di Corrado Benigni
[Là fuori di Corrado Benigni ha vinto il Premio Ciampi Valigie Rosse 2020. Pubblichiamo qui, in anteprima, una scelta di testi con la nota critica di Paolo Maccari. Il volume, in uscita in questi giorni, contiene anche sei fotografie di Olivo Barbieri].
Là fuori tutto funziona per conto suo
giorno e notte.
Corpi sopravvissuti alla loro ombra
segnano il limite di qualcosa che non so.
Un camion passa
sollevando un foglio di giornale sull’asfalto,
subito mi accorgo
che ogni forma di indugio è fuori posto.
Da una finestra un uomo mi osserva,
ha una maglietta a righe.
Sono io. Siamo noi.
Vita ai margini di un movimento generale.
*
Una bottiglia piena di pioggia sul ciglio della strada
e la carcassa dimenticata di un gatto sull’asfalto,
mentre auto sfrecciano e spariscono
anonime oltre la curva.
Esistere in questo movimento,
vita che scorre indifferente.
“Dov’è il nostro nome nel grande appello che ci chiama?”,
domanda un silenzio dal fondo
di un cartellone pubblicitario, una figura
dalla superficie di un manifesto strappato.
Nella materia inerte del tempo sopravviviamo,
resti di voci, ciò che di noi le parole non possono sottrarre.
*
Rovisto tra i nomi delle città sulla mappa.
Nessun luogo dice dove sono stato.
Provo a ricordare.
L’odore di pioggia sul selciato
una sera d’autunno in una capitale della vecchia Europa
mentre al buio cerco la via del ritorno,
le luci gialle dei lampioni accese sulle ombre dei passanti,
il vociare dalla piazza sotto casa.
Nessuna traccia del mio passaggio.
Qui, altrove,
qualcosa prima di me
sembra andato perduto per sempre.
Il tempo che scolora nelle immagini è il solo testimone
di ciò che sono stato
e rivela dove sono davvero:
in fuga da tutto, senza saperlo.
*
Gli uccelli che scavano nell’aria la direzione giusta
e il movimento delle correnti nella profondità degli oceani.
Quest’appartenenza antropomorfa di tutte le cose,
dove ogni elemento è specchio di un altro.
Tutto è tempo che si scompone e scompare.
La mente nasconde a se stessa questa fuga,
ma nel rovescio dei passi è scritta
l’antica somiglianza tra attesa e cammino.
*
Vedo il paesaggio che guarda me.
Osservo l’interno dall’interno,
sono dentro una cornice.
Figure d’ombre risalgono dal fondo,
cosa rende visibile ciò che non è?
L’occhio della mente si muove su piani orizzontali,
abita gli interni delle stanze,
poggia sugli oggetti presenti e ne perimetra le forme
per poi portare tutto all’unità,
dove ogni esplorazione si fa interna e circolare.
Tutto è già stato abitato, tutto è già mondo.
Guardo dal di fuori, e sono dentro.
*
Mi osservo in una vecchia foto di gruppo,
ripercorro i lineamenti dei volti, seguo il profilo dei corpi
cerco la mia identità confusa con le altre.
Sulla superficie piana, dentro quelle figure,
chi sono adesso che ero anche allora?
Io contumace, ombra e sfuggente presenza,
pixel o parte di un tutto
di quello che l’istante dopo non sono stato già più.
Siamo tutti l’immagine di qualcuno, forse,
guardiamo per nascondere.
*
Tutto ciò che esiste è una forma.
La casa di fronte che guardavo dalla finestra
oggi è un’immagine nella mente,
molto più di una cosa ricordata,
è quella stessa casa che mi sta davanti.
Allo stesso modo un volto amato e perduto
vive in noi di una vita propria e imprevedibile.
Solo lo sguardo che fa entrare l’esterno
salva da ogni cancellazione.
Dove passa il confine del vivente
nel grande invisibile che tutto assimila?
Impara a scomparire dietro un dettaglio,
come scolora la nuvola in una pozzanghera
o si muove fra i sassi la lumaca.
Non c’è nessun vero riparo.
Ogni cosa è accomunata
da un disperato desiderio di persistenza,
da un identico destino di creatura.
