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di Tommaso Giartosio

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. La prima parte dell’intervento di Tommaso Giartosio è uscita il 22 marzo 2012. La seconda parte, pubblicata il 29 marzo, si può leggere qui].

I.

Nel nostro Paese storicamente così frammentato la letteratura ha svolto per secoli un ruolo politico che forse non ha paragoni in Europa, di simbolo e testimone primario di un’identità fantasma. La storia letteraria è stata a lungo la nostra epica nazionale. I Promessi sposi sono un’articolazione cruciale di questa italianissima concezione politico-letteraria della tradizione. Se la lingua nazionale fonda la legittimità dello stato-nazione, quest’opera traccia appunto un modello linguistico deliberatamente esemplare, un protocollo per la lingua dell’Italia unita. Se la letteratura conferisce a una nazione pari dignità nel consesso delle altre, questo romanzo vuole appunto riportare la letteratura italiana nell’alveo delle letterature moderne, e in particolare del grande romanzo europeo. Si tratta insomma di un progetto letterario che si inserisce pienamente nel Risorgimento (benché certo non si esaurisca in esso), come un proclama o una costituzione.

Risorgimentale è anche la scelta di proporre il Seicento come archeologia della Restaurazione. Ma mentre i romanzi storici di D’Azeglio o Guerrazzi avevano anche un contenuto distintamente storico-politico (collocato nel passato ma anche, per allusione, nel presente ottocentesco), I promessi sposi raccontano una vicenda minima che solo per caso incrocia la Storia. Eppure questo matrimonio ostacolato e poi trionfante, questa riproduzione ottenuta a caro prezzo, sono profondamente storico-politici – non tanto nell’ottica della microstoria, quanto proprio nella prospettiva dell’unificazione e dell’indipendenza. Pongono infatti all’ordine del giorno la necessità di una “vita buona” che dia “buone nascite” su cui fondare una “buona nazione”. Non a caso il romanzo tematizza, dell’eros, solo il versante istituzionale, il matrimonio: un apparente formalismo praticato (l’osservazione è di Arbasino) addirittura da Don Rodrigo, che si ingarbuglia a sventare le nozze mentre potrebbe semplicemente far rapire Lucia, sposata o meno.[1] Ma questa jouissance libertina, eludendo la questione delle fondamenta sociali, farebbe dei Promessi sposi un romanzo gotico e non patriottico. Insomma, a essere “politica” negli Sposi non è solo l’ambientazione storico-sociale, ma soprattutto la vicenda privata: un tema biopolitico che va riferito al cattolicesimo di Manzoni. È proprio quando nasce la Patria che occorre puntare i riflettori sulla Famiglia.[2]

Del resto il tema della famiglia fa da filo conduttore di tutta la narrativa italiana dell’Ottocento. Le tappe iniziali, fortemente critiche verso il progetto famigliare, sono la Vita di Vittorio Alfieri (fuga dall’oppressione domestica, vagabondaggi solitari, infine costruzione di un sodalizio amoroso che non ha nulla del “nido”) e le Ultime lettere di Jacopo Ortis (dove al ramingo protagonista si contrappone la famiglia di Teresa e Odoardo, viziata fin dalla sua origine, e non c’è neppure il lieto fine di un legame anticonvenzionale). Anche Leopardi, Nievo, Tommaseo si situano in vario modo entro questa prospettiva romantica che ridimensiona la sovrapposizione (di matrice borghese) tra eros, famiglia e procreazione. Al capo opposto, a fine secolo – non a caso dopo l’unificazione, cioè con la creazione di una casa comune – la famiglia è invece divenuta un nucleo indiscutibile, che si tratti di un luogo di rivalità (Mastro-Don Gesualdo, I Vicerè, L’eredità Ferramonti) o di un rifugio fragile ma prezioso (I Malavoglia, Cuore, Myricae), o di entrambi (Piccolo mondo antico). Ho certo tralasciato testi potentemente eccentrici, in primo luogo Pinocchio; ma entro questo arco storico il romanzo manzoniano sembra davvero essere il punto in cui si completa e si legittima l’affermazione della “famiglia coniugale intima”, caratterizzata da una struttura nucleare e da un diminuito potere patriarcale, e borghese nello spirito se non sempre nella realtà (fu abbracciata anche da molti nobili).[3] Del resto il conte Manzoni denuncia (negli Sposi e, con forza ancora maggiore, nel Conte di Carmagnola e nell’Adelchi) la famiglia aristocratica come groviglio di colpa e oppressione, spazio deformato in cui il matrimonio non è frutto di un patto eterosessuale ma di un accordo omosociale tra stirpi patriarcali, proprio come nei romanzi analizzati da Eve Kosofsky Sedgwick in Between Men.[4] L’analisi che qui propongo è basata proprio sul pensiero queer di Sedgwick, cioè comporta una riflessione su caratteri, trasformazioni, instabilità e paradossi dell’identità sessuale (l’orientamento sessuale) e di genere nei Promessi sposi.

