di Mariano Croce
[Esce oggi in libreria, per DeriveApprodi, Bruno Latour, di Mariano Croce, nella nuova collana essentials. l’essenza di un pensiero in cinque concetti. Ne presentiamo qui l’avvertenza introduttiva e il quinto capitolo]
Avvertenza
Un atto di vilipendio tanto ingiustificato quanto superfluo come lo scrivere di un’autrice o un autore non potrebbe trovare giustificazione migliore che nella filosofia dell’autore di cui qui scrivo. Quella di Bruno Latour è un’indulgenza plenaria, che assolve da tutti gli atti di cattiva comprensione, finanche quelli intenzionali. Che si riveli illuminata oppure sviante, infatti, un’interpretazione rimane pur sempre quello che Latour definirebbe un “ibrido”: una creatura mostruosa, che irrora le membra di un corpo con il sangue e i fluidi di un altro.
Non si intende con ciò avanzare una tesi scettica sui limiti del comprendere umano – a detti limiti, in questo scritto, non si riserverà alcuna attenzione. All’opposto, questa breve introduzione al pensiero di Latour avanzerà (benché implicitamente) una tesi sul potere creativo degli incontri: ogni lettura è un incontro: la creazione di un legame che dà vita a un’entità nuova, sintesi transitoria tra chi legge e ciò che si offre alla lettura. Questo quindi il senso ultimo dell’atto interpretativo cui colpevolmente mi predispongo: offro il mio personale ingresso in una teoria che smonta l’idea rassicurante secondo cui esisterebbero identità stabili nello spazio e nel tempo – come se in un qualche spaziotempo esistesse un Bruno Latour che parla e scrive e in un altro, parallelo, un suo interprete minore, che lo legge e lo spiega. No: qui non c’è che l’esito di un incontro tra esseri che possono vantare la sola virtù della precarietà. Il libretto che segue va inteso come un’indagine su questo strano fenomeno – tanto strano quanto frequente e comune, però, come si vedrà negli esempi che saranno discussi.
A dispetto di quanto dichiarato nell’indice, il testo non è segnato da tappe ordinate in una sequenza inviolabile. Si tratta sì, come prescrivono i protocolli della collana Essentials, di cinque concetti chiave che aspirano a rendere in passaggi più o meno autonomi la filosofia di un’autrice o un autore. Eppure, il loro ordine in sequenza va inteso unicamente come ciò che si ricava da un’attività di taglio, ritaglio e collage: Irriduzionismo, poi attante, poi piattezza, poi ibridi, infine Gaia è la sequenza sortita dal mio incontro con l’opera latouriana ed è il modo in cui chi scrive ha percorso con passo malcerto un territorio tanto scosceso. Ma chi vorrà seguire questi pochi passi potrà cominciare da dove crede. In ibridi, ad esempio, troverà cenni più dettagliati sulla parabola intellettuale che ha portato Latour ad abbracciare certe posizioni, con riferimenti più diretti alle polemiche e ai loro protagonisti. In Gaia potrà ritrovare le questioni per cui Latour è diventato un personaggio pubblico di rilevanza mediatica. I primi tre concetti, invece, costringono a una salita un poco più ripida: irriduzionismo, attante e piattezza introducono infatti alle nozioni metafisiche di più difficile accesso, che chiamano a un esercizio intellettuale assai poco rilassante. Tuttavia, chi scrive non poteva deflettere dalle peculiarità della propria personalissima tesi: non si possono comprendere le posizioni più note e dibattute di Latour senza che ci si procuri una certa familiarità con il suo strumentario metafisico. D’altro canto, si converrà che non sarebbe servita la rapida introduzione che si sta leggendo se si fossero semplicemente ripercorsi testi, come gli ultimi di Latour, che si lasciano leggere senza particolare difficoltà.
