di Riccardo Dogana. Introduzione di Tommaso Di Dio

 

[Esce domani Panopticon, un libro fotografico di Riccardo Dogana, edito da Origini Edizioni di Livorno. Il libro è interamente composto da immagini catturate dallo schermo di un  computer, durante ricerche fra video, web-cam e archivi nelle rete. Pubblichiamo l’introduzione di Tommaso Di Dio]

 

Introduzione di Tommaso Di Dio

 

Innanzitutto uno spazio. Ma uno spazio è sempre un modo di stare, di guardare e di essere guardati: un modo di disciplinare i corpi. Panopticon – si sa – è stato prima il nome di un carcere, di un’idea di carcere che, com’era già nelle premesse di colui che lo immaginò per primo, il filosofo inglese Jeremy Bentham, è diventato poi un sistema di produzione e infine la paranoica cornice distopica delle nostre vite. Da un punto solo, immobile al centro, un uomo poteva controllarne a centinaia, disposti in celle radiali. Vedere, essere visti, vedere senza dormire mai: è un sogno degli uomini. Viene da lontano e già aveva trovato una figura esemplare nelle terre del mito: Argo Panoptes era il nome di un gigante che «tutto vede». Immagine archetipica del guardiano, l’eroe dai cento occhi, Zeus lo volle adoperare per nascondere alla gelosa Era il suo amore fedifrago per la ninfa Io. Vedere, vedere tutto, osservare il mondo stando al suo centro: e così andare con gli occhi aperti in ogni angolo e proteggere, invadere, prevedere, toccare, scrutare, controllare il disperdersi continuo di ogni fenomeno, governare l’irrompere non arginabile del caso, del caos, della morte. Essere come dio.

 

 

Lentamente, laboriosamente, gli uomini hanno realizzato questa possibilità. Il sistema tentacolare di strumenti di cattura e restituzione dell’immagine connessi in una rete sempre più globale rende oggi concreta la possibilità di vedere e di essere visti senza interruzione di tempo. Oggi possiamo perlustrare la terra del visibile spingendosi verso un confine così vasto che ci appare come un orizzonte infinito. Se nel Rinascimento fu la scoperta del continente americano a trasformare per sempre la percezione del soggetto occidentale, oggi l’America del nuovo millennio non ha luogo in una geografia tradizionale: sono piuttosto le sterminate, brade, misteriose pianure elettroniche dei Big Data. Ciascuno di noi, nel silenzio della sua cameretta, nel buio della propria tana civile, può ripetere l’impresa che fu di un manipolo di uomini gettati verso Occidente, oltre le colonne d’Ercole: navigare senza bussola nel mondo sconosciuto dei Dati. È un’esperienza recente, ma sta già potentemente scolpendo la nostra forma di vita. La nascita del web 2.0 e delle piattaforme di condivisione come Youtube risale soltanto a quindici anni fa e ha già permesso la creazione di depositi navigabili di immagini e di video come mai prima nessun uomo aveva avuto a disposizione. Ciò che un tempo era sepolto nelle grotte, inciso sulle pareti di pietra; ciò che era affrescato nelle grandi cattedrali, miniato e scritto in codici, oggi, attraverso la mediazione degli schermi, sospinti dagli alisei delle grandi cablature sottomarine e satellitari, dai potenti stream degli algoritmi delle piattaforme di ricerca, è una possibilità concessa a tutti: la sensazione inaudita di poter profanare con lo sguardo (e di lasciare che altri profanino) l’intimo vestibolo dello spazio e del tempo.

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Panopticon è un percorso possibile di questa profanazione. Possiamo anche dire così: il diario di un uomo che ha compiuto un viaggio attraverso gli schermi. In queste immagini troverete un ipotetico periplo attorno alle immagini che il mondo ha prodotto e depositato nella rete negli ultimi dieci anni. Sei mesi di lavoro,  mesi di meticolosa raccolta giornaliera, per un’ora ogni giorno: un’immersione nei monitor, una genuflessione negli archivi, nei grandi abissi oscuri dei database. Entrare in questa sequenza di immagini ci dà l’impressione di cadere nel cuore di questo nostro tempo e sentirne la tenebra. C’è qualcosa di oscuro, il ricordo della discesa nel ventre della terra, dello spavento di fronte al silenzio del Mare dei Sargassi: un buio da qualche parte che si agita, una massa che cattura tutta la luce del mondo solo per lasciare che ne traluca qualche bava brillante, rapida, vischiosa, dolorosa. L’autore di questo libro ha raccolto questi brevi abbagli sulla cornea meccanica del proprio dispositivo fotografico e lo ha fatto senza freddezza, ma calandosi con tutto se stesso negli schermi di cui è composto il nostro mondo. Quello che accade è spaesante, ci disturba, ci attrae. Ci sembra di non poter credere a ciò che vediamo, o meglio: dubitiamo della sua consistenza. Ci sembrano allucinazioni, fosfeni, frattali di una mente in cui ci siamo perduti. Eppure le immagini di questo libro ci appartengono, ci sono fraterne: non possiamo non sentire di fronte a loro tutta la nostra partecipazione. Ci sembra addirittura di averle già viste: come se fossero ombre rapite dai nostri schermi, déjà-vu, ricordi rimossi e stranamente emersi dal corpo di un altro essere vivente a cui non coincidiamo.

