiuta il lettore nella lettura.
In pià aggiungo che questi testi sono stati trascritti così com’erano nella prima versione del libro, in qualche caso semplicemente per fermare un’idea.
Però adesso chiedo io a Debora, che vuol dire essere lettrice di poesia? Basta essere lettori, non andrei a specificare. Poi tutti noi leggiamo volentieri un libro di Ritsos o di Pound o di Larkin, (proprio qui in questo blog se digita Tuena troverà delle mie traduzioni da Keats in prosa, o da Larkin o da Shakespeare questo per farle capire che amo mischiare i generi il più possibile.
Spero d’esser stato esauriente