Di contro alle ragioni nobili dei quadri introduttivi, quindi, questa breve introduzione per tappe intende creare piccole difficoltà, ossia complicare – in un modo tuttavia che allude al nesso cusaniano di complicatio ed explicatio, per cui ognuno dei cinque concetti, con cui si pretende di spiegare (o quantomeno dispiegare) la filosofia di Latour, co-implica l’insieme del suo pensiero. Sicché, il filo che ho scelto di seguire in questa veloce presentazione del pensiero latouriano comincia con alcune inevitabili (almeno a mio avviso) complicazioni, che via via si riveleranno (si spera) decisive per la comprensione dei due ultimi concetti chiave. Al lettore, però, si lascia la libertà – sempre condizionata dalle trame di uno scritto che, come ogni scritto, una volta terminato, acquista ampi margini di autonomia dal suo autore – di cominciare dalla fine e tornare solo in seguito sulle linee interpretative tracciate nei primi tre concetti chiave.
Gaia
Abbiamo visto come dietro l’analisi latouriana delle prassi scientifiche non muovesse solo né tanto il distacco dalla sociologia della conoscenza scientifica ma anche e soprattutto quella concezione degli eventi come coagulo di attanti su cui ci siamo soffermati nei primi passi di questo percorso. Non stupisce pertanto che, quando Latour tratta dell’altro tema per cui è particolarmente noto al pubblico, cioè la natura, egli faccia di nuovo leva su quella concezione. Questo sfondo metafisico, come vedremo, lo porta a difendere un’idea della natura che non segue l’approccio tipico dell’ambientalismo contemporaneo. Proprio perché, come s’è accennato poco sopra, l’attitudine metodologica di Latour è postcritica – nel senso che cerca di rinvenire quei collegamenti tra le cose che sono in grado di fare la differenza non in un futuro migliore ma nel mondo ricco di ambivalenze del qui e ora – egli non si concentra tanto sulle azioni folli dell’essere umano a danno della natura, che certo non ha difficoltà a riconoscere, quanto sul fatto che la frattura (immaginaria) tra natura e società sia la radice stessa della follia.
Per inquadrare meglio il discorso di Latour sarà necessario un breve excursus in uno dei temi più in voga nell’ultimo ventennio. Nel 2000, Paul Crutzen e Eugene Stoermer coniano il fortunato termine “antropocene” per significare l’era geologica, che fa seguito all’olocene, in cui l’attività del genere umano altera processi chiave del sistema ambientale e determina cambiamenti senza precedenti nelle condizioni climatiche della Terra. Secondo alcune/i critiche/i, tra cui T. J. Demos, Donna Haraway, Jason Moore, il termine è tutt’altro che felice per due ragioni di fondo. Da un punto di vista teorico, non fa che rimarcare l’antropocentrismo tipico della prospettiva umana sul mondo, incapace di decentrarsi per ottenere una visione più chiara. Da un punto di vista politico, pone un astratto anthropos al centro della scena e vela le responsabilità dello sviluppo capitalistico, il vero propulsore della catastrofe ambientale in corso.
Eppure, per ragioni assai simili a quelle che inducono i più critici a rigettare il termine, Latour ne fa un uso consapevole e, come suo solito, provocatorio: “L’‘anthropos’ che viene spinto al centro della scena dai geologi non è l’entità passiva che popolava le vecchie storie piene di agenti causali ‘naturali’. È un essere inevitabilmente dotato di una storia morale e politica”[1]. Detto altrimenti, il dibattito sull’antropocene costringe le scienze dure a un’opera di commistione, che le obbliga a superare la concezione tradizionale dell’essere umano in termini di composti proteici e reazioni chimiche. Benché antropocentrica, l’etichetta in questione, ad avviso di Latour, ha il merito di sovvertire le divisioni classiche tra approcci alla vita del Pianeta, nella rinnovata consapevolezza che il naturale e il sociale sono indistinguibili.