 

Non c’è alcuna euforia. Nessun facile entusiasmo, nessun ingenuo abbandono. Di fronte alla possibilità così radicale di vedere, due sembrerebbero le strade percorribili: la pornografia o la cura. Riccardo Dogana, invece, ce ne mostra una terza, all’intreccio delle due: la testimonianza. Mentre entriamo nell’intimità dello sguardo del fotografo e osserviamo i suoi passi in questa discesa (ce ne ha voluto lasciare la sensazione anche nelle ombre degli obiettivi: polvere e dita), percorriamo queste immagini come se fossimo di fronte al diario di un guardiano: in ogni immagine, c’è la violenza di chi sta prendendo su di sé l’oscura massa del mondo e insieme la volontà di preservarla, di non alterarla, di conservarne intatta la forza, senza tentare chiarimenti né false spiegazioni. È come se l’autore di questi scatti, calatosi nel labirinto oscuro dei Dati, davanti ai propri schermi, posizionato meticolosamente nella sua torre di avvistamento, volesse preservare integri – forse per un futuro e impronosticabile processo all’umanità – i messaggi frammentari che i prigionieri gli mandano. I prigionieri sono osservati dal guardiano, il guardiano è osservato dai prigionieri. La struttura è circolare e si ripete: da sinistra a destra come da destra a sinistra. La ruota dello sguardo alterna i bianchi e i neri, i vuoti e i pieni, le pagine si voltano, il tempo cammina, ma nessuno sa se stiamo avanzando o camminando a ritroso. Soltanto barlumi, ombre, fumi, profili. Masse, figure meccaniche, canini. Segni si ripetono in una sequenza che non lascia scampo. Microstorie abbandonate nelle pozze della Storia. Il mondo dei prigionieri manda segnali: e se il guardiano li raccoglie è perché egli si riconosce uno di loro, partecipa del loro essere prigionieri. Anche lui in fondo è impiegato nel meccanismo, è un anello della catena. Anche il guardiano è osservato a sua volta dalle grandi orbite del controllo. Ad un certo punto, immersi nella sequenza di immagini, anche noi non sappiamo più chi stia osservando chi. Ci sentiamo invasi. Alle nostre spalle, siamo come toccati da una mano.

 

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Ma cosa vede il guardiano? In principio ci sono gli animali; poi le macchine. Soltanto dopo, da un nero scavato nel bitume, appaiono gli umani. Non sono mai interi; li vediamo emergere da uno sfondo da cui sembra impossibile liberarsi. Sono sempre in obliquo, colti in azione, sbilanciati, sfuocati, messi ai margini da un movimento che li sbalestra al di là della cornice, che li assorbe, che gli lascia addosso tracce di pece. Sono infatti sporchi o tentano di non sporcarsi. Hanno tute bianche, hanno maschere sul volto. Migrano in branchi. Si coprono di fango, di sangue, di cielo o di merda. Gli animali invece sono masse di potenza, intensità transitanti nel riquadro. Ogni volta che compaiono fanno tremare: sembra che possano spostare l’orizzonte, far sprofondare la terra. Sono lupi oppure qualcosa che sembra una balena, qualcosa che sembra una muta di cani, una tigre, un orso: sono una scimmia. Animali e uomini non sono in conflitto: sembra che convivano alternativamente sulla scena, come se fossero l’uno l’interiorità primitiva dell’altro: sono uno sprofondo, un gradiente. Su questa scena del mondo, ogni umano può diventare animale e viceversa. Gli umani sembra però che siano costantemente in guerra. La loro relazione avviene mediante macchine: razzi, veicoli, armi, luci elettriche, letti metallici, cavi e tubi. Le macchine sono lo stato visibile della loro estensione nel territorio. Sono lo scheletro della scena: gli umani con le macchine si muovono, si tendono, si travalicano, si toccano e si distruggono. Sono letteralmente appesi alle macchine. Il paesaggio non è altro che ciò che resta dell’intrico dei cavi: il retroscena di ciò che le macchine invece pongono in primo piano. La macchina sembra portare la luce (e spesso è una luce fosforica), mentre il paesaggio naturale è un grigiore che vira al nero: rimane come un pulviscolo buio attorno ai grumi luminosi della meccanica.

