di Luca Marangolo
Il modus operandi di Kim ki-duk ha da sempre messo in evidenza una concezione dell’attività artistica molto poco romantica, ma anzi molto pragmatica. Nel caos esperienziale che sembra apparire oggi il mondo ordinato, condurre una vita artistica significa quindi ostinatamente gettarsi in pasto a una serie di ostacoli che si frappongono fra noi e la realizzazione del nostro percorso interiore. Per cerchi concentrici, eccone alcuni: il mercato, le esigenze della produzione, la distribuzione, i soldi per sostentarsi, la nostra educazione, i nostri difetti personali, i nostri limiti culturali, la nostra estrazione sociale, il nostro luogo di nascita, la nostra famiglia.
Kim ki-duk era – probabilmente meglio di tanti altri cineasti – la prova che un percorso del genere è possibile; si tratta necessariamente di una traiettoria accidentata, come per l’appunto una corsa a ostacoli o, ancor meglio, un esercizio di equilibrio, dove i crepacci che si aprono attorno alla nostra posizione precaria sono voragini interiori sul cui fondo è saggio non guardare troppo a lungo, con il fatale rischio di innamorarsene. E dove gli ostacoli sono per lo più l’indifferenza del reale alla nostra intuizione artistica; un’indifferenza da guardare con un certo rispetto e una certa pietas, come fosse una divinità arcaica molto potente, ma con l’ostinato intento di superarla. Credo che Kim debba aver vissuto una simile Bildung, se si guarda un po’ al suo itinerario biografico fatto certo di molti successi, ma anche di qualche ombra.
Per cominciare era figlio di una working class operaia fantasma in una Corea la cui immagine qui in Occidente è come bloccata in un frame della Seul psichedelica e capitalista, che percepiamo come occidentalizzata o nipponicizzata, ma che in realtà è abitata da classi sociali che ne vivono i bassifondi proletari, ne formano la spina dorsale e l’ossatura industriale, fuori dal cerchio di luce dell’immaginario condiviso. Un universo che forse per la prima volta è stato rappresentato, nella sua cifra anche estetica, da un film come Parasite, in questo senso un po’ la versione coreana di Brutti sporchi e cattivi di Scola. Inoltre, come sanno tutti i suoi amatori, Kim ki-duk non è entrato in una sala cinematografica prima dei trent’anni, dimostrando quell’indifferenza abbastanza comprensibile per un medium, come quello cinematografico, che in Corea era visto una come una cosa ‘colta’ “per gente con una laurea” o una forma di “intrattenimento inutile”. E questo è stato, per lui, fino a che ebbe modo di vedere i primi film nei cinema di Parigi, dove approdò all’avventura, già avviato alle arti visive e plastiche.
Eppure, probabilmente, è stata proprio questa distanza dal medium a permettergli di stilizzare il suo cinema, molto libero e idiosincratico, molto pregno delle intuizioni estetiche di tanto cinema occidentale, eppure tanto lontano da qualsiasi modello. Se si vuole è proprio il segno di un autore che viene dalla pittura, che divora i propri riferimenti senza troppi riguardi, come fossero “carne filmica”, senza che così possano lasciare traccia palese, ma risultando tecnicamente assimilati.