Eppure, continua Latour, l’antropocentrismo dell’antropocene si ritorce contro sé stesso proprio perché l’azione umana viene reintrodotta in una messe di azioni che non possono attribuirsi all’agente singolo, al soggetto inteso in senso classico. Rimane questo il fulcro dei suoi argomenti: il ripensamento dell’attore come rete associativa in una scena attanziale. Proprio quando l’essere umano viene caricato della responsabilità di un disastro ecologico imminente, proprio allorché lo si tratta come attore sociale che agisce sulla natura, egli perde le proprietà di soggetto autonomo e viene ripensato come una catena di agency. Nel libro in cui prende in esame il tema delle condizioni della Terra, Latour torna su questo precipitato decisivo della sua concezione metafisica: “Essere un soggetto non significa agire in modo autonomo in rapporto a un contesto oggettivo, ma piuttosto condividere l’agency con altri soggetti che hanno ugualmente perso la loro autonomia. […] Non appena ci accostiamo a esseri non umani, non riscontriamo in loro l’inerzia che ci consentirebbe, per contrasto, di pensarci come agenti, ma, al contrario, troviamo agency che non sono più senza legame con quel che siamo e quel che facciamo”[2]. L’antropocene dà nuova visibilità alla zona metamorfica.
La crisi ambientale è quindi un nuovo terreno di prova per la metafisica, che di quest’ultima celebra proprio il carattere di riserva per la fisica: un laboratorio concettuale che consente alle scienze di affrancarsi dai vocabolari ormai desueti della modernità e di far conto su risorse linguistiche e immaginative del tutto nuove. Per fare nuovo ingresso in un Pianeta sull’orlo dell’abisso, la metafisica di Latour mette in questione la distinzione classica tra mondo, nel senso di contesto di significati prodotti dall’essere umano, e ambiente, ossia l’insieme degli eventi fisici, chimici e biologici – distinzione che alcune famiglie filosofiche del Novecento hanno considerata come centrale per qualificare l’umano.
L’ecologia di Latour non è “l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della “natura” intesa come concetto che ci consentirebbe di riassumere i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli”[3]. Per comprendere il mondo, inteso come mescolanza indiscernibile di enti, occorre porsi un problema di “composizione”, così da poter individuare appunto i tipi di assemblaggi che hanno condotto alle condizioni del presente. Latour ripropone così un’agenda irriduzionista, che sgomberi il campo da mitologie deleterie e tutte moderne, quali il ritorno a una condizione d’origine o il ripristino di una condizione naturale perduta. Non c’è nessun posto in cui tornare, ma solo indagini da avviare: indagini sui tipi di agency che certe connessioni scatenano per produrre certi eventi. È in nome di questa centralità delle connessioni per la produzione della natura che Latour entra del novero dei fautori dell’ipotesi Gaia.
Si tratta di una teoria introdotta da Jim Lovelock e Lynn Margulis a partire dai primi anni ‘70 del Novecento per articolare una nuova prospettiva sul ruolo della vita nella biosfera: l’interazione tra il biota, cioè il complesso degli organismi che occupano una data regione in un ecosistema, e l’ambiente fisico e chimico è talmente ampia da funzionare come meccanismo sistemico per il controllo biogeoclimatico. Leva di questa ipotesi è che la vita non solo incide sui cicli geochimici e il clima, ma è persino capace di farsene regolatrice. Gaia, personificazione della Terra nella mitologia greca, può essere definita come un sistema termodinamico aperto a scala planetaria, nel quale la vita è supportata da un abbondante flusso di energia proveniente da una stella vicina. Tale sistema è in grado di autoregolarsi in forza di risposte retroattive (feedback) positive e negative che mutano entro un regime evolutivo. La teoria Gaia è tesa allo studio di questo sistema, a partire dall’idea per cui la vita incide sull’ambiente, gli organismi crescono e si moltiplicano, l’ambiente pone un freno alla crescita assieme alla selezione naturale, che pure a sua volta vi incide.