La costruzione del rifugio famigliare è il polo verso cui si orienta, di dilazione in dilazione, la trama stessa degli Sposi. La rinnovata unione dei fidanzati è l’obiettivo finale costantemente differito. Potrebbe essere almeno oggetto di sogni, desideri, rimpianti, scambi epistolari, ma come è noto Manzoni ne è molto parco: una celebre digressione del Fermo e Lucia osserva che «non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione» (172). Nei Promessi sposi non si parla dunque di promessi sposi, ma d’altro. Dopo l’impostazione della vicenda nei primi capitoli “borghigiani”, i fidanzati sono costretti a dividersi: le loro peripezie costituiranno l’ossatura stessa del romanzo. Per cominciare, la cosa migliore è che Lucia vada in un convento di suore, Renzo in un monastero di frati. Soluzioni provvisorie, giacché il cosmo manzoniano non prevede alcun luogo che possa davvero surrogare il Focolare eterosessuale: neppure la casa di Dio può farlo.[5] Ma con il procedere dell’intreccio una prospettiva separatista (gender-separative) colloca i due in sempre nuovi spazi di segregazione di genere, maschi con maschi, femmine con femmine (con alcune variazioni che vedremo di volta in volta). Finchè non ne escono, i promessi non potranno riunirsi. Del resto la denuncia dell’omosocialità come minaccia è esplicitata fin dal primo capitolo: «Era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva» (22): gli esempi successivi chiariscono che si tratta quasi sempre di gruppi omosociali, perlopiù maschili. Questi gruppi chiusi sono la traccia di un vizio profondo della società del tempo.

Dunque i Promessi sposi sono fondamentalmente la storia di una diade eterosessuale che, proprio quando sta per formarsi, viene scissa e respinta entro spazi omosociali che costituiscono il principale ostacolo – e il principale incentivo narrativo – al lieto fine nuziale. Ora, questi spazi sono almeno potenzialmente omosessuali. E di fatto sono fortemente metonimizzati in tal senso. (Non a caso si tratta dei capitoli in cui Manzoni più si avvicina al romanzo gotico, sempre produttivo di increspature dell’identità.) Nel convento di Monza, per cominciare, Gertrude ha «giochi […] sregolati» e «discorsi» arrischiati con le sue novizie (210); fa arrossire Lucia, ha «una certa inclinazione» per lei (214); le dispiace il suo pudore, considera perderla «una sventura», e spesso la tiene con sé nel suo parlatorio privato e la accarezza, mentre Lucia la contraccambia «con tenerezza crescente» (383). Quanto a Renzo, su cui tornerò tra poco, è vero che di fatto finisce per non trovare alloggio nel monastero, ma in compenso si trova coinvolto in una serie di contesti omosociali maschili del tutto analoghi.

Ma prima di procedere, affrontiamo alcune possibili obiezioni. Si potrebbe pensare che la segregazione di genere negli Sposi sia un semplice riflesso del puritanesimo del primo Ottocento, e forse più specificamente della venatura calvinista manzoniana. Normale sessuofobia, insomma. Però la “normale” sessuofobia non dovrebbe essere solo eterofoba, ma anche – o prima di tutto – omofoba. È dunque “normale” che essa esponga e denunci, magari proprio in modo velato, l’omosessualità. Tuttavia, chiariamo: non intendo dire che in realtà vi siano rapporti omosessuali tra Gertrude e le monache o tra Gertrude e Lucia. La realtà di un romanzo è solo ciò che c’è sulla pagina. In questo caso, una serie di elementi semantici (e altri ne vedremo) solamente ambivalenti, ma realmente ambivalenti, che potevano non esserci e invece ci sono. E’ possibile che la Gertrude attratta da Lucia viva un’attrazione puramente morale per l’innocenza perduta: ma il romanzo si guarda bene dal confermare esplicitamente questa lettura. Lascia aperta  la porta a altre interpretazioni. Un’opera letteraria comunica non solo trasmettendo significati “in chiaro”, limpidi e deliberati, ma anche ottenendo effetti di senso che possono trarre la loro efficacia proprio dalla loro indeterminatezza (e la questione dell’intenzionalità di tali effetti è irrilevante ai fini della loro presenza ed efficacia).

Ma perché questa ambivalenza? Per capirlo, pensiamo invece al legame eterosessuale proibito tra Gertrude e Egidio, e al conseguente assassinio della conversa. Qui abbiamo a che fare con colpe designate dal narratore mediante perifrasi e allusioni (come il famoso «La sventurata rispose», 210) che rimpiazzano una trattazione ben più analitica nella prima stesura “gotica”, Fermo e Lucia. Colpe non dette, dunque: eppure perfettamente riconoscibili alla prima lettura. L’omosessualità invece opera su un livello puramente connotativo, sfugge allo sguardo diretto. Non solo non può venire detta: non può neppure venire suggerita in modo trasparente: è il vizio infando, su di essa pesa un tabù più grave di quello che marchia le altre trasgressioni. Il narratore stesso (non sto parlando dell’autore) deve esserne all’oscuro. Eppure la colpa deve trapelare, come in effetti trapela.[6] Essa deve riverberare sottotraccia, perché nella tabe omosessuale l’omosocialità rivela la sua spaventosa deriva etica, il suo fare da sfondo a ingiustizie e violenze, il suo opporsi non solo (empiricamente) al matrimonio dei promessi ma più in generale a quella valorizzazione del rapporto tra i due generi che costituisce, come via via vedremo, l’architettura etica del romanzo. Ma deve agire sottotraccia, non solo e non tanto per ragioni di decenza (già disattese in un precedente illustre e molto più esplicito come La Réligieuse di Diderot), quanto per non ridurre la critica dell’omosocialità (che fa corpo con un pensiero etico-sociale di vasta portata) al suo corollario estremo, al suo troppo specifico e troppo sulfureo caso-limite: l’omosessualità. Ciò che voglio dire non è dunque che negli Sposiin realtà si parli di omosessualità” – non credo che ci sia una verità nascosta del testo da rivelare, un paragramma saussuriano – ma che sessuofobia, omosocialità e spauracchio omosessuale vi si manifestano come un unico discorso, che in queste pagine cercherò di ricostruire.[7]

