di Pierluigi Pellini

 

[Da qualche settimana è in libreria, per Quodlibet, l’ultimo libro di Pierluigi Pellini, La guerra al buio. Céline e la tradizione del romanzo bellico (pp. 128, euro 12). Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, ne pubblichiamo il primo capitoletto].

 

1. La cavalleria appiedata. Il primo capitolo di Voyage au bout de la nuit – impiego per semplicità il termine ‘capitolo’, anche se le partizioni interne del romanzo, come è noto, non sono numerate, ma semplicemente indicate da spazi bianchi: sarebbe più corretto parlare di ‘sequenze’ – racconta l’arruolamento del protagonista, Ferdinand Bardamu. Partito volontario al seguito di una fanfara militare, che osserva casualmente sfilare, seduto a un caffè di place Clichy, vede progressivamente scemare l’entusiasmo della popolazione, al passare del reggimento, e vacillare il fervore patriottico dei commilitoni. Ben presto i soldati si sentono «in trappola, come topi». Così si conclude il capitolo: «On était faits, comme des rats» (l’ineffabile traduzione italiana di Ernesto Ferrero rende: «Eravamo fatti, come topi» – roditori eroinomani?).[i] I tre capitoli successivi, dal secondo al quarto, costituiscono la sezione propriamente bellica del capolavoro di Céline: quantitativamente molto ridotta, ma decisiva nel fondare la visione del mondo del protagonista e l’immaginario dell’intero libro, la sua antropologia romanzesca.

 

Siamo sul fronte della Mosa, nei primi mesi del conflitto. Il reggimento di Ferdinand è coinvolto all’incirca nelle stesse operazioni che hanno visto protagonista il 12° corazzieri di cui ha fatto parte, nella realtà storica, il brigadiere Louis Destouches: nell’agosto del 1914, ha un ruolo marginale nella cosiddetta ‘battaglia delle frontiere’; poi risale verso le Ardenne, entra in Belgio e in ottobre partecipa alla prima battaglia di Ypres (nelle cui vicinanze, a Poelkapelle, Destouches è rimasto ferito a fine ottobre). Ma il racconto è autobiografico in misura alquanto ridotta: non solo per Ferdinand la guerra è da subito un’«imbécillité infernale»,[ii] del tutto incomprensibile («La guerre en somme c’était tout ce qu’on ne comprenait pas»),[iii] «Une immense, universelle moquerie»,[iv] mentre le lettere ai familiari scritte dal sottufficiale che diventerà Céline sono testimonianza di un’adesione quasi sempre convinta alla retorica nazionalista e militarista («Tout va bien. Nous reviendrons couverts de lauriers»: 2 agosto 1914)[v] – e infatti la ferita è conseguenza di un’azione pericolosissima, per cui Destouches, eroicamente, si è offerto volontario.[vi] Soprattutto, l’ordine cronologico dei frammenti di battaglia e delle peregrinazioni notturne di cui riferisce il romanzo è forzato e a tratti stravolto: se il percorso geografico (dalla Mosa a Ypres) e la successione storica (da agosto a ottobre) ricalcano la realtà, più significative appaiono le frequenti incongruenze.

 

Il secondo capitolo del Voyage inizia così: «Une fois qu’on y est, on y est bien. Ils nous firent monter à cheval et puis au bout de deux mois qu’on était là-dessus, remis à pied. Peut-être à cause que ça coutait trop cher».[vii] Quella ‘delle frontiere’ è battaglia per molti versi ancora ‘classica’, guerra di movimento: solo alla fine dell’autunno il fronte si immobilizza e inizia la guerra di trincea – Céline, nel Voyage, racconta una Grande Guerra atipica. Tuttavia, fin dalle prime settimane del conflitto, la cavalleria è scarsamente utilizzata; intorno al 20 ottobre, poco prima di essere ferito, Destouches scrive ai genitori: «Peu de grosses charges mais en général une guerre d’embuscade où la mitrailleuse fait de terribles ravages».[viii] Anche prima di marcire nelle trincee, i soldati della Grande Guerra fanno i conti con un sistematico rovesciamento dei paradigmi della Western Way of War:[ix] imboscate e non scontri frontali; piccoli tafferugli e non battaglie decisive; niente contatto diretto con il nemico – di qui lo stupore di Ferdinand, nel Voyage: «Ce qu’on faisait à se tirer dessus, comme ça, sans même se voir, n’était pas défendu».[x]

 