Il sistema termodinamico aperto corrisponde alla superficie della terra, che comprende la vita (il biota), l’atmosfera, l’idrosfera (oceani, ghiacci e acque dolci), la materia organica morta, il suolo, i sedimenti e le parti della crosta terrestre che più interagiscono con i processi di superficie. Gaia non è il “sistema terra”, perché questo include stati che precedono le origini della vita (a differenza di Gaia, che per definizione comprende la vita). Né Gaia è la biosfera, cioè la regione nella quale si danno le condizioni indispensabili per la vita e che quindi comprende l’insieme degli organismi viventi, perché i confini di Gaia si estendono ben oltre le regioni popolate da questi ultimi. Il sistema Gaia si caratterizza invece per quattro proprietà, che, prese assieme, lo rendono diverso dagli altri Pianeti: la stabilità, la regolazione, il feedback loop e l’autoregolazione.
La stabilità è una proprietà di molti sistemi e da sé non distingue Gaia da altri. Di grande interesse è tuttavia il grado di stabilità delle variabili di stato di Gaia, ovvero lo spettro di perturbazioni cui può resistere. La regolazione descrive il rientro di una data variabile in una condizione di stabilità dopo una perturbazione. Di nuovo, il grado di regolazione di Gaia è notevole, sia per resistenza alle alterazioni della perturbazione sia per resilienza, cioè il ritorno alla stabilità. Il feedback loop ha a che fare con l’interazione tra variabili, laddove il cambiamento di una variabile avvia la risposta di altre, che retroagiscono sulla prima. In Gaia, è una catena di retroazioni a determinare il comportamento complessivo del sistema. L’autoregolazione descrive il modo in cui il sistema torna a uno stato di stabilità senza l’intervento di agenti esterni[4].
L’ipotesi Gaia e la teoria che ne sortì incontrarono da subito l’ostilità della comunità scientifica per una serie di fattori. Da un punto di vista metodologico, l’ipotesi è per sua natura impiantata su una multidisciplinarità che richiede un complesso ampio di saperi, di contro all’iperspecialismo dominante negli approcci scientifici. Ma ben più pesante è il limite dovuto alle risonanze dell’ipotesi fuori dall’ambito scientifico. Lo stesso nome (suggerito a Lovelock dallo scrittore William Golding), che richiama un essere divino dotato di volere e capace di azione, esibisce tracce di un vitalismo niente affatto in linea con le concezioni della scienza contemporanea. Questa commistione di scienza e suggestioni ascientifiche complica l’ipotesi, perché ne mobilità quel mix di vitalismo, organicismo e finalismo, che, sebbene ripudiato dai suoi promotori in ambito scientifico, sembra sotteso all’ipotesi e la rende facile preda di vagheggiamenti new age e neo-pagani: Madre Terra come entità vivente e dotata di intenzione, capace cioè di perseguire il fine della vita.
La difesa di Latour, al solito, è peculiare: prende Gaia a conferma del quadro metafisico che egli propone per ripensare la natura. Non sorprende pertanto che le sue preoccupazioni principali siano quelle di rimuovere la tendenza a personalizzare Gaia e di confutarne l’immagine di totalità autosufficiente e autoregolantesi: Gaia non è la Dea Madre che nutre e protegge la Terra. È vero, scrive Latour, che l’ipotesi Gaia parla di una embricazione che dà forma a un processo unico e indivisibile. Ma, prosegue, è il processo di embricazione a essere unico e indivisibile, non le sue attualizzazioni. Questa osservazione diventa più comprensibile se si ritorna ai primi passi del nostro percorso. Ho infatti descritto il mondo, per come visto da Latour, come un concatenamento di reti, in cui queste precipitano sempre in nodi. Non esiste la totalità della rete senza i suoi nodi, cioè gli eventi unici e irriducibili in cui di volta in volta si condensano le forze degli attanti. In questa ottica, l’idea di una totalità disconoscerebbe il ruolo imprescindibile degli eventi, cioè dei nodi in cui le reti si condensano.