Nota
di Paolo Maccari
I due libri maggiori di Corrado Benigni – pubblicati per Interlinea nel 2012 e nel 2018 – disegnano un percorso tanto coeso quanto aperto a svolgimenti nuovi. Un percorso tra i più seri e risolti della poesia italiana contemporanea.
Tribunale della mente elegge a suo tema principale quello della giustizia: tema, è inutile sottolinearlo, che nel Novecento ha conosciuto memorabili declinazioni sia in prosa che in poesia. In questo caso, il suo svolgimento si è giovato della peculiare competenza dell’autore, di professione avvocato. Ma sbaglierebbe di grosso chi pensasse di trovare nel libro il riverbero diretto della sua esperienza. Sebbene non manchino riferimenti a casi e situazioni presi dalla realtà, già l’attacco della prima poesia ci porta su un piano scontornato di interrogazione morale assoluta: “Siamo davvero la misura di una colpa / o la memoria di un silenzio ci contiene?”. Sono diversi i testi innescati da una domanda palpitante, come se la poesia nascesse nel momento in cui è giunta a maturazione una riflessione protratta, che ora si apre a formulare un interrogativo. L’aspetto riflessivo, anche in accezione metapoetica e fino agli estremi di una pronuncia di sapore gnomico, è uno dei principali motivi di continuità dell’opera di Benigni. In Tribunale della mente e in maniera diffusa in seguito, le parole si dipanano in uno spazio di astratta incisività sapienziale, che coinvolge la stessa rappresentazione degli oggetti: “un filo si spezza e nella sete calano le mani / […] / il tempo che ritorna perché rovina, / mentre un cumulo di pietre ci chiama a giudizio.” Si vede bene, in questo come in altri casi, che “filo” e “mani” e “pietre” non hanno funzione mimetica bensì emblematica. Emblemi che paiono denunciare una marca montaliana, così come montaliana ci parel’adozione frequente di un imperativo che ingiunge di osservare la realtà secondo una più o meno implicita ottica filosofica aperta al disvelamento. Ma certe movenze stilistiche potrebbero provenire dalla mediazione di altri poeti grandi del Novecento debitori di Montale: certo Luzi e Sereni (la cui lezione affiora anche nelle domande che entrano nella pagina da un fuori campo non si sa se presidiato da un alter ego o da una voce di natura) e, ancora in Tribunale della mente, il Raboni giovane e già sorprendentemente maturo di Gesta romanorum. Visto che siamo a far nomi – e che quanto appuntato continua a valere per la raccolta odierna -, segnaliamo subito un’altra movenza tipica di Benigni, a metà strada tra caratteristica di stile e forma di pensiero: quella che potremmo chiamare un’apposizione analogica protratta. Si verifica quando dentro un dettato piano e aperto i termini del discorso si condensano in una formula icastica che, invece di precisare, incrementa con nuovi significati l’espressione precedente: “Ecco l’inganno, questo sonno senza materia / che è già azione”; oppure, nella sezione centrale di prose, dove la punteggiatura sembra avere funzione di stacco ritmico al pari degli a capo nelle poesie: “Ovunque è la stessa legge. Questa attesa fossile che ci contiene”. Oltre che di una sollecitazione genericamente simbolista, siamo qui nei paraggi, se non vediamo male, della maniera delDe Angelis più asciugato, transitivo; mentre altrove le aperture analitiche e composte fanno pensare a Magrelli: “Quale viaggio compie ciò che vediamo, / dalla retina alla mente, / prima di prendere la forma interna di un’immagine?”. Riferimenti molto diversi tra loro, a cui tanti altri potrebbero essere associati.