Oltre questi dettagli tecnici ci sono, secondo me, delle ragioni molto profonde per cui il cinema di Kim ha ottenuto grande successo e che vanno al di là delle facili suggestioni attraverso le quali è assimilato un cinema che si pone con una certa qual sfuggente – e dunque seducente – alterità come il suo: occorrerà indagarle, ora che è scomparso all’improvviso per Covid-19, mentre era in Lettonia per concludere l’acquisto di una casa sul Baltico; ormai riconosciuto, ormai con alle spalle titoli di successo critico internazionale, ormai solidamente visto come una delle voci più significative del cinema degli ultimi venticinque anni. Alcuni nuclei profondi emergono prepotentemente nella mente se si ripensa a molti dei film più forti: lo spazio, il concetto di intimità, il concetto di violenza, quello di forza, di vendetta. Sulla base di queste linee di tensione che attraversano praticamente tutti i suoi film, l’equilibrista ha oscillato fra un crepaccio e l’altro producendo molto e a testa bassa, poiché l’autore è un produttore – come recita un noto titolo di Walter Benjamin – e correggendo la traiettoria, lasciandosi attraversare da queste urgenze. Proprio nella rappresentazione della violenza, dello spazio, della forza e dell’intimità Kim ki-duk ha così prodotto un cinema essenzialmente metaforico. E grazie all’astrazione di un simile linguaggio traslato ha saputo plasmare apologhi in cui molti si sono riconosciuti; la forma dell’apologo – la parabola zen è il genere religioso che chiaramente sovviene – è evidente e ricorrente in praticamente tutte le sue opere: esso mi sembra allegorizzi, più o meno consciamente, alcuni dei punti nodali della nostra vita presente, e per mezzo di questa astrazione restituisce ad essi un senso laddove la nostra vita si era in qualche modo arenata, aveva trovato un punto cieco. Vorrei partire dalla prima delle categorie che ho definito, quella di violenza; senza rifarmi alla violenza un po’ splatter degli ultimi suoi film (tanto brutale quanto a modo suo giocosa) come Moebius (2013), discusso e discutibile thriller sul complesso di castrazione.
Penso piuttosto a sequenze più posate: in Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera, un piccolo monaco novizio, vive in un eremo in mezzo a un lago (il lago Jusan, nella Provincia Nord Kyungsang), per passare il tempo compie dei piccoli omicidi: una rana, un pesce, un serpente, uccisi legando loro una pietra sul dorso. Si tratta, fra l’altro, di una sequenza per cui il regista è stato duramente attaccato, per le brutalità che sono state commesse, realmente, sugli animali di scena: “si tratta di un dolore che porterò con me per tutta la mia vita”; ma che voleva essere, chiaramente, la traslazione della violenza che l’individuo compie nell’inconsapevolezza; e si direbbe che, nella sua essenza, in questi film, la violenza corrisponde all’inconsapevolezza: così come il processo di espiazione che lo stesso monaco compie scalando una montagna innevata in una sequenza memorabile è, in un senso buddista, la liberazione da un peso materiale.
Sotto l’influenza della religione buddista nel cinema di Kim ki-duk la violenza si identifica con l’intenzionalità, ciò è particolarmente evidente in quello che è il film manifesto di Kim in Occidente, successivo a Primavera, estate, autunno, inverno e…ancora primavera di meno di un anno, Ferro 3. Il film si apre con un’immagine strana: una statua ispirata alla tradizione neoclassica della scultura europea, ipostasi metonimica di una bellezza delicata, ripresa dietro una sfocata rete che, lo spettatore comprenderà poco dopo, viene vessata dai colpi del ferro nr.3, la mazza da golf che dà il nome al film.
Quest’ultimo oggetto è solo uno delle tante elaborazioni visuali, nel film, del nesso simbolico fra intenzionalità, coscienza e violenza, che dunque traspone in modo vertiginoso e per immagini la riflessione principiata nel film precedente e che sembra sottolineare una contiguità fra la violenza ingenua del protagonista, che uccide una donna alla guida con la stessa mazza da golf – così come il novizio del monastero aveva torturato le sue creature nella sua ingenuità infantile – e la violenza perpetrata da altri personaggi del film, come le vessazione del marito del personaggio femminile, o come il pestaggio compiuto dai poliziotti ai danni del protagonista.
Tutti gli atti di violenza sono dunque degli atti di incoscienza e sono determinati da una condizione spirituale che sembra alienata dal mondo del Bodisattva, in un altro fra i dieci mondi in cui è ordinata la cosmologia buddista, secondo credenze religiose che sono ancora molto vive in tutto l’estremo oriente e non solo. Una morale non psicologista, insomma, ma piuttosto materialista, in cui la violenza è un peso materiale: un macigno che il mondo intero porta con sé e da cui in quanto mondo dovrebbe redimersi, che solo occasionalmente si manifesta nel bambino con la pistola giocattolo con cui si apre il film, come nei poliziotti o nel marito possessivo.