Soprattutto, la cavalleria rimane nelle retrovie, per poi essere, parzialmente e progressivamente, riconvertita in fanteria. E non certo perché costasse troppo, come sembra suggerire il narratore del Voyage: qui, come spesso, palesemente inaffidabile, oltre che incline a riportare ogni avvenimento a motivazioni economiche, allo scontro fra chi detiene il potere del denaro e chi ne subisce l’arroganza. Il fatto è che, del tutto inerme di fronte alla potenza di fuoco dell’artiglieria tedesca, destinata in caso di attacco a essere interamente falcidiata dalla mitraglia ancor prima di arrivare a contatto con le truppe nemiche, la cavalleria è semplicemente inutile. Per questo viene per lo più risparmiata. A fine settembre (in effetti, come dice il romanzo, «au bout de deux mois»), i primi reggimenti di corazzieri a cavallo vengono appiedati. La guerra tecnologica, in poche settimane, mostra l’obsolescenza dei reparti d’élite dell’esercito francese: con uno choc simbolico di portata decisiva, se è vero che la cavalleria aveva, tradizionalmente, nella nobiltà un serbatoio di reclutamento privilegiato (e ancora significativo all’inizio del Novecento); oltre a essere, nell’immaginario collettivo francese, emblema quasi mitico dell’eroismo nazionale. Alvaro Barbieri, rubando una battuta a un libro di Chatwin, ha osservato: «Vale per i cavalieri dell’età feudale la stessa massima che si applica ai mandriani e ai pistoleri delle grandi pianure americane: “un uomo appiedato non è un uomo”».[xi] Mutatis mutandis, qualcosa di simile dovevano pensare, magari inconsciamente, anche i soldati a cavallo del 1914.

 

È vero che già la guerra di Crimea, e poi quella franco-prussiana del 1870, avevano mostrato i limiti del combattimento a cavallo, sempre meno efficace nelle operazioni di sfondamento (e semmai ancora fondamentale per ricognizioni e collegamenti); tuttavia, per un corazziere francese ventenne, nutrito alla scuola reclute dai racconti delle più eroiche cariche a cavallo della storia patria (in primis napoleonica), e magari anche imbevuto di immaginario letterario (nei Misérables di Victor Hugo, usciti nel 1862, l’inutile e probabilmente sciocco sacrificio della cavalleria di Ney, a Waterloo, è avvolto, come tutti ricordano, in un alone epico: solo per due sfortunate contingenze – un fossato invisibile a distanza, l’arrivo della cavalleria prussiana – non cambia il corso della battaglia e della storia),[xii] per un corazziere al battesimo del fuoco, nei primi giorni della Grande Guerra, dicevo, era ancora ovvio pensare che la cavalleria avrebbe risolto le sorti del conflitto.[xiii]

 

Così scrive, infatti, Louis Destouches ai genitori, il 3 agosto, da Loupement, nella piana della Woëvre, sulla Mosa: «on attirera l’ennemi probablement le plus près possible des forts qui sont derrière nous, Gironville, Liouville et le Camp des Romains, puis on utilisera leurs feux convergents pour les aplatir et ensuite on lancera pour achever la défaite la division de cavalerie dont nous faisons partie».[xiv] Meno di dieci giorni più tardi, la realtà ha smentito brutalmente le previsioni. Il giovane Destouches ha potuto osservare il «travail désastreux», il «lavoro disastroso» compiuto dalle mitragliatrici tedesche sulle rive della Mosa: i cacciatori a piedi, così racconta intorno al 12 agosto, «tombent sur 4 mitrailleuses allemandes qui en fauchent 200 en deux minutes exactement à 700 mètres de nous. C’est affreux».[xv] Inoltre, ha avuto qualche notizia delle sconfitte subite dai francesi più a sud – i primi tre mesi sul fronte occidentale, conviene ricordarlo, sono i più cruenti dell’intera Grande Guerra: mai, nei quattro anni successivi, si registreranno altrettanti morti in così poco tempo. Racconta Destouches, nella stessa lettera ai genitori: «comme les Allemands fuient pour nous attirer dans leur tranchées, le colonel refuse le combat et nous regagnons nos cantonnements afin de ne pas faire comme le 7e et le 10e cuir de Lyon qui ont été complètement anéantis à Mulhouse».[xvi] Se la cavalleria accetta il combattimento, va incontro a morte certa: per il reggimento di Destouches, la battaglia delle frontiere si risolve perciò in una defatigante, frustrante risalita verso nord.