Ma non è necessario: orientati a fini puramente descrittivi in un’area, e aria, di Novecento classico e irrequieto insieme, proiettato verso i nostri anni, è più produttivo tornare all’originale impasto di temi e suoni con cui Benigni, privo per fortuna di anxiety of influence, sa testimoniare la sua esperienza di essere umano. Come notato in apertura, già in Tribunale della mente l’esperienza, e la competenza, sono alla base della sua riflessione. Sotto taluni aspetti, verrebbe da dire che Benigni in quel libro intenda rivisitare i concetti e le parole della legge secondo un duplice intento: da una parte, spostare i termini specifici della pratica legale in un orizzonte smarginato dove si applichino a descrivere l’intera realtà, psichica ed effettuale (essendo caduta la distinzione tra interno ed esterno, o meglio essendo sottoposta a una spola continua e disorientante che ne ha liso le barriere percettive); dall’altra parte è la realtà che entra nel tribunale, che chiede un verdetto senza poterlo sperare, perché tutto lo spazio-tempo appare governato da leggi tanto chiare quanto inconoscibili. Sospendere il giudizio, allora, è l’atto conoscitivo più dirompente,che non ha niente a che vedere con la resa. Si tratta piuttosto di un invito all’attenzione, al potenziamento delle nostre facoltà di percepirci dentro il fluire del tempo, di soffermarci sui meccanismi che regolano o sregolano la rielaborazione soggettiva – l’unica che conti, in ultima analisi – del reale. Sotto questo aspetto, nel passaggio da Tribunale della mente a Tempo riflesso, non si avverte soluzione di continuità. Che il nuovo libro si riallacci, per approfondirlo, al discorso del precedente, ce lo dice già quella sorta di enjambement tematico che collega gli ultimi versi del primo libro con i primi del secondo: “quello che cede ti appartiene, è tuo / nelle vene, giudicati da uno scisma”, si concludeva nel 2012; nel 2018 si inizia: “Sospendete per un attimo il giudizio”. Ma al di là delle numerose persistenze, Tempo riflesso è nella storia di Benigni un libro di innovazioni. Persistenze e innovazioni sono bene riassunte dal rapporto che si viene a instaurare tra la poesia e la fotografia. È naturalmente un nesso che, presentando le poesie di Là fuori, ci interessa in modo particolare. Se pertanto lo indagheremo da vicino (sacrificando, o rimandando ad altra occasione, l’accertamento del ricco ventaglio di risultati notevoli raggiunti in Tempo riflesso in virtù di una suggestiva, quasi classica eppure nuovissima, meditazione sull’inafferabilità del tempo), è perché ciò che verremo dicendo vale in gran parte anche per i testi di oggi.
Come il mondo della giurisprudenza, la fotografia è un ambito in cui Benigni si muove da conoscitore profondo. È recente la sua curatela di un libro di Olivo Barbieri, uno tra i massimi fotografi contemporanei, il quale ha generosamente accettato di impreziosire questo volume con alcune sue splendide immagini (la copertina, che si deve alla consueta maestria di Riccardo Bargellini, ne rielabora un particolare). La terza sezione di Tempo riflesso, intitolata Apparenze, ospita delle originali ekphrasis di fotografie e l’intero volume è gremito di rimandi alla dimensione fotografica. Ma la padronanza di quel linguaggio non deve indurre a credere che Benigni trasporti l’aspirazione all’immagine ferma dentro la poesia. Avviene piuttosto il contrario. In Tempo riflesso la parola libera la fotografia dalla sua immobilità, collabora con l’immagine per ricostruire tutti i segni di complessità implicita nel suo abisso orizzontale. “Nella natura di quello che non sappiamo distinguere dimora sommersa l’evidenza di ciò che siamo”, recita uno dei molti aforismi incisi nell’opera di Benigni. La sua poesia, più che rivaleggiare con la fotografia, sembra proporne uno sfruttamento estensivo; a beneficiarne sono entrambe le arti: il poeta non coincide con il fotografo bensì con il fruitore consapevole di fotografia, compie il recupero di significati che la foto pretende con l’irrefutabilità della sua ricchezza. L’assertività della fotografia viene volta in dialettica: alla realtà immortalata si restituisce la vita, ovvero l’attrito con altra realtà, il dialogo tra un dato momento e altri momenti, tra un significato e un altro significato, tra un’insufficienza per mancanza di durata e un’altra insufficienza, quella di chi osserva e non sa rendere ragione di ciò che vede, lui stesso immerso in un tempo che lo domina e gli impedisce una visione sgombra. Ma c’è dell’altro: in un certo senso, la fotografia è l’esatto opposto della poesia. La prima cattura un’immagine, la seconda la crea: il dominio della parola, dotato e gravato di significati, non può che essere un traslato creativo della realtà e per rappresentare il mondo deve ricrearlo. In un dialogo, uscito sul sito Le parole e le cose, con Tommaso Di Dio, un altro poeta che ha riflettuto in profondità sul rapporto tra parola e immagine, Benigni afferma: “La fotografia, inoppugnabile come prova ma debole di significato, riceve un significato dalle parole. Insieme esse diventano molto potenti. Tuttavia a me interessa rimanere nell’ambiguità, che può offrire alla fotografia un mezzo di espressione eccezionale. Questa ambiguità suggerisce un altro modo di “raccontare”, esattamente ciò che fa la poesia, che non è mai esplicativa, descrittiva, ma evoca, suggerisce altro, è una superficie di riflessi e prospettive multipli”.