Non c’è alcuna “grande catena dell’essere”, ma un’interazione tra enti i cui effetti si muovono come per “onde di azione che non rispettano alcuna frontiera e, più importante ancora, non rispettano mai alcuna scala fissa”[5]. Il concatenamento è dato quindi solo nei suoi effetti, non già in una presunta entità totale e indivisibile. La visione unificante, che i critici dell’ipotesi Gaia le imputano e che pone al centro della scena un’entità quasi-divina, nega proprio quello che Lovelock e Margulis intendevano evidenziare, ovvero il carattere caotico e al contempo interconnesso degli eventi. Non c’è quindi un organismo superiore che rappresenti la totalità rispetto alle sue parti. Se, come si è visto sopra, Latour rigetta sin da subito l’idea di tutto e parti come infondata, l’ipotesi Gaia ne conferma l’infondatezza con un attacco deciso alle nozioni di organismo, di parte e di tutto e con la messa in risalto dell’interazione tra enti, i cui effetti non sono assegnabili a nessuna scala prestabilita.
Latour presenta piuttosto Gaia come l’etichetta per un progetto dirompente che, nel tentativo di superare i limiti teorici delle scienze naturali, vuole descrivere il processo attraverso il quale eventi variabili e contingenti rendono più probabili certi eventi e meno probabili altri. Gli scivolamenti linguistici che gli accusatori di Lovelock leggono come marcatori di una tendenza a nutrire visioni ascientifiche sono presentati da Latour come i segni dello sforzo di superare il lessico consolidato delle scienze, ancora succubo della distinzione tra natura e cultura. Si tratta di piccoli tentativi, strappi, tentennamenti, esitazioni, oscillazioni che indicano la ricerca di una via d’uscita.
Latour offre un’esemplificazione del modello di ricerca ispirato all’ipotesi di Lovelock – modello che, così piegato, non fa che riflettere i principi di fondo dell’associologia. Primo, si scelga un certo ente, un fenomeno come, ad esempio, la respirazione dei batteri o l’erosione delle rocce sedimentarie. Secondo, si sposti l’attenzione intorno a ciò che lo circonda. Terzo, si rinvengano in questo spazio le trasformazioni indotte dall’ente che si sta studiando. Quarto, si guardi quindi alle trasformazioni che queste trasformazioni a loro volta avviano su quell’ente. Quinto, si mettano assieme i reciproci effetti attraverso l’uso della nozione di feedback, non perché esistano una macchina o un ingegnere che presiedano alle dinamiche osservate, ma perché il concetto in questione restituisce bene l’idea di una connessione profonda. Sesto, si utilizzi pure la nozione di feedback loop come punto di partenza per descrivere effetti e retroazioni. Settimo, si ricominci daccapo, in modo tale però che l’idea di “ente più ciò che lo circonda” venga sostituita da loop che interagiscono con altri loop. Ottavo, si riveda la descrizione ottenuta in modo che i loop non finiscano con l’essere assorbiti da un’entità più comprensiva che sovrasti l’ente da cui ha preso avvio l’indagine – in sostanza, si eviti qualsiasi “coerenza additiva”[6].
Questa è la procedura da seguire per un’adeguata scienza delle composizioni – ad avviso di Latour, l’unico percorso che consenta di fare a meno della distinzione tra dentro e fuori, e quindi di quella tra entità e contesto, per guardare sempre e solo alle catene di effetti prodotte dal lavorio degli attanti. Questa metodologia consente finalmente, agli occhi di Latour, di disfarsi della metafora, anch’essa tutta moderna, di organismi che vivono dentro un ambiente. Come scrive Haraway[7] – per Latour interlocutrice di vecchia data – la realtà non è che un insieme di composizioni parziali. Compost: il deciso opposto di una divinità onnicomprensiva e totalizzante. Non c’è alcuna entità superiore che controlli e regoli, ma solo enti, disposti sullo stesso piano, che agiscono e sono fatti agire.
Nella lettura di Latour, là dove non si invoca mai una causa superiore per giustificare certi effetti, non può esserci spazio per vitalismi di sorta. Da nessuna parte Lovelock introduce la vita come spiegazione dei fenomeni, i quali possono dirsi “vivi” nel senso che i loro effetti sono interrelati. Per questa ragione, Latour vede in Lovelock una conferma della propria ipotesi teorica: per dare conto di oggetti vivi, non occorre postulare l’esistenza di un organismo o una struttura superiore che li sovrasti e li includa. La piena connettività non necessita di alcun olismo. Di nuovo, dunque, si ripropone quella rottura di gerarchie tra reti e nodi di cui s’è parlato sopra.