 

Animali, uomini, macchine. Tutto ciò che appare ha però un movimento simile. C’è una sincronia, o meglio una composizione unica di velocità diverse. Dopo un prolungato guardare, ci sembra che ogni pagina di Panopticon sia un dettaglio all’interno di uno sterminato polittico: ogni immagine rappresenta un momento staccato, ma di una sola grande azione corale. Se ascoltiamo il coordinamento a distanza delle pagine, ci sembra che ogni figura stia partecipando ad una deposizione. Reggono qualcosa, transitano, svaniscono. Sembrano fermi sulla scena soltanto per reggere un peso che cade: reggere un dolore che disastra la materia, un dio che non si vede. Ogni immagine di questa sequenza sembra incorporare lo strazio di chi era ai lati del corpo di Cristo: in loro è rappreso il dolore di Giuseppe, di Nicodemo, di Maria e di Maddalena, di Giovanni. Sono gravità a mani alzate, reggono la discesa di un corpo invisibile, enorme, gigante, nero, un Cristo senza faccia né figura. A sua volta, le braccia del guardiano reggono il peso di queste immagini. E nell’immagine di quell’uomo, appeso ad un cavo sullo sfondo di un cielo tumefatto, sporco di polvere e di grasso, contempliamo il mistero del ladrone che, secondo il Vangelo di Luca, per primo, entrerà nel regno dei cieli: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

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In un passo di Austerlitz, ultimo romanzo dello scrittore tedesco W. G. Sebald, l’autore descrive il volo di centinaia di farfalle in una notte d’estate. Siamo sulla foce del fiume gallese Mawddach e Alphonse, uno dei personaggi, ci avverte che le tracce luminose che «esse sembravano lasciarsi dietro in svariati cerchi, scie, spirali» in realtà non esistono, sono solo il frutto della «neghittosità» dell’occhio umano, «il quale crede di vedere ancora uno sfolgorio residuo nel luogo in cui l’insetto ha brillato per una semplice frazione di secondo nel riflesso della lampada». E continua: «è proprio in questi fenomeni irreali, in questo balenio dell’irreale nel mondo reale, in questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o nello sguardo della persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti più profondi». Sono «pure tracce fantasma», qualcosa di scomparso che riappare; una forma di intensità che, deposta, risorge nei contorni di una carta. Forse il paradiso, più che un giardino di quiete concentrica, dobbiamo figurarcelo come un passaggio sospeso: l’attimo senza tempo di una risurrezione. Forse il paradiso non è che un tempo sottratto al divenire, il riflesso sulla realtà di un frame irreale in cui si contempla, per un momento sospesa, la traiettoria ineluttabile del proprio movimento.

 

Al centro di questo libricino, si può trovare una strana successione di immagini: la scansione a 360 gradi di un corpo umano. Dopo aver fatto il giro del mondo, è come se al cuore del Panopticon ci fosse un rivolgimento: l’osservatore guarda ora se stesso. E cosa trova? Forse quello che Sebald chiama «sfolgorio residuo» che, ricreato dentro di noi, racconta non più di come è il mondo, ma invita a guardare colui che lo sta guardando. Dentro il carcere del mondo, al suo centro, non è raffigurata un’evasione, nemmeno l’ennesimo carcere; ma un un modo per piegare il tempo e farne dono. Il guardiano al centro si scruta, Argo Panoptes rivolge su di sé i mille occhi. Tutto sembra dirci: il paradiso non è che un’azione che si rivolge a se stessa, un sé che si spartisce, si divide e fa spazio: un tempo dove stare. Il guardiano vede se stesso e, vedendosi, lascia che si aprano le porte; lascia che tutti i prigionieri tornino come furono un tempo, come forse da sempre sono stati: lascia che tornino liberi.

Atri, Agosto 2020

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