Di qui un paradosso già messo in evidenza da Pasolini, che sugli Sposi ha scritto una frase davvero degna di comparire in Between Men di Sedgwick: «Una volta privilegiato e messo sull’altare il rapporto d’amore uomo-donna, tutti i rapporti che formano l’intreccio del libro sono caratterizzati da una strana intensità (fraternità o odio) omoerotica.»[8] Purché non si parli di omosessualità, l’omoerotismo può manifestarsi con una carica emotiva negata al rapporto eterosessuale. Oltre ai brani citati più sopra (la «tenerezza crescente», per esempio) si può ricordare il rapporto fantasmatico di Gertrude con la conversa assassinata, che ha una carica libidinale infinitamente maggiore di quello con il seduttore e complice: «Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva muoversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale,» ecc. (212). È un procedimento tipico dell’ottica degli Sposi:l’eros eterosessuale deve esistere, sulla pagina, come fatto, ma non come aura: è il cuore del libro, ma il cuore non si vede; l’eros omosessuale al contrario non può esistere fattualmente, ma deve venire almeno evocato come sintomo, trasgressione, minaccia. Così va il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimonono.

II.

Riprendiamo dunque a seguire la trama, e in particolare le vicende di Lucia da quando viene rapita dai bravi. Il castello dell’Innominato è un altro contesto fortemente omosociale: c’è solo una vecchia (che del resto inviterà la ragazza a condividere il suo letto), e a parte lei tutta una santabarbara di materiali virili: schioppi, sgherri, manigoldi, ragazzacci allevati alle forche. Per Lucia non si tratta ovviamente di una svolta eterosociale, ma di un’omosocialità opposta e parallela a quella del convento, una compattezza che la isola e opprime. Eppure Lucia, con la sua aria da «madonnina infilzata», è di fatto l’unica donna del romanzo che non sia costretta in un ruolo di madre o vecchia o bimba o suora, cioè l’unica pedina libera sullo scacchiere della libido; e quella santabarbara lei la farà provvidenzialmente saltare in aria. Ma si potrebbe anche riutilizzare la principale metafora ossessiva del romanzo, il contagio, visto che Lucia innesca la conversione del villain in persona, vissuta come una contaminazione di genere: «Non son più uomo!», va ripetendo l’Innominato (406). È una femminilizzazione del maschio che ci viene proposta come elemento di civiltà, principio spirituale che si oppone alla fisicità del legame omosociale-omosessuale: l’Innominato si rivoltola nel letto, immagina il proprio cadavere, in un inedito narcisismo della ripugnanza; oppure ripensa con disgusto ai suoi uomini – «l’idea di ritrovarli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio» (406-407); negli Sposi il nesso tra omosocialità/omosessualità e materialità corporea è strettissimo, siamo al polo opposto rispetto all’omoerotismo spirituale di Michelangelo o Stefan George. Quel “Non son più uomo” esprime dunque anche un segreto sollievo – nel mondo e nella logica dell’Innominato, l’omosessualità è proprio “essere (troppo) uomo” (come i bravi), mentre venire contagiati da Lucia è la salvezza, un transgenderismo legittimato dalla dòxa. Il femminile fa ponte tra la rinuncia alla virilità “cattiva” e l’acquisizione della virilità “buona” (cioè la presa in carico di un potere-responsabilità moderato e paterno). Proprio quando teme di essere ormai una femminuccia il converso diventa davvero “uomo”, perché segretamente “donna”. Il suo modello, in fondo, è il sacerdote: la cui gonna, esprimendo simbolicamente l’assunzione maschile del femminile, cela e riscatta la natura omogeneamente maschile dell’istituzione, ed esalta la virile mitezza della Chiesa.

Purtroppo però a questa parziale transizione MtF dell’Innominato fa da contraltare il voto di castità di Lucia. Il voto è una variazione sul tema della falsa vocazione religiosa già sviluppato in Gertrude, in Abbondio, in una ragazza sottratta al monastero dal Cardinal Federigo: una vocazione che comporta la rinuncia alla relazione eterosessuale, cioè, nell’ottica degli Sposi, all’unica reale relazione con l’altro da sé: al cardine etico del romanzo.[9] In teoria la Chiesa costituirebbe una formidabile smentita di questo assunto. Ma la Chiesa amata da Manzoni – a partire dalla stessa figura di Federigo, con la sua vita piena «d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti» (422), con il suo legame filiale con il cugino Carlo Borromeo e paterno con i ragazzi della plebe e con l’Innominato e naturalmente con la ragazza che dicevamo, a cui appunto offre di tasca sua la dote – questa Chiesa è profondamente “sposata al mondo”. Non a caso, in quell’antitesi di una falsa vocazione che è la chiamata incidentale e inattesa ma autentica di Lodovico (alias Fra Cristoforo), uno dei primi gesti del convertito è di assumere il nome dell’uomo che ha ucciso, nonché l’onere economico di mantenerne la moglie e i figli. Il sacerdote esemplare è quello che non si isola omosocialmente dal mondo laico, anzi vi “mette su famiglia”. E sarà proprio Fra Cristoforo a spiegare a fine romanzo che il voto di Lucia è un errore, sia pure commesso a fin di bene. Lucia sbaglia a scegliere la purezza. L’apartheid sessuale, virtuoso o vizioso che sia, è una soluzione azzardata, inquietante, che nel migliore dei casi va bene per pochi; è meglio invece scendere nel “mondo”, compiere il gestoeterosessuale, accettare la sfida del contagio.[10]