Dinanzi alla proposta articolata sin qui, legata a doppio filo a una visione della realtà così peculiare, si può certamente sostenere che, da un punto di vista più pratico, l’ecologia politica di Latour sia assai poco politica. Come dirò meglio verso la conclusione, egli in effetti non offre indicazioni chiare circa ciò che si dovrebbe fare per arrestare o quantomeno rallentare il disastro climatico[8]. A motivo delle venature impolitiche di questa metafisica, alcuni critici hanno sostenuto che questa posizione sull’ambiente rispecchia “la posizione avanzata di un’intellighenzia moderatamente progressista che si rende conto di come la situazione richieda interventi radicali ma si ostina a credere che il mondo in cui è prosperata, e che per essa costituisce quindi il migliore dei mondi possibili, possa essere salvaguardato nelle sue coordinate fondamentali”[9].
Nelle poche righe che mancano al termine del nostro percorso, non intendo certo replicare a queste critiche, che credo tocchino problemi aperti dell’analisi latouriana. Quel che piuttosto mi interessa ai fini del discorso svolto in queste cinque tappe è mostrare la coerenza di un paradigma che, se manca di mordente critico, è innanzitutto perché si propone l’obiettivo di articolare, con coerenza, una posizione metafisica capace di avere ampie ricadute sul modo in cui l’essere umano sta al mondo – ricadute che non chiamano tanto a cambiamenti politici di massa, quanto a una rinnovata consapevolezza dei legami tra le cose.
La mia lettura credo trovi conferma in uno degli scritti più recenti di Latour, Tracciare la rotta, in cui egli dà sfogo alla vena più pratica delle sue posizioni sul cambiamento climatico e prova ad articolare una posizione politica. Latour non rinnega in alcun modo l’impianto metafisico che trova la sua acme nell’ontologia piatta e ribadisce la sua riluttanza rispetto al carattere artificiale della modernità; eppure, in confronto ai testi di qualche anno prima, assume un tono più critico verso i responsabili della situazione di grave pericolo in cui ci troviamo. Egli chiama infatti i lettori a unirsi nella lotta a tre tendenze, tipiche degli ultimi decenni, che presenta come intimamente connesse: la cosiddetta “deregulation”, la crescita sempre più vertiginosa delle disuguaglianze e la negazione del mutamento climatico. Il bersaglio polemico di Latour è altrettanto chiaro: la rassegnazione delle “classi dirigenti (quelle che oggi chiamiamo, in modo alquanto vago, ‘élite’)”, pervenute oramai alla conclusione “che sulla terra non ci sia più posto sufficiente per sé e per il resto dei suoi abitanti”[10].
Con accenti che appunto non si trovano in testi precedenti – e che forse tradiscono un poco di moralismo irriflesso –, la condanna di Latour non riguarda più la modernità in sé, ma quella globalizzata, la cui colpa è quella di ridurre la pluralità a tutto vantaggio dell’omogeneità. Mentre il globale tende ad annientare le differenze locali, il locale reagisce con una corsa altrettanto inspiegabile verso un’omogeneità in scala ridotta: “Tradizione, protezione, identità e certezza all’interno di frontiere nazionali o etniche”: “Ci si ritrova come i passeggeri di un aereo decollato con destinazione Globale, ai quali il pilota ha annunciato di essere costretto a invertire la rotta perché non è più possibile atterrare in quell’aeroporto, e che terrorizzati si sentono dire (‘Ladies and gentlemen, this is the captain speaking again’) che anche la pista di soccorso, il Locale, è impraticabile”[11].