Forse però l’altro valore profondo espresso da Ferro 3 è il concetto di intimità, concetto abbastanza misconosciuto dalla riflessione filosofica tradizionale, ma che ha avuto di recente uno energico sviluppo teorico da parte del filosofo, grecista e sinologo François Jullien con il suo De l’intime (2013), che, fra l’altro, da decenni sta sperimentando l’ardua impresa di mediare fra i fondamenti la cultura filosofica occidentale e quella orientale. Il concetto di intimità, del resto, pensato all’interno della riflessione fatta da Jullien sulle scuole di pensiero orientale, si potrebbe avvicinare forse ad una delle tesi fondamentali di questo pensatore, per cui la tradizione filosofica d’oriente può consentirsi di non pensare in termini di ontologia. L’intimità è uno spazio pre-intenzionale che si apre fra due coscienze, il quale tuttavia include la coscienza intenzionale attraverso la corrispondenza con un’altra persona in una prossimità circoscritta in termini di senso. In un certo qual modo, è ciò che osserviamo in Ferro 3 nella scena in cui il regista utilizza l’immagine della palla da golf per restituire il senso dell’innamoramento, molto filmico, quasi holliwoodiano, fra i due protagonisti: la sfera, rotolando da un personaggio all’altro descrive uno spazio che non è più attorno ai due personaggi, ma descritto dalla presenza di entrambi. La natura pre-intenzionale, e anche paradossale, dell’intimità descritta così in termini fenomenologici è del resto il centro tematico di tutto il film. È un concetto paradossale proprio perché da un lato designa ciò che è quanto di più personale, dall’altro descrive qualcosa che, proprio in quanto pre-intenzionale, presuppone la messa in discussione del principium individuationis del soggetto.
Si potrebbe provare ad argomentare sul senso orientale di questa idea, tuttavia in questa sede sembra più importante mettere in evidenza il modo in cui esso è articolato all’interno del film. Il personaggio principale, come noto, entra nelle case degli altri non per svaligiarle, ma per viverle durante l’assenza degli altri. Compie dunque una forzatura all’interno dello spazio intimo altrui, e instaurando un rapporto altrettanto intimo con le altrui semiosfere, sfruttando l’assenza dei proprietari di casa. In tal modo il film mette in evidenza la natura paradossale di cui si è detto, per cui l’intimo, in quanto rapporto relazionale e pre-intenzionale precede la determinazione dell’individuo. Questo è particolarmente evidente in varie sequenze in cui il protagonista compie dei gesti che tutti noi avremmo compiuto nella più semplice delle nostre normalità; indossa una canotta da basket trovata in un cassetto, va verso il frigo e si apre un succo di frutta, con l’aria impigrita di uno studente dell’ultimo anno rimasto a casa durante l’estate per preparare gli esami. Violare l’intimità altrui non per compiere un atto di violenza, bensì semplicemente per abitarla, mette in evidenza il paradosso per cui l’identità individuale, secondo questa filosofia, è un costrutto culturale esteriore nato in buona parte con il compito di difenderla. È il personaggio del marito di lei: ricco borghese sudcoreano, legatissimo alla propria casa – come del resto i borghesi di Parasite – e che tuttavia non sembra mai realmente abitarla, a cominciare dal fatto che indossa sempre una anonima tenuta da lavoro perfettamente confezionata e totalmente fuori contesto nelle scene domestiche. Era inevitabile che, lavorando sul problema dell’intimità nel senso profondo, come spazio intersoggettivo, un cineasta dall’istinto creativo come Kim fosse portato a ragionare sulla categoria formale dello spazio, rifunzionalizzando, almeno in questo film, in modo chiaramente intuitivo ma estremamente efficace, una lezione cinematografica occidentale, che potremmo ritrovare in grandi titoli della nostra tradizione, dalle opere di Chaplin, persino in Billy Wilder (penso a The Apartment) e, soprattutto, al cinema di Stanley Kubrick. Come l’Overlook Hotel, lo spazio delle case di Ferro tre è sempre ripreso, si, in modo tale da essere delimitato e circoscritto da confini precisi, ma anche talora in una relazione straniante con l’individuo che lo abita. È quindi uno spazio anempatico, per usare una felice espressione del semiologo Enrico Carocci, quando Kim sceglie di riprenderlo con totali o campi lunghi, per poi divenire empatico in dei momenti precisi del film: qualcosa di simile allo intimate space ripreso da Wilder, quando stringeva sui primi piani di due personaggi, la cui prossimità risalta in contrasto ad un uso sapiente della profondità di campo.