La più maestosa messa in scena di questa morale arriva poco dopo la liberazione di Lucia, ed è ovviamente la peste. Certo, con il diffondersi del morbo tutti devono isolarsi per salvare la pelle, ma Manzoni ci mostra soprattutto scene di separazione tra maschi e femmine. La prima caccia agli untori scatta quando qualcuno strofina l’assito che separa i due sessi nel duomo di Milano. Dopo questo peccato originale, ben presto le famiglie si spezzano. Spadroneggiano gang maschili di sciacalli e monatti. Le donne respingono e minacciano, gridano all’untore (maschio), si sbarrano in casa per paura di furti e stupri. Si azzardano a uscire solo avvolte nel sudario dell’estremo legame tra donne, quello tra una madre e una figlia (Cecilia), o ricorrendo (come Agnese a Pasturo) a elaborati rituali di evitazione se devono interagire con un uomo. L’epidemia segna il momento estremo, infernale, della segregazione dei generi. Come richiesto dalla più classica delle strutture narrative, ma anche dall’architettura separatista degli Sposi, quest’ultimo ostacolo alla ricongiunzione della coppia primaria è allestito senza risparmio di mezzi.

Ripercorriamo ora la vicenda di Renzo, iniziando con un bel passo indietro. Renzo ha avuto fin dalla sua prima comparsa nel romanzo una «cert’aria […] di braveria» (34). Azzeccagarbugli poi lo prende per un bravo. Più tardi, in quanto bravo verrà ricercato dalla giustizia. Qui è necessario ricordare la valenza gay della sottocultura dei bravi – e, in parte, dei loro capibastone aristocratici – così come descritta da Manzoni (una cosa un po’ alla Scorpio Rising, il film sperimentale del ’64 di Kenneth Anger). Sono connotazioni del tutto evidenti, dall’insistita virilità al “ciuffo” fallico, dall’uso di pseudonimi al nome taciuto dell’Innominato, dall’intima solidarietà maschile alla modalità ricorrente del tradimento, dalla sostanziale assenza di donne nei loro covi al misto di paura e avversione per il genere femminile. E va ricordato che già il cinquecentesco Sonetto delli bravi di Francesco Berni, che (insieme a qualche pagina del Baldus e del Pentamerone) è il più illustre precedente letterario che tematizzi queste figure, è tutto giocato sulla loro nomea di sodomiti.[11] Lo stesso Don Rodrigo, del resto, vuole Lucia solo in funzione di un legame maschile, la scommessa con suo cugino Attilio. L’omosocialità dei bravi è una forma volgare dell’analogo pattern proposto dai gentiluomini, centrato sul duello, così come quella delle monache riproduce in forma ingenua quella di Gertrude. In entrambi i casi, bersaglio di Manzoni è il mondo arrogante e autoriferito dell’aristocrazia, che (per un trickle-down etico?) si replica e insinua in analoghi mondi chiusi nei ceti più bassi. L’ombra dell’omosessualità è l’indice, la traccia di questa corruzione. Non a caso nell’universo degli Sposi il frisson omoerotico si attiva soprattutto in presenza di questo differenziale gerarchico: Don Rodrigo/il Griso, l’Innominato/i suoi bravi, Renzo/Ferrer, Gertrude/le suore, Gertrude/Lucia.[12]

Questi significati sottesi al mondo dei bravi e dei loro capi si possono cogliere nell’episodio in cui Don Rodrigo si scopre appestato e contagia il Griso. È un buon esempio: mostra come il sottotesto omoerotico non costituisca il significato primario del testo (nella fabula, Rodrigo e il Griso non sono amanti), ma agisca lungo le nervature delle valenze secondarie (Rodrigo e il Griso sono in un certo senso amanti infernali), e solo in questa dimensione possa liberare appieno la sua vitalità semantica. Oggi l’episodio sembra una scena da Aids (la “peste gay”): anacronismo prezioso se serve a mettere in evidenza uno dei sensi di queste pagine. Diciamo intanto che qui – a complicare il tema manzoniano del contagio – incontriamo non la contaminazione come esposizione all’altro, scelta vitale e positiva, ma la pandemia come conferma del medesimo. Attilio è colpito dalla peste; Rodrigo ride di lui; Rodrigo è colpito; il Griso ride di lui; il Griso è colpito e portato al lazzaretto «dov’era stato portato il suo padrone» (632); i compagni (il Biondino? il Carlotto?) lo abbandonano, dunque sappiamo già a chi toccherà ora… È l’eterno ritorno dell’identico, l’impossibilità che una vera luce o perlomeno un vero buio (viene in mente, per contrasto, l’Innominato) spezzino la nebbia compatta di questa malvagità mediocremente ricorsiva, questa zona grigia la cui verità ultima è il «fedel Griso» (625). Contagio e tradimento – il trasmettere e il consegnare – sono analoghe concatenazioni di un tessuto omosociale soffocante. Tutti questi maschi conniventi non sono legati da un’autentica fedeltà (come invece quegli uomini dell’Innominato che dopo la sua conversione decidono liberamente di restare con lui). Il loro patto, fondato solo sulla forza, contempla il tradimento come propria verità: tradire non è scioglierlo, ma ribadirlo: a ogni maglia che salta, la catena si stringe. A sottolineare questa dinamica paradossale interviene il contagio, puntualmente successivo al tradimento – come un rima ripresa nella strofa dopo, come una clausola segreta: il contagio, che non significa solo il tradimento ma anche e soprattutto la continuità del legame oltre e attraverso il tradimento. Così come, d’altra parte, il tradimento anticipa e rivela il contagio.