Dinanzi a tale concorso di colpe, tuttavia, come anche notano i suoi detrattori, l’attenzione di Latour non si accentra sugli interessi e le scelte di chi promuove l’omogeneità multiscala del globale e del locale. L’urgenza che egli sottolinea, piuttosto, è quella di un rapido e deciso riorientamento verso la Terra. Di nuovo, egli torna sul perverso isolamento della natura come l’ambito dei fatti bruti. A suo avviso, occorre riportare l’attenzione dalla “natura” al Terrestre tramite una riarticolazione della vita umana sulla Terra, che parta dall’analisi dei “sistemi generativi” e non dei “sistemi produttivi”. L’analisi dei sistemi generativi non esalta la libertà, ma la dipendenza, e lo fa in modo da favorire una redistribuzione dell’agency che dislochi l’umano – non più centro né cardine della vita terrestre. Il sistema generativo di cui parla Latour ricomprende la congerie di attori esaltata nella sua metafisica e di cui al contempo si rifiuta di fornire una lista predefinita. Il Nuovo Regime Climatico priva una volta per tutte l’umano della sua (autoassegnata) centralità e getta una nuova luce sulle composizioni e le configurazioni cui l’umano dà luogo insieme al non-umano.
In questo movimento verso la Terra, l’umano trova un nuovo orientamento: bisogna capire quali siano i rapporti di dipendenza che consentono la vita terrestre e quindi possano correggere la rotta verso il disastro. Non c’è nessuna ricetta globale, ma solo sperimentazioni locali, che aprano a concatenamenti più ampi e meno autocentrati. Nessuna globalità né località assolute, ma solo l’embricazione di nodi, ottenuta attraverso una nuova attitudine alla ricerca degli enti che compongono il mondo: “È esattamente ciò di cui c’è bisogno: una sperimentazione locale di ciò che significa abitare una terra dopo la modernizzazione, insieme a coloro che la modernizzazione ha definitivamente spostato”[12].
Come si accennava sopra, anche nel caso di Tracciare la rotta le indicazioni pratiche sono distribuite sotto forma dei consueti tropi, mentre l’analisi dei “responsabili” della crisi climatica viene affidata alla ricorrente messa al bando della modernità. Eppure, ad avviso di chi scrive, è proprio questa la forza del pensiero di Latour, i cui passaggi meno esaltanti sono piuttosto i timidi eccessi di critica presenti negli ultimi lavori. L’impianto teorico di Latour, infatti, si presta male alla critica (qui intesa nel suo senso più tradizionale di diagnosi e denuncia delle forme meno consapevoli di adesione a certe convinzioni e a certe condotte) e si rivela assai più felice quando chiama alla ricostruzione dei legami che conferiscono identità alle cose. La (giusta e sensata) denuncia di un futuro compromesso dall’adesione scellerata a modi di vita, che non fanno certo l’interesse di chi li adotta, in Latour, cede il passo all’attitudine compositiva, cioè alla ricerca delle connessioni generative – quelle che consentono il massimo della pluralità e garantiscono il minimo dell’esclusione.
In questa ottica compositiva, di recente Latour ha offerto indicazioni che, sebbene poco definite, non sono affatto prive di rilevanza per un concreto ripensamento della politica contemporanea – di cui la questione climatica non è che una delle articolazioni, benché importante. La sperimentazione locale, infatti, è l’unica che possa “ricomporre” la politica odierna “pezzo per pezzo”[13]. Si dovrà però ripartire da modi nuovi di fare il collettivo, che si calino in formazioni locali, capaci di offrire fermenti innovatori che andranno raccolti in nuovi “cahiers de doléances” – cioè quei registri della Francia prerivoluzionaria in cui, per ciascuno dei tre ordini (clero, nobiltà e terzo stato), si raccoglievano le lamentele e le proposte da presentare al Re. Si dovrà passare attraverso i vari coaguli del sociale cui la politica rappresentativa tradizionale non dà voce, includere la loro prospettiva e desistere dalla pretesa di voler rappresentare un’inconsistente omogeneità del corpo pubblico. Nello scenario attuale, infatti, “non c’è più alcun collettivo stabile capace di assemblarsi da sé per redigere un cahier comune votato all’unanimità”[14]. Si dovrà tornare a una politica deliberatamente frammentata, che della frammentazione sappia fare una virtù, pronta a disfarsi delle astrazioni artificiali della politica tardo-moderna. Tale rinnovato orientamento al locale – che, come l’ontologia latouriana coglie con efficacia, è pur sempre in continuità con le realtà limitrofe e via via con livelli più comprensivi – dovrà guardare ai collettivi ad hoc che si agglutinano attorno a problemi circostanziali e generano normatività allorché producono le risorse per risolverli.
