di Carlo Mazza Galanti
[E’ uscito qualche tempo fa per Il Saggiatore Cosa pensavi di fare? Romanzo a bivi per umanisti sul lastrico, un originale romanzo costruito da Carlo Mazza Galanti sul modello dei vecchi e gloriosi librigame. Ne riproduciamo tre capitoletti, preceduti dai relativi schemi narrativi, ringraziando l’autore e l’editore].
14 Orizzonte scuola
Il bandolo della matassa sono due parole: “Orizzonte scuola”, il sito di riferimento. Quando chiedi consiglio ti dicono tutti di cominciare da lì. All’inizio non ci capisci nulla ma quando finalmente ti muovi con una certa disinvoltura cogli il senso claustrofobico di quel luogo, e di quel nome. Entri in contatto con esegeti professionisti delle arcane trame del MIUR, professionisti incalliti delle graduatorie, instancabili candidati alle più svariate classi di concorso. Un esercito di inoccupati o intermittenti forniti di mostruose competenze in materia di ordinamento e burocrazia scolastica, oberati di tecnicismi, rivendicazioni, contestazioni che risalgono, di riforma in riforma, fino agli albori dell’istruzione statale. Sono donne e uomini (ma soprattutto donne) costantemente in allerta, ricettivi a ogni minimo sommovimento ministeriale, a ogni emanazione del provveditorato, a ogni avviso dell’ufficio scolastico provinciale; frequentano assiduamente i sindacati, i corridoi degli apparati dove si nascondono oziosi funzionari conosciuti per nome, amici o nemici, vivono in connessione perpetua, creano gruppi e sottogruppi di mutuo soccorso, invocano giustizia, intentano cause individuali e collettive, nutrono odi atavici, invidie, si accoppiano tra di loro, vivono e agiscono in attesa della soffiata, dell’informazione decisiva che diventerà il fulcro della loro giornata, la materia di lunghe telefonate, di chat chilometriche, l’orizzonte nel quale si muoveranno le loro speranze, i loro desideri, le prossime battaglie: l’orizzonte scuola, appunto.
– Questo orizzonte ti spaventa. L’idea di diventare uno di loro ti respinge. Un valutazione spassionata delle possibilità concrete di avere successo in quella giungla selvaggia ti scoraggia. Non avrai mai la tenacia necessaria ad arrivare fino in fondo, non troverai la motivazione a sgomitare nella folla dei candidati, a scrollare pagine e pagine di bandi e regolamenti scritti in un linguaggio snaturato, ad affrontare lezioni di pedagogia anglosassone, noiosi corsi formativi sulla didattica tecnologicamente assistita, selezioni a cascata per accumulare titoli come si accumulano punti armatura in un gioco di ruolo, ad approdare infine, dopo secoli di erranza per le terre ostili del Magnamund, allo Scontro Finale: il quizzone, il testa a testa tra indemoniati secchioni alla ricerca di lavoro e dell’unico compimento possibile per la loro esistenza occhialuta. Sì, perché solo i più duri, solo i più affamati e incattiviti si troveranno a contendersi ferocemente quattro ossa in croce, ovvero i posti disponibili per una materia di studio (la tua) destinata dai sottosegretari e dallo spirito del tempo a una nicchia irrilevante e allo sfottò populista, prima della sua totale estinzione.
Se questo è ciò che immagini quando pensi a quello che ti aspetta, torna al punto 12 o, se preferisci rischiare in un campo completamente diverso, torna al punto 13.
– Tieni duro, confidi nelle tue capacità adattive, minimizzi il panico e comunque, per quanto deteriore, al momento questa resta la possibilità migliore che ti si prospetta, anzi: l’unica. Vai al punto 16.
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17 Figli?