La corruzione omosociale trova dunque nella malattia un intimo corrispettivo fisico. L’atmosfera onirica dell’episodio potenzia questo sdoppiamento, in una sorta di materializzazione visionaria. E allora non è strano che la corporeità malata abbia più dimensioni, un più ampio gioco di significati che teatralizza l’omosessualità come radicalizzazione patologica dell’omosocialità. La liturgia viene allestita proprio attorno a un letto, tra le schegge di un incontro gay clandestino, o della sua versione omofobica.

Prima, la serata di ebbrezza in cui un pensiero ossessivo si ficca in tutti i discorsi; il rientro a due; la penombra. Poi il sogno. Rodrigo si trova assediato da una folla di appestati, lotta «per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte» (627): cerca di staccarsene (come si è dissociato da Attilio), ma è inutile, gli stanno ancora «più addosso» e tra loro «qualcheduno», con il gomito «o altro», gli preme contro in modo «pesante». È una versione estrema della «fantasia» (405) dell’Innominato, a cui i corpi dell’orda di bravi trasmettevano «un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio»: lo stesso orgasmo di desiderio mutato in incubo dall’omofobia interiorizzata. Ma nel sogno quel gomito fa corpo con tutta una coreografia fallica di mani alzate e braccia tese legata al ricordo del primo incontro con Fra Cristoforo, che nel cap. VI si era icasticamente eretto contro Rodrigo. Così si condensano le due immagini decisive, il frate «ritto» e la spada «andata in su», che culminano rispettivamente con «un non so che di convesso, liscio e luccicante» (la pelata) e un «pomo» che preme «in quel posto» («a sinistra, tra il cuore e l’ascella», nella cavità di una passione infausta). A quest’ultima coppia si allinea, dopo il risveglio, il «bubbone d’un livido paonazzo» (628): il duello tra virilità cattiva e virilità buona si conclude con lo svelarsi di questo glande patologicamente turgido, teso alla morte.[13] Al risveglio, il gioco è scoperto e può riprendere la scena della seduzione. Ecco allora, prima, l’improvvisa e fittizia sospensione delle gerarchie; la falsa intimità (la formula «insolita» di Rodrigo al Griso, «Fammi un piacere»); la recitata fiducia («Sei sempre stato il mio fido», «Di te mi posso fidare», «Non voglio fidarmi d’altri che di te», 629); l’accordo per una transazione proibita («Fa la cosa bene, che nessun se n’avveda»); la richiesta di soddisfare un desiderio fisico («Mi sento un’arsione, che non ne posso più»). Poi, il silenzio del Griso, il distogliere lo sguardo, e intanto l’allungare le mani, la «furia» irresistibile e mortale di frugare avidamente nei «panni del padrone» (632). Tra questo prima e questo poi, c’è l’essenza di un legame simile: che nella fabula di questo episodio degli Sposi non è certo un cedimento amoroso, ma l’antico capo d’accusa dell’omosessualità, dal Satyricon a Genet: il tradimento.

Torniamo ora a Renzo. Ben oltre l’identificazione con i bravi, è tutto intero il suo percorso a snodarsi alla luce di questa potenziale deriva verso contesti maschili omosociali e violenti. La segregazione di genere, Renzo se la porta dietro e dentro.[14] Ciò vale per i tumulti milanesi, dove la devozione verso il capo si veste di linguaggio erotico (Renzo «vagheggia» il gran cancelliere Ferrer, ne è «invaghito», 263). Vale per gli incontri nelle osterie, che sono sempre luoghi di convergenza maschile, nonché di eccesso, minaccia, anonimato, intimità: per esempio il rapporto con l’oste della Luna nuova è articolato su una serie di immagini e situazioni fortemente omoerotiche (Renzo cerca di baciare l’oste, poi di accarezzarlo, gli chiede di venire spogliato e l’altro esegue; infine c’è una lunga similitudine mitologica che paragona i due a – tra tutti gli dei pagani – Amore e Psiche). Vale per il suo progetto di farsi soldato, e più tardi per la scelta di unirsi ai monatti.[15] Anche quando li lascia per cercare la sua donna, Renzo non ha del tutto abdicato all’investimento che più lo lega al maschile: «Se non la trovo, vedrò di trovare qualchedun altro» (683), afferma; «il suo cuore» è «diviso tra Lucia e Don Rodrigo» (689). Queste identificazioni seriali di Renzo con le varie forme di “braverìa” mostrano che Lucia non aveva poi torto nel postulare, barattando la castità con la salvezza, un’analogia formale tra il subire le violenze del villain e l’andare a nozze con l’eroe: come se ogni matrimonio fosse in fondo uno stupro. Che è poi un corollario della già citata tesi lévi-straussiana, rielaborata da Gayle Rubin e Eve Sedgwick, secondo cui l’istituto matrimoniale è un patto tra uomini (suocero-genero, zio-genero, consuoceri, cognati) in cui le donne sono solo oggetto di scambio…[16] Ma intanto Lucia, per stare sul sicuro, si è spinta ancora più in là di Renzo nella deriva omosociale. Ha incontrato una mercantessa con cui intende andare a convivere per il resto dei suoi giorni, in una sorta di maternage. Come darle torto? Come chiederle indulgenza nei confronti del maschile, in un romanzo che ha fatto tanto per dimostrare la superiorità etica del femminile?