Il modo di includere la figura nello spazio la fa galleggiare. In tal modo si implica che la casa sia una sorta di spazio intimo che accoglie la coscienza, ma dal cui sguardo in qualche misura la coscienza dipende, nella misura in cui la delimitazione dello spazio coincide sempre con la figura di un soggetto o addirittura di due o tre, che ne racchiudono fra loro la descrizione. La sintesi di questa dialettica fra spazio anempatico ed empatico è del resto l’immagine della cella (ma un discorso a parte meriterebbe l’immagine del lago immerso nella natura) ricorrente in modo ossessivo nel cinema di Kim. L’immagine della cella è uno spazio vuoto par excellence, ma cricoscritto, laddove la vuotezza è una marca della sua natura anempatica, e la circoscrizione spaziale ci ricorda la dipendenza formale e la prossimità ˗ in termini di senso ˗ dello spazio alla coscienza che lo abita.
Mi sembra che questa struttura contrappuntistica rifletta un paradosso politico, che può sembrarci in qualche modo innocuo se non addirittura equivocamente romantico. Ma va tenuto a mente che è in realtà tutt’altro, su di esso si identifica l’intera ideologia, ad esempio, del capitalismo orientale, la cui forza non nasce dalla competizione fra individui, ma nell’idea di dover privilegiare valori intersoggettivi e sovraindividuali al successo del singolo; per non parlare del fatto che, anche in Occidente, autori come Jullien, ci hanno mostrato come dietro l’intimità si nasconde null’altro che lo sguardo della metafisica classica.
Al di là di queste digressioni, però, che ci porterebbero verso un importante dibattito filosofico e geopolitico che non interessa ora, va notato che il film, quando uscì nel 2004, ebbe il merito di mettere in luce la natura anamorfica con la quale ci relazioniamo all’intimità: il luogo par excellence in cui abbandoniamo la nostra distanza intenzionale da ciò che è altro deve essere preservato da strutture intenzionali e difensive. Ne deriva lo svelamento di un dispositivo culturale per cui la morte di un padre, ad esempio ˗ alludo qui ad un’altra memorabile sequenza ˗ è la morte del padre di un altro solo perché tale morte è collocata al di fuori del nostro spazio intimo. Dunque abitare l’intimità altrui significherebbe far cadere questa differenza artificiale, per una visione per cui la morte è soltanto morte, un po’ come la violenza è soltanto violenza; un peso da portare di cui il singolo soggetto è semplicemente un epifenomeno.
Sul piano formale il film procede poi con una radicalizzazione di questa riflessione dello spazio, l’uso della soggettiva tremante telecamera a mano, con cui viene ripreso lo sguardo del protagonista, acquisisce spessore semantico proprio in contrasto con questa rappresentazione dello spazio in quanto delimitato dalla figura umana, che in qualche misura, così facendo, lo caratterizza in senso modale e lo connota emotivamente. La cosa è evidente nella scena finale, in cui lo spazio intimo dei due personaggi che si baciano viene ricavato tramite un primo piano strettissimo che lo delimita nell’istante in cui oltrepassa una soglia, descritta questa invece dal profilo del marito, prima in campo lungo e poi in dettaglio nel primo piano, semantizzando in una certa qual misura, e in modo allusivo, lo spazio dell’intimità che attraversa quello della coscienza intenzionale.
Oltre la riflessione metafisica su spazio e identità, c’è in oltre da aggiungere, Ferro 3 ha messo in luce forse per l’ultima volta nella tradizione recente, con freschezza, una riflessione che anche in Occidente può farsi risalire a Goffmann, che si focalizza sullo scarto fra la soggettività e la rappresentazione: tutti i personaggi del film difendono la loro intimità mettendo in scena dei frame che proteggono la loro sfera intima, la loro casa, ma il paradosso sta nel fatto che oltre questa façade, l’individualità – come un’entità separata – sembra vacillare.