 

Il nemico è quasi sempre invisibile; non così i suoi proiettili: che piovono di giorno e anche di notte, quando Louis – addetto, come poi Ferdinand, agli approvvigionamenti – si muove vicino alla linea del fronte per portare cibo al reggimento. La guerra prende una piega imprevista e il corazziere Destouches, come molti suoi commilitoni, ha una reazione contraddittoria, di cui sono testimonianza, ancora una volta, le lettere ai genitori: da un lato lo sfinimento degli interminabili spostamenti gli fa desiderare l’azione («Vivement l’action», «Non vedo l’ora di agire»: intorno alla metà di agosto), se non altro – con il passare delle settimane – per farla finita con la fatica massacrante e con i disagi crescenti («la fatigue vous berce pour vous jeter dans la mort que l’on souhaite presque comme un repos final»: 4 ottobre);[xvii] dall’altro osserva con inquietudine i disastri che si registrano ogniqualvolta si verifica uno scontro diretto: «Le 7e dragons a chargé, beaucoup de pertes»: 25 settembre).[xviii] Stanchezza mortale («jamais de plus que deux ou trois heures», «mai più di due o tre ore» di sonno per notte: 15 settembre), senso di impotenza, preoccupazione e nausea per le piaghe di cui sono coperti quasi tutti i cavalli («les dos des chevaux sont tellement abîmés que l’odeur qu’elle dégage dans les cantonnements est intenable lorsque l’on enlève les couvertures»: ancora 15 settembre):[xix] questa la condizione, fisica e morale, di Louis Destouches – e, in generale, della cavalleria francese – quando entra in Belgio e, a fine settembre, inizia (non certo per motivi economici) a essere progressivamente appiedata.

 

Il fatto è che, esattamente come l’introduzione delle prime armi da fuoco nelle guerre rinascimentali, i progressi dell’artiglieria fra fine Ottocento e inizio Novecento non cambiano solo le tecniche della guerra: rendono obsoleto un intero immaginario bellico, sconvolgono al tempo stesso un insieme di topoi letterari di antica data e gli elementi decisivi dell’antropologia del combattimento occidentale. Segnano uno spartiacque: la guerra non può ormai essere né vissuta, né raccontata, come prima.

 

Note

 

[i] Cito il testo francese dall’edizione della «Bibliothèque de la Pléiade» curata da Henri Godard: Céline, Romans, vol. I, Voyage au bout de la nuit, Mort à crédit, Gallimard, Paris 1981 (qui, p. 10; d’ora in poi userò l’abbreviazione Pléiade I). La traduzione di Ernesto Ferrero si legge in L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte. Romanzo, Corbaccio, Milano 1992 (qui, p. 17). Sulle tematiche belliche in Céline, ricordo per ora solo gli atti del convegno di Caen del 2006, Céline et la guerre, Société d’études céliniennes, Paris 2007 (alla sola seconda guerra mondiale è dedicato il contributo, assai modesto, di A.M. Alves, Guerre et exil chez Louis-Ferdinand Céline, Lang, Bern 2013).

[ii] «un’imbecillità infernale»: Pléiade I, p. 13.

[iii] «Insomma la guerra era tutto quello che non riuscivamo a capire»: ivi, p. 12.

[iv] «Un’immensa, universale presa in giro»: ibid.

[v] «Va tutto bene. Torneremo coperti di allori»: cito l’epistolario di Céline dall’edizione (parziale) della «Bibliothèque de la Pléiade» curata da Henri Godard e Jean-Paul Louis: Céline, Lettres, Gallimard, Paris 2009. D’ora in poi, mi limiterò a indicare nel testo la data della missiva.

[vi] Il regesto delle somiglianze e delle differenze fra Ferdinand e Louis è ampio e complesso (per esempio, il primo diventa brigadiere a fine agosto, il secondo è già sottufficiale all’inizio delle ostilità): per una rigorosa ricostruzione storica – che consente fra l’altro di fissare, con buona verosimiglianza, al 25 ottobre, e non al 26 o 27 come si era sempre creduto, la data della ferita di Destouches –, cfr. O. Roynette, Céline combattant: une lecture historienne, in Ph. Roussin, A. Schaffner e R. Tettamanzi (a cura di), Céline à l’épreuve. Réceptions, critiques, influences, Champion, Paris 2016, pp. 61-79; cfr. anche J. Bastier, Le Cuirassier blessé. Céline, 1914-1916, Du Lérot, Tusson 1999. Dopo la ferita, il capitano Schneider scrive al padre di Louis: «Depuis le début de la guerre on le trouve d’ailleurs partout où il y a du danger, c’est son bonheur» («Dall’inizio della guerra, del resto, lo si trova sempre dove c’è pericolo: non cerca altro»), in una lettera che si legge a p. 119 dell’edizione delle Lettres di Céline citata alla nota precedente. Destouches appare (stando al suo superiore) felice di sfidare il pericolo, mentre Bardamu rivendica la paura e prova a disertare.