Sappiamo come va a finire. La Chiesa (Fra Cristoforo) consente l’incontro tra i due (anche il lazzaretto è diviso in due sezioni per sesso) solo dopo aver accertato che Renzo abbia rinunciato a Don Rodrigo. Renzo entra nell’area femminile travestito da monatto, ma trova Lucia soloquando si scioglie, letteralmente, dal legame omosociale:  sente la sua voce sente la sua voce quando si china a slacciarsi il campanello dalla caviglia – «si diede della bestia d’aver pensato solamente agl’impicci che quell’insegna gli poteva scansare, e non a quelli che gli poteva tirare addosso» (e questo dettaglio minimo viene offerto nell’ultima pagina del romanzo come una delle lezioni fondamentali dell’intera vicenda). Le spiega che solo il femminile sublima la tensione omosessuale e disinnesca il sodalizio maschile («Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non era lui…?», 700). E la convince. Così in quel luogo di massima contaminazione che è il lazzaretto le relazioni tra i generi sono ristabilite, il pericolo dell’omosocialità/omosessualità viene sventato, una pioggia risanatrice rimescola gli elementi e i generi e prepara le nozze dei promessi.


Questo saggio è la rielaborazione di parte del mio intervento al convegno “Inquietudini queer: desiderio, peformance, scrittura” (Padova, 9-10 novembre 2011). Ringrazio Daniela Brogi, Massimo Stella e Carola Susani per le loro utili osservazioni. Per gli Sposi, uso come edizione di riferimento: Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia, I promessi sposi (1827), I promessi sposi (1840), tre voll. a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, 2002; fornirò le indicazioni di pagina via via, fra parentesi nel testo. Cfr. anche l’edizione curata e commentata da Tommaso Di Salvo, Bologna, Zanichelli, 1987.

 

[1]Alberto Arbasino, Certi romanzi. Nuova edizione seguita da La Belle Époque per le scuole, Torino, Einaudi, 1977, pp. 269-278 (è il capitolo intitolato “Solo per te, Lucia”).

[2] Se si può dire che prima del capitalismo e del liberalismo la biopolitica abbia avuto una preistoria, le religioni ne sono state protagoniste. Certo quello di Manzoni era, come è noto, un cattolicesimo critico animato da molteplici esperienze intellettuali e religiose. Non a caso I promessi sposi alla loro uscita vennero per qualche tempo banditi dalle librerie romane (cfr. Guglielmo Alberti, Alessandro Manzoni, in Storia della letteratura italiana, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, vol. 7, “L’Ottocento”, Milano, Garzanti, 1988, p. 754). Tuttavia queste resistenze vennero presto superate. Il romanzo manzoniano, senza perdere i suoi caratteri specifici, esibisce un saldo impianto cattolico: proprio per questo ha potuto divenire in Italia “il libro per tutti”.

[3]  Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1984, nuova ed. 1996, pp. 22-27 e 361-363. Per la precisione, Barbagli distingue tra due processi: l’affermarsi della nuova “famiglia coniugale intima” nei ceti medio-alti (fine XVIII – inizio XIX secolo), e il contemporaneo estendersi a questi ceti di una strutturazione nucleare che però era diffusa già nel XIV-XV secolo nei ceti medio-bassi urbani.

[4]Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men. English Literature and Male Homosocial Desire, New York, Columbia University Press, 1985 (qui farò sempre riferimento all’edizione del 1992, con una nuova prefazione dell’autrice); sull’evoluzione della famiglia vedi in particolare le pp. 14-15 e 135-137.

[5] Parlando dei Promessi sposi Michel David osserva che «il tema della ‘casa violata’ o perfino del ‘tempio violato’ sembra […] essere uno dei temi profondi dell’intero romanzo» (Letteratura e psicanalisi, Milano, Mursia, 1967, p. 346).

[6]  Per esempio in Guido da Verona, che nel suo rifacimento satirico del romanzo manzoniano (1930) inserisce con grottesca naturalezza una Gertrude che tenta di sedurre Lucia “facendole certi ambigui discorsi intorno alla non assoluta indispensabilità del sesso forte, e dandole infine da leggere certi libri clandestini d’iniziazione agli amori più perfetti, che lasciavano la bella montanara con gli occhi pieni di sogno e la fantasia fortemente colpita” (Guido da Verona, I promessi sposi, Milano, La Vita Felice, 2008, p. 141).