Sulla via dei quaranta, insieme da un numero di anni ingombrate (per te, lei al contrario sembra farne tesoro: lo ripete spesso), ma figli non ne arrivano. Qualche volta avete osato provarci con scarsa convinzione, senza metodo, senza orientare la seminagione. E comunque non sono arrivati. L’orologio biologico ticchetta abbastanza ostinatamente da accendere spinose diatribe post-prandiali aromatizzate alla cannabis intorno al futuro di una famiglia possibile. Vi siete divertiti per tutti questi anni, e in fondo non vi dispiacerebbe continuare a farlo. Uscire la sera, tempi elastici, larghe intese, porte aperte: tutto questo deve finire? Può finire? E la tua “compagna” (“fidanzata”? “ragazza”? “donna”? “compare”? La mancanza di un epiteto calzante per colei a cui affidi buona parte della tua felicità continua a segnarti la voce, al momento di pronunciarlo, di una sottile sfumatura ironico-dubitativa: ti capita di pensare a quel ferro vecchio del matrimonio solo per superare questo ripetuto imbarazzo lessicale), quanto lo vuole più di te? Quanto è profondo il bisogno di allungare la catena cromosomica in un terzo cui sarà sacrificato il meglio del vostro tempo? Quanto tempo vi resta per godere del vostro tempo, comunque? E quanto vecchi possono essere i genitori prima di suscitare il ludibrio di una scolaresca? Quanto gli organi interni prima di combinare casini o smettere di funzionare? Quanti decenni restano, infine, prima che il pianeta Terra diventi un luogo del tutto inospitale?
Vi guardate intorno e sì, certo, la riproduzione tardiva dei coetanei ha comunque subito un’accelerazione, con i ventri che si gonfiano cautamente, marmocchi istrionici e iperattivi che monopolizzano l’attenzione, la nicotina cacciata dalla finestra durante le cene con gli amici e sguardi che ammoniscono a moderale l’uso del turpiloquio.
– Ma esiste un’ampia frangia di renitenti. Hanno meno occhiaie, cute più levigata e un ventaglio discorsivo non corrotto dalla monocoltura degli argomenti genitoriali e dei filmini sul cellulare. Potete entrare nella seconda metà della vostra vita come niente fosse, in punta di piedi. E fanculo la famiglia, altro ferro vecchio messo al chiodo dall’ideologia, non bastasse l’esperienza pregressa. Per quale oscura ragione ricostituire quel nido di vipere, quel covo incestuoso di cattivi umori? La responsabilità demografica la cedi volentieri agli immigrati. Non invidi la loro straripante fecondità, neppure ti spaventa: andate avanti voi che noi si sta bene così. Rigenerateci, ricambiateci. Anzi, sostituiteci. Grazie. La nostra storia finisce qui, nell’avvenire imperturbato di una complice fratellanza, matura e rassegnata al lento sfiorire. Paladini discreti della denatalità, faremo i conti con l’indipendenza: lavoreremo sodo e poi viaggeremo molto, alla ricerca di mondi perduti, di volti meno corrotti dei nostri, assorbiremo un po’ della loro allegria, mangeremo cibi strani: due cinquantenni in abiti ultratecnici che passeggiano per le strade sterrate dei villaggi rurali nel meridione del mondo. Agli autoctoni che ce lo chiedono insistentemente non diremo “non ce n’è bisogno”, non diremo “è troppo tardi” o “siamo contenti lo stesso”, non lo capirebbero. Per compiacere i loro animi semplici inventeremo una prole immaginaria rimasta a casa coi nonni, gli daremo dei nomi, un’età: saranno felici, numerosi, belli e pieni di futuro.
– O al contrario: proprio la pessima eredità famigliare dovrebbe stimolarti a fondare una nuova linea, a emendare quella storiaccia con un lieto fine che sia anche un nuovo inizio. Nuovo: diverso. Morte ai fantasmi intergenerazionali. E comunque l’alternativa non è tra spassarsela e fare il proprio dovere biologico, tra perdere tempo o non dormire la notte, tra la corsa per l’autoaffermazione e una qualche nebulosa ingiunzione alla generosità, ma tra vivere a due centimetri da se stessi o fare il passo più lungo della gamba, una volta tanto. Rischiare. Un’amico diventato genitore da qualche mese ti ha detto: “Hai presente quelli che dicono che fare un figlio ti cambia la vita? Be’ ascoltali: hanno ragione”. Hai voglia di cambiare la tua vita? Non sarà necessariamente una catastrofe. Si apriranno nuove finestre spazio-temporali, farai conoscenze fuori dal solito giro, lo streaming sarà un ammortizzatore per il sonno polifasico, e almeno esisterà una buona ragione per essere insonni. Metterai pure tu on line le foto del pupo. Sarà una questione di rarità, ma in questo terzo decennio del terzo millennio essere padri ha un certo fascino; non esserlo nel prossimo forse avrà solo l’aspetto di una mediocrità dimessa, decadente, senza neppure la gloria dello sfascio. Ancora peggio se dal punto di vista professionale ti troverai a segnare il passo come tutto (francamente) lascia immaginare. Lo dici pensando al futuro del tuo umore, non al denaro: per la prossima generazione dovrebbero bastare gli ultimi spicci del boom economico. Le vostre famiglie saranno ben contente di intaccare i patrimoni in cambio di un nipote. Inoltre è solo questione di tempo, lo stato si deciderà, prima o poi, a investire seriamente sulla fertilità. E se non la fa lo stato ci penseranno i privati. Allora ci ripensi: da che parte sta il rischio?