[vii] «Quando ci sei, ci sei e basta. Ci fecero montare a cavallo, e poi dopo due mesi che stavamo lì sopra, di nuovo a piedi. Forse perché costava troppo caro»: Pléiade I, p. 11.

[viii] «Poche grosse cariche, ma in generale una guerra d’imboscata in cui la mitraglia fa stragi terribili».

[ix] Concetto in anni recenti assai discusso, sulla scorta di V.D. Hanson, L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica [1989], Garzanti, Milano 2001; lo impiego con beneficio d’inventario, tenendo conto delle obiezioni mosse da più parti alla semplificazione di Hanson, che secondo molti tenderebbe a confondere ideologia e realtà, autorappresentazione dello stile marziale e concrete pratiche militari. Per un tentativo di sintesi, in ottica letteraria, si può vedere A. Scurati, Un sanguinoso desiderio di luce. Le forme della guerra come invenzione letteraria, in S. Rosso (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema, ombre corte, Verona 2006, pp. 17-29.

[x] «Quel che facevamo, lì a spararci addosso, senza nemmeno vederci, non era proibito»: Pléiade I, p. 14.

[xi] A. Barbieri, Angeli sterminatori. Paradigmi della violenza in Chrétien de Troyes e nella letteratura cavalleresca in lingua d’«oïl», Esedra, Padova 2017, p. 51.

[xii] Si vedano i capitoli ix e x del libro I della parte II dei Misérables: V. Hugo, Les Misérables, a cura di H. Scepi, con la collaborazione di D. Moncond’huy, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 2018, pp. 326-333. Certamente già dall’epoca delle guerre napoleoniche – e prima ancora, se si vuole, dai tempi della battaglia di Azincourt (1415), da molti considerata come l’epilogo cruento del confronto cavalleresco medievale, dal momento che gli arcieri inglesi sconfiggono i cavalieri francesi – le armi da tiro (a maggior ragione quando diventano da fuoco) sono in grado di infliggere alla cavalleria perdite pesantissime. Ma ancora a inizio Ottocento si trattava, come Hugo non manca di sottolineare, di uno scontro sanguinosamente equilibrato: «Les boulets faisaient des trouées dans les cuirassiers, les cuirassiers faisaient des brèches dans les carrés» (ivi, p. 330: «Le pallottole facevano dei vuoti fra i corazzieri, i corazzieri aprivano brecce nei quadrati di fanteria»). Per una sintesi di storia bellica, mi limito a rinviare a due classici: J. Keegan, Il volto della battaglia [1976], Il Saggiatore, Milano 2003; e Id., La grande storia della guerra dalla preistoria ai giorni nostri [1993], Mondadori, Milano 1994.

[xiii] Del resto, sono i regolamenti stessi dell’esercito francese a dire chiaro e tondo, ancora nel 1912, che solo l’attacco a cavallo e all’arma bianca «donne des résultats rapides et décisifs» («dà risultati rapidi e decisivi»): lo ricorda Stéphane Audoin-Rouzeau, in un libro per molti versi di grande interesse anche per chi studia letteratura, le cui osservazioni hanno offerto spunti di riflessione a vari aspetti del mio saggio: St. Audoin-Rouzeau, Combattre. Une anthropologie historique de la guerre moderne (XIXe-XXIe siècle), Seuil, Paris 2008, p. 265.

[xiv] «attireremo probabilmente il nemico il più vicino possibile ai forti che stanno alle nostre spalle, Gironville, Liouville e il Camp des Romains, poi utilizzeremo il fuoco convergente dei forti per stendere i tedeschi, e dopo, per completare la loro disfatta, lanceremo la divisione di cavalleria di cui faccio parte».

[xv] «incappano in 4 mitragliatrici tedesche che ne fanno fuori 200 in due minuti esatti a 700 metri da noi. È orribile».

[xvi] «siccome i Tedeschi fuggono per attirarci nelle loro trincee, il colonnello rifiuta il combattimento e torniamo nei nostri acquartieramenti, per non fare la fine del 7° e del 10° corazz. di Lione che sono stati completamente annientati a Mulhouse».

[xvii] «la fatica ti culla e ti getta nella morte, quasi desiderata come un riposo finale».

[xviii] «Il 7° dragoni ha caricato, molte perdite».

[xix] «le schiene dei cavalli sono talmente deturpate che l’odore che emana negli acquartieramenti è insostenibile quando si tolgono le bardature».

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