[7]  Cfr. Jean Starobinski, Les Mots sous les mots. Les Anagrammes de Ferdinand de Saussure, Paris, Gallimard, 1971, trad. it. Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, trad. Giorgio Cardona, postfazione di Enrica Salvaneschi, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1982.

[8] Pier Paolo Pasolini, “Alessandro Manzoni, I promessi sposi”, Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Milano, Garzanti, 1996, pp. 206-212, a p. 208 (ed. orig. Torino, Einaudi, 1979). Si tratta di un importante articolo uscito il 26 agosto 1973 sul settimanale “Tempo”.

[9] Si tratta di un dogma omofobico trasversale e di lunga durata. Ancora oggi molti non cattolici, e tra loro molti psicoanalisti, pensano l’omosessualità (ma non, per esempio, la relazione eterosessuale con connazionali o correligionari) come rifiuto della differenza.

[10] Per inciso, questo è uno schema valoriale attivo anche sul piano linguistico, con la polemica contro i puristi.

[11]Francesco Berni, “Sonetto delli bravi”, Rime, a cura di Danilo Romei, Milano, Mursia, 1985, p. 192. Vedi anche Fauto Nicolini, Arte e storia nei “Promessi Sposi”, Milano, Longanesi, 1958.

[12] Si tratta di una (non certo l’unica) tra le grandi tipologie antropologiche di relazione omosessuale. Stephen O. Murray (Homosexualities, Chicago-London, University of Chicago Press, 2000) ha mostrato che i tre principali modelli di relazione  omosessuale si fondano (1) su un differenziale di età (e, molto spesso, di potere), oppure (2) su un differenziale di genere ascritto (transgenderismo), o infine (3) su un legame paritario. Qui abbiamo a che fare con il tipo 1. A volte troviamo una valenza omoerotica anche nei rapporti tra pari (dunque del tipo 3): Don Rodrigo/Conte Attilio, Conte zio/Padre provinciale, Cardinal Federigo/Innominato: per esempio, di Federigo si sottolinea in modo insistente la bellezza fisica («floridezza verginale […] quella che più propriamente si chiama bellezza […] l’amore degli uomini […] una, direi quasi, bellezza senile», 428). Ma si tratta di rapporti di equivalenza più che di parità, che non escludono la rivalità o una sorta di subordinazione incrociata e inversa, chiastica.

[13] Nella sua intelligente satira degli Sposi, Da Verona (cit., p. 273) fa del sogno di Rodrigo una fantasia erotica, in cui alla spada si sostituisce appunto il membro.

[14] Il suo stesso nomadismo lo assimila a questi ambienti. Sembra notarlo anche Pasolini, che di Renzo ama soprattutto le pagine di viaggio e in una scena di Teorema (il romanzo) paragona a Renzo in cammino verso l’Adda il nucleo omosociale/omosessuale di padre, figlio e straniero in viaggio insieme (Romanzi e racconti, II, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano, Mondadori, 1998, p. 984). Vedi anche, di Pasolini, le Interviste corsare sulla politica e sulla vita 1955-1975, a cura di Michele Gulinucci, Roma, Liberal-Atlantide Editoriale, 1995, pp.117-118.

[15] Senza alcuna apparente necessità Manzoni cita, per subito smentirla, la falsa etimologia di monatto dal greco mònos, “solo, solitario” (612). Mònos è anche il vero etimo di monaca. Queste due parole italiane  così presenti nel romanzo sembrano designare entrambe una omosocialità complice e fragile, promiscua (Manzoni sposa l’etimo di monatto «dal vocabolo monathlich (mensuale) […] È probabile che gli accordi fossero che di mese in mese»). Un aggregato compatto per costrizione o per interesse, ma pronto a piegarsi o a frantumarsi in tanti mònoi; la sua rappresentazione deve qualcosa alle pagine sulla fenomenologia della folla (in sé non omosociale). Le monache sono una massa indistinta, sottoposta alla Monaca-Monarca Gertrude; i monatti sono un Sonderkommando da cui spiccano per il tempo di una scena un paio di volti ben caratterizzati, che tuttavia vi riaffondano. A entrambi si contrappone l’omosocialità virtuosa dei frati, che fin dall’etimologia sono portatori di relazionalità.

[16] Cfr. l’analisi di Le strutture elementari della parentela di Claude Lévi-Strauss offerta nel classico saggio di Gayle Rubin The Traffic of Women: Notes Toward a Political Economy of Sex (in Toward an Anthropology of Women, a cura di Rayna Reiter, New York, Monthly Review press, 1975, pp. 157-210), e le ulteriori riflessioni di Sedgwick in Between Men, cit., pp. 25-27.

[Immagine: Prova di stampa di xilografia per l’edizione illustrata dei Promessi Sposi del 1840: Lucia rapita dai bravi. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense (mg)].

8 thoughts on “Aria di braverìa. Appunti queer sui Promessi sposi /1

  1. bellissimo articolo di letteratura e di sensibilità. Tommaso Giartosio è uno dei pochi intellettuali sensibili…

  2. Davvero un bel saggio: scritto bene, intrigante e argomentato con lucidità. Tra l’altro è uno scritto che apre tante domande sull’inconscio politico post-unitario che ha eletto i Promessi Sposi a libro per tutti. E ad una vera e propria lotta per l’egemonia fra una morale liberale/nordica borghese, cattolicesimo romano e sincretismo pagano/religioso contadino.