La produzione di Kim ki-duk è poi continuata ad un ritmo tailoristico, negli anni successivi, tirando fuori dal proprio cilindro titoli quasi sempre acuti e in grado di costruire sempre strutture argomentative anche forti sul piano dell’immagine, ma anche meno memorabili, come Time, una riflessione sulla bellezza estetica, o Dream, film molto interessante, che però non ha ottenuto forse la giusta risonanza. Titoli che mi sembra pochi ricordino al di fuori della cerchia dei suoi più accaniti amanti, iniziando in qualche modo a soffrire un po’ della forma dell’apologo moralistico che sembra essere sottesa ad ogni sua sceneggiatura. A rompere questa fase c’è Pietà, che vinse il Leone d’oro anche grazie ad una coraggiosa riflessione in cui la religione cattolica è esaminata per allusione, attraverso alcuni suoi paradigmi essenziali da un occhio culturalmente (relativamente) distante. Con questo film l’autore conferma, fra l’altro, il proprio convinto ateismo, e il proprio interesse per la religione solo in quanto gioco linguistico, solo in quanto forma di vita attraverso cui esplorare i rapporti interumani e istanze profonde di passione, colpa o vendetta che lo interessarono. Si può credo dire che i titoli più recenti come Dissolve oppure Moebius non hanno avuto lo stesso impatto culturale sul gusto europeo, che fu quello del resto che consacrò l’autore; è d’altronde in parte vero che non è mai più riuscito a ritrovare la feconda tensione fra metaforicità ed espressione formale che ha fatto da motore alla sua produzione artistica. Ora che è morto in modo del tutto anonimo, seguendo l’impronta di una mitologia della morte anonima improvvisa e misconosciuta dell’artista, che ha i suoi prodromi archetipici in autori immensi come Mozart, qualche piccola riflessione provvisoria sul suo lavoro si può compiere.
È noto che anche la sua vicenda artistica era stata segnata, di recente, dallo stigma di serie accuse di molestie sessuali che sarebbe ingiusto non ricordare in questo nostra breve analisi; se, come è ovvio, non possiamo esprimerci su vicende di cui non abbiamo conoscenza diretta, non per questo assolvendo colui che ne è stato accusato solo perché è morto, possiamo compiere una piccola riflessione su come recepire la sua eredità.
Si parla spesso con una formula giornalistica semplificatoria e un po’ puerile di “separare l’artista dall’opera d’arte”; chiaramente tale formula non vuol dire molto, ed è stata inventata per giustificare in modo corrivo la fruizione dell’opera d’arte di individui spesso condannati mediaticamente a ragione o a torto. In realtà chiaramente non è possibile separare mai del tutto l’artista dall’opera d’arte, che ne è anzi una sorta di eredità simbolica, un suo prolungamento, quando questi scompare. La questione è più profonda e consiste semmai nel fatto che l’opera d’arte, lungi dall’essere avulsa da problemi etici, comunica con noi su un piano che è quello del senso. Essa non redime dalle loro responsabilità né fruitori né autori, ma ci mostra in modo un po’ scandaloso che esiste una natura non indifferente ˗ come i laghi e i paesaggi ripresi dai molti film di Kim ˗ entro la quale tutti quanti, per quanto abietti o colpevoli, proviamo sentimenti etici. Interpretandola con il linguaggio visuale del nostro autore, essa non sarebbe un paesaggio in cui banalmente rispecchiare narcisisticamente le nostre istanze spirituali, ma piuttosto dove possiamo sentirne il peso. Una concezione etica che intende travalicare, con tutte le ben evidenti pericolosità del caso, il dispositivo della coscienza cartesiana. Un po’ come quel monaco in cerca di redenzione che ha scalato la montagna innevata con, legato in vita il peso di un macigno che, per lui, in quel momento, era la colpa dell’intera umanità.