Quel “tuttavia” (il corsivo è nostro), che stacca due possibilità della poesia nel suo contatto con l’arte fotografica, ci sembra illustrare come meglio non si potrebbe il passaggio da Tempo riflesso a Là fuori. Ancora una volta siamo in presenza di un passaggio conservativo, che mette a profitto i risultati formali e figurali consolidati nei libri precedenti, ma in Là fuori si compie in maniera più decisa uno spostamento dalla mentalizzazione emblematica degli oggetti a una loro più libera consistenza visiva, che si organizza in paesaggio, in campi lunghi alternati a zoomate sui più minuti dettagli: “Una bottiglia piena di pioggiasul ciglio della strada / e la carcassa dimenticata di un gatto sull’asfalto / mentre auto sfrecciano e spariscono”. Come in passato, le figure evocate dalle parole non sono mai lasciate sole. A volte le precede un’asserzione che loro sviluppano e confermano; altre volte sono seguite da un’interpretazione generalizzante che le immette in un circuito di senso più ampio; altre ancora sono incastonate tra due momenti meditativi. Più che in passato, l’energia testimoniale che liberano deriva anche dalla loro forza intrinseca, dalla trepidazione con cui vengono trascritte.
Con questi testi Benigni ci invita a un ambiguo viaggio nella provincia, in una terra senza viaggi e quasi senza movimento: un paesaggio che corrisponde a una condizione dell’anima: “Dappertutto quest’aria d’attesa / che il tempo scorra e passi il giorno, / venga un’altra stagione / a dare forma a ciò che manca”. L’ambiguità si coglie nella vuota attesa dove “anche i pensieri / sono fenomeni esterni in cui ci si imbatte”: la plausibilità sociologica lievita verso un sentimento universale di muta aspettazione senza fine. Pensieri e fenomeni esterni condividono una medesima manchevolezza, finché lo stesso occhio che guarda è inghiottito dal paesaggio e il soggetto avverte di partecipare al vortice di un’indifferenza che lo sovrasta. Nonostante il piglio riflessivo più volte evidenziato, questo processo non avviene mediante una scoperta razionale bensì attraverso un nudo riconoscimento. Lo scavo prodotto da immagini e pensieri porta a trovare ciò che abbiamo sotto gli occhi, a riconsiderarlo con occhi nuovi. L’impossibilità d’evasione dal tempo e dallo spazio, la consapevolezza di esserne anzi sopraffatti – quando ne percepiamo l’imperio – a livello quasi fisico, è una condanna e un approdo. Emerge infatti un’attitudine, quella tremante e alogica dell’epifania, che obbliga alla constatazione dell’esistente in una forma baluginante e intima, dove la reversibilità dello spazio (“Vedo il paesaggio che guarda me”) e la circolarità del tempo chiamano a una nuova constatazione. A proposito di circolarità, e di suggelli che mirabilmente chiudono in messaggio screziato ma univoco la raccolta, la prima poesia di Là fuori termina così: “Sono io. Siamo noi / Vita ai margini di un movimento generale”; la chiusa dell’ultima poesia è questa: “Ogni cosa è accomunata / da un disperato desiderio di persistenza /da un identico destino di creatura”. Il “movimento generale”, che è associato alla condizione umana, dilaga su tutte le cose: cose noi stessi, “creatura” ogni cosa dentro un “identico destino”. Quel destino che tra immagini e pensieri Benigni perlustra con le sue poesie, offrendoci la strada verso una sofferta, liberatoria accettazione del flusso che ci determina e trascina.
[immagine di Olivo Barbieri, site specific _MILANO 09, particolare]