Cedi al richiamo della discendenza? vai al punto 22
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17 L’indifferente
E infine, un grigio mattino, valicata di poco la sella della mezza età (stanti le aspettative di vita maschile calcolate dall’ISTAT), comprendi che la fiammella si è spenta. I valori hanno vita breve nel mondo reale: bene e male sono sempre confusi. Le manifestazioni politiche si sono rarefatte e le convinzioni frantumate in un mare di tecnicismi e consumi culturali. Ti sei trincerato dietro un purismo muto e sterile. Se non vedi un futuro migliore – pensavi – stai solo difendendo le tue posizioni. Se istighi l’insurrezione, stai ancora giocando. Meglio il silenzio.
Ai residui furori si sono sostituiti le cene etniche e i party-games, quindi figli per chi li ha avuti. Poi si sono dissolte anche le ultime gocce di gioventù, lasciandoti solo in un appartamento sempre più autunnale. Hai fatto la carriera universitaria che speravi, è vero, ma perché hai scelto quell’autore e non un altro? Fatichi a ricordarlo. Continui a improntare i tuoi giudizi a un generico disprezzo verso il mondo che ti sembra sufficiente a darti un tono. Allo stesso modo continui a offrire il tuo suffragio al partitello più radicale come si ottempera a un impegno solennemente contratto in gioventù. D’altronde hai sempre portato la croce di una fedeltà quasi ascetica alle tue abitudini: le tue lezioni sono da anni le più mattutine, e te ne freghi del numero dei presenti. Terrorizzato dal giudizio dei più giovani e dagli sguardi bramosi che involontariamente proietti sui corpi delle studentesse, indossi a tempo pieno un vecchio spolverino e uno sguardo opaco, con il punto di fuoco regolato all’infinito. Il disincanto feroce ha trovato sbocco in una filosofia della storia buia e sconsolata: il capitalismo, la catallassi, lo scioglimento del permafrost, la banca mondiale, il world wide web, l’Isis, la distruzione creativa, tutte espressioni della stessa cieca e malevola necessità evolutiva che ha portato una zanzara a depositare le larve in qualche anfratto di casa tua affinché si aprissero in pieno inverno col favore del riscaldamento, svegliandoti nella notte da un incubo scomodo e imbarazzante che preferisci dimenticare. L’uomo è una malformazione del cosmo, un essere anfibio mezzo stupido e mezzo criminale, una bestia impenitente destinata a campare in uno stato di minorità perenne, ma sei propenso a perdonare tutti, sperando che il resto del mondo, quando sarà il momento, vorrà fare altrettanto con te.
Ogni domenica mattina passi qualche minuto nel terrazzo per vedere come stanno le piante grasse: organismi meravigliosamente autonomi che non richiedono nulla se non un po’ d’acqua d’estate e il tempo di trovare un equilibrio con l’ambiente che li accoglie, per quanto piccolo e poco luminoso esso sia. Trapianti una talea un paio volte l’anno e a questo ritmo lento ma inesorabile il terrazzo si riempie di crassulacee (l’inverno che ha nevicato e ne sono morte la metà hai provato un dolore inatteso). A fine giornata torni a sdraiarti sul letto che dovresti rifare, leggi qualche pagina, ti deconcentri, guardi la tua immagine riflessa allo specchio fissato sul muro di fronte, accanto a una scaffalatura che trascini di casa in casa da decenni e ancora custodisce le ultime vestigia di una figurina che attaccasti da bambino: una specie di pupazzo articolato con un pallone al posto della testa. Come si chiamava? Non ricordi, o forse sì: Ciao. Sì: Ciao, era proprio quello il nome. Ciao. Alzi la mano alla tua immagine riflessa e ti sorridi pronunciando a bassa voce la parola del commiato.
[Immagine: Il labirinto nella pavimentazione della Chiesa di San Vitale a Ravenna].
Bravino anzi bravo.