  3. Questa parte del saggio è molto bella e ricca. La combinazione fra senso storico e la lettura gender/queer apre una finestra da cui entra molta aria e da cui si vedono molte cose.

    Vengono in mente molte da dire e da chiedere. Mi limito a un’osservazione: il saggio riattiva il nesso fra stato, lingua, cultura e progetto educativo nazionali da una parte, le forme di vita su cui tutto questo ha un impatto dall’altra. Mi sembra che la lettura gender/queer dei “Promessi sposi” funzioni molto bene proprio per quello che è implicito, per la posta in gioco – uno dei testi che sono al centro dei programmi scolastici e universitari e dell’idea di identità nazionale.

  4. Grazie per le vostre osservazioni. Lascio in sospeso le domande fino alla pubblicazione della seconda parte del saggio, giovedi’ 29.

  5. Stimolante e ricchissimo di spunti su cui tornare, a riprova che un classico va riletto infinite volte. Non sapevo di Guido da Verona; lo leggerò subito. Da tempo ragiono su famiglie, adulteri, morale e processi letterari nel romanzo italiano post-unitario (Capuana, Verga, D’Annunzio) e la prospettiva che applichi ai testi è fertilissima di riflessioni…continuo a seguirti, grazie!

  6. Pezzo brillante e ricco, aspetto con curiosità la puntata successiva: sulla prospettiva d’insieme però sono perplesso. Secondo me le letture in chiave gender vanno benissimo, ma quando i testi offrono davvero degli appigli, beninteso di qualsiasi tipo: sensi espliciti, impliciti, repressi, indeterminati, inconsci (Papà Goriot, Mademoiselle de Maupin, L’educazione sentimentale, tante opere del Novecento sono esempi già scontati – ci sarebbe ancora lavoro da fare su casi meno evidenti, come qualche romanzo di Dickens). Mi sembra invece rischioso concentrarsi troppo su oggetti le cui valenze simboliche possono anche non essere attivate, o su elementi legati principalmente al contesto storico-sociale: la nostra cultura (come Giartosio sa e sottolinea) impone per molti secoli una rigida separazione dei sessi in numerose dimensioni della vita pubblica, riserva agli uomini la sfera politica, quella militare, anche luoghi di ritrovo come l’osteria, costringe le donne a diversi tipi di segregazione, nei conventi, nei collegi, nelle case borghesi; sono dati di fatto che evidentemente si riflettono in qualsiasi intreccio, non vanno enfatizzati troppo.
    E’ un punto da tener presente, direi: altrimenti anche un saggio come questo (serio, informato e svolto con un equilibrio ignoto a buona parte dei Gender e dei Queer Studies) rischia di innescare una deriva infinita. Continuando così, per capirci (perdonate la leggerezza dell’uomo di teatro): forse Enea e Turno in realtà sono attratti l’uno dall’altro e non gliene importa nulla di Lavinia (che tra l’altro piange, arrossisce, non dice una parola, è noiosissima); Orlando e Oliviero potrebbero essere una coppia di fatto, come e più di Achille e Patroclo; Guido, Lapo e Dante le donne se le portano per una questione di facciata; non sarà un caso se nel Furioso nessuno combina mai niente (eccetto Angelica e Medoro, certo; ma lui sembra avere un notevole trasporto omoerotico, e pure necrofilo, per Dardinello); Elizabeth e Darcy la fanno tanto lunga perché in realtà lui è perso per Bingley e lei per sua sorella; il vero amore di Pierre è Andrej, e Anna ruba l’uomo a Kitty perché la loro amicizia, inizialmente tenerissima, non sta decollando; nell’epos, nel teatro, nel romanzo, ci sono un’infinità di spade che si incastrano, si spezzano, non fendono, siamo sicuri che sia sempre quello il senso?
    Quello spiritaccio di Guido da Verona ci sapeva fare con queste cose, e Giartosio fa benissimo a citarlo, andrebbe ricordato più spesso; però la libertà del lavoro critico resta diversa da quella della sconsacrazione parodica.
    Per i Promessi sposi continuerei a parlare non di omofobia ma appunto di sessuofobia, o meglio di trattazione dell’eros obliqua, contorta, filtrata da sottintesi e spostamenti: la scena in cui Renzo rimasto solo si abbandona a vagheggiare nostalgicamente nientemeno che la suocera (come fa già Ermengarda) è un capolavoro ineguagliato.

  7. Ho difficoltà a rispondere a questo commento, di cui ringrazio l’autore, perché mi sembra di avere già risposto nel saggio. Il punto non è l’omosocialità in sè, presente in infiniti romanzi del tempo, ma il modo in cui viene presentata. Non vedo come possano non essere attivate le valenze simboliche, per esempio, del mito di Amore e Psiche, e mi sembra piuttosto palpabile l’ambivalenza del rapporto tra Gertrude e Lucia. C’è poi una questione di massa critica degli indizi: altro è una generica spada, altro è la sua presenza nel contesto semanticamente sontuoso del sogno di Don Rodrigo. E dubito sempre dell’argomento del “piano inclinato”, analogo, per capirci, a quello che vede nel matrimonio gay una premessa necessaria della zoofilia. Ma, di nuovo, inviterei ad attendere la pubblicazione della seconda parte del saggio, giovedì, che forse risponderà a qualcuna delle perplessità di Scaramouche.

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