In piena coerenza con la metafisica dell’evento descritta nella prima parte di questa breve introduzione, Latour esalta una politica pluralista di corpi che si assemblano spontaneamente in risposta a circostanze inanticipabili e che come tali non trovano rispondenza in una politica che si gioca tra le parti e i partiti dei due secoli passati. Benché Latour non approfondisca questa intuizione – ad avviso di chi scrive decisiva per il ripensamento delle forme politiche del presente –, non c’è dubbio che in essa di nuovo risuoni l’eco della linea di pensiero, a più riprese richiamata sopra, che lega Spinoza a Deleuze passando per Tarde e Whitehead. Una metafisica con risvolti immediatamente pratico-politici, perché incamera la forza sprigionata dalla composizione di corpi che danno forma ad altri corpi e sono in grado di mutare, per effetti di risonanza, il corpo più ampio della popolazione – il quale è un corpo solo all’apparenza omogeneo, dacché è frammentato a diversi livelli e su diverse scale.
Se all’opera latouriana non si può chiedere di essere critica, vale a dire, come ho specificato poco sopra, di proporsi come analisi dei differenziali di potere, dei meccanismi di oppressione, delle forme di dominio e sfruttamento, essa però non è affatto impolitica: il lascito che essa raccoglie e di cui si fa tedofora è intimamente politico allorché richiama gli umani ad assumere una più consapevole capacità di posizionamento nell’intrico locale di legami in virtù del quale sono quel che sono e danno forma a collettivi transitori. Questo posizionamento, Latour insiste, rende alcuni eventi più probabili e ne preclude altri. È questa l’indicazione, certo indiretta ma forte, che si ricava dalle analisi latouriane: seguire le linee che ci uniscono alle cose, non interrompere la ricerca delle connessioni che danno corpo alla nostra identità di attori, non stancarsi mai di perseguire tutte le linee e aumentare la complessità del quadro. La consapevolezza che se ne ricaverà è quella del legame a una congerie di elementi dalla natura proteiforme, capace (si spera) di indurre un maggior rispetto per ogni forma di vita, finanche la più distante – una distanza che la ricerca delle connessioni rivelerà comunque come un errore di prospettiva.
Note
[1] B. Latour, Anthropology at the Time of the Anthropocene: A Personal View of What Is to be Studied, in Marc Brightman, Jerome Lewis (eds), The Anthropology of Sustainability: Beyond Development and Progress, Palgrave, New York 2017, pp. 35-41: p. 38.
[2] B. Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020, pp. 101-102.
[3] Ivi, pp. 65-66.
[4] Cfr. S. Schneider et al., Scientists Debate Gaia: The Next Century, MIT Press, Cambridge, MA 2004.
[5] Latour, La sfida di Gaia, cit. p. 152.
[6] Cfr. B. Latour, Why Gaia is not a God of Totality, «Theory, Culture & Society», 34(2-3), pp. 61-81.
[7] D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
[8] A. J. Vetlesen, Cosmologies of the Anthropocene: Panpsychism, Animism, and the Limits of Posthumanism, Routledge, Abingdon 2019.
[9] L. Pellizzoni, Modernità o capitalismo? Tornare davvero sulla terra, «Quaderni di Sociologia», 79, pp. 151-157: p. 157.
[10] B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Cortina, Milano 2020, p. 8.
[11] Ivi, p. 44.
[12] Ivi, p. 135.
[13] B. Latour, Les nouveaux cahiers de doléances. À la recherche de l’hétéronomie politique, «Esprit», mars 2019
[14] Ibidem.
[Immagine: Bruno Latour].