di Filippo La Porta

 

Avete mai auspicato, almeno una volta, che venissero aboliti i talk show televisivi (magari attraverso un DPCM), diseducativi e parassitari?
Interpretando – credo – malumori diffusi, lo ha proposto recentemente Davide Brullo – scrittore, critico talentuoso, polemista, stroncatore “professionale” – nel blog “L’intellettuale dissidente”. La sua descrizione del talk è impietosamente oggettiva: “invita all’ira civica, incivile, percorre il contagio della rabbia… tutti condannano, tutti bruciano, tutti sbraitano, e “nessuno che si ritiri in un arcano pudore, dando credito all’individuo”. Al talk, spazio dove tutto viene digerito, dove si parla solo per inscenare una “lite conformista”, Brullo contrappone – con mossa felice – il teatro. Nel talk nessuno è mai veramente stesso, mentre nel teatro l’attore “può essere interamente l’altro”. Potremmo chiosare: nel teatro si celebra il dantesco “ver c’ha faccia di menzogna”, il vero che si esprime cioè attraverso una finzione dichiarata come tale, mentre in un talk assistiamo impotenti alla menzogna che ha la faccia del vero, che simula e pretende una autenticità falsa.

 

Una “modesta proposta”che non possiamo non condividere (obietterei solo a Brullo che mobilitare il grande teologo Romano Guardini per stroncare Fazio o Del Debbio è sproporzionato…). Sinceramente: avrei voluto formularla io. Eppure rileggendola mi è venuto qualche dubbio. Sentivo che non era del tutto credibile, e non per colpa di Brullo. Cerco di spiegare perché.
Ho pensato subito a Pasolini che una volta sull'”Espresso” definì testualmente gli autori di “Canzonissima” – popolare trasmissione di quegli anni – criminali (precisando: “non in senso traslato”), e assimilandoli ai feroci manipolatori di un regime totalitario. Forse esagerava, eppure “rendere le persone più imbecilli e cattive è come ucciderle” (singolare come Veltroni riesca ad avere sia il mito di Pasolini che quello di “Canzonissima”: immaginate, che so, uno che in camera sua mette sia il poster di Martin Luther King che quello del Ku Klux Klan!). Ora, rispetto a Pasolini, e al secolo scorso, una analoga denuncia dei programmi televisivi attuali – che ogni volta ci rendono più imbecilli e cattivi – suonerebbe un tantino stonata, e appunto poco credibile. Non tanto perché nessuno possiede il carisma pasoliniano – e gli intellettuali hanno perso qualsiasi mandato sociale e autorevolezza – quanto perché appare radicalmente mutato l’intero paesaggio culturale.

 

Leggendo Brullo viene voglia di obiettargli malignamente (anche sapendo che un modo per screditare ogni critica è ricondurla all’invidia): “Scusa, ma anche tu usando un blog, pubblicando libri, scrivendo articoli a getto continuo, a volte sparandola grossa per farti notare, etc., ti batti – sia pure legittimamente – come tutti per raggiungere un quarto d’ora di visibilità. Forse ce l’hai tanto con i talk solo perché non ti invitano”. L’obiezione sarebbe naturalmente del tutto abusiva, e Brullo, suppongo, la respingerebbe fieramente, con buone ragioni. Tuttavia rispetto a Pasolini oggi è mutata la “grammatica” del discorso pubblico. Tutti sono alla disperata ricerca di un posto al sole nel pigia-pigia generale. Impossibile non tenerne conto.
La classe media scolarizzata – cui tutti apparteniamo – capace di trasformare in retorica anche il dissenso più radicale, dà il tono alla discussione culturale. Tutti abbiamo mangiato la foglia: postpasoliniani e postmorali, orfani sia della “passione” che della “ideologia”, siamo gente di mondo in grado di maneggiare sofisticamente qualsiasi linguaggio (del potere o dell’opposizione), indignati full time e dotati di inesauribile ironia. Sempre pronti a ragionevoli compromessi. E poi la realtà è così sfumata….

 

Un tormentone attuale è la espressione “ci sta”, formula perfetta della autoassoluzione: “ci sta” che, in tempo di precarietà del lavoro intellettuale, io ammorbidisca certe mie asperità adattandomi alle richieste del committente… Come no. In nome della famigerata”complessità” possiamo giustificare qualsiasi scelta. Nicola Lagioia ha detto che “chi cerca la purezza senza rendersi conto delle proprie contraddizioni fa innanzitutto un torto a se stesso come creatura complessa”. Magnifico! Un aforisma lucente come cristallo, logicamente inconfutabile: per caso vogliamo – masochisticamente – fare un torto a noi stessi?

La sensazione è che siamo diventati tutti un po’ candidi e un po’ corrotti (ci “rendiamo conto”fin troppo delle nostre contraddizioni). Incerti di sé e con identità friabili (ricordate il saggio di Lasch sulla personalità narcisista, già negli anni ’70?), cedevoli alle lacrime e illimitatamente flessibili, pragmatici e idealisti, antagonisti ma “troppo umani” nell’ansia di sopravvivenza. Se mi offrissero una rubrica, poniamo, sul magazine di una azienda che inquina il pianeta, accetterei subito, dicendo – ovviamente – che si tratta di una “sfida”!

 

Nel nostro presente non ci si può più neanche mettere “dalla parte del torto”. Anche lì non è rimasto un solo posto libero. Chiunque si dichiara eretico, inconciliato, controcorrente, scomodo, dissidente, ospite ingrato, fuori dal coro. I “corsari” e “luterani” sono diventati legioni. Non voglio offrire un quadro uniformemente cupo, né ritengo che gli individui siano interamente plasmati dalla società. Tracce di autentico pensiero critico si trovano ovunque, nella vita quotidiana, anche se oggi preferibilmente lontano dai luoghi deputati della comunicazione e dello scambio culturale (anche nei social), in prossimità di individui solitari, intrattabili, “sempre poco allineati”, dispersi nella folla, perlopiù senza voce e senza potere; certamente “creature complesse” e con un loro “arcano pudore”.

Luca Doninelli, che nel 1996 ha scritto un romanzo illuminante sull’orrore e l’idiozia della televisione, Talk show ( padre e figlio assistono insieme a una puntata del “Maurizio Costanzo show”, specchio veridico del paese), osserva che bisognerebbe “meritarsi” di non andare in TV. E anzitutto non se lo “merita” chi non sarà mai invitato, per la ragione che viene percepito da chi fa i programmi come refrattario al circo mediatico e alle sue dinamiche.

 

Una volta Pasolini ha scritto, scandalizzando la mia generazione, che c’è una cosa più eversiva della rivolta, la “rassegnazione”. Quale rassegnazione? Quella di chi accetta lo status quo perché non vuole sostituirsi al potere, né intende riformarlo, in quanto gli è totamente estraneo. Una assoluta, intrattabile alterità, che rende il potere quello che è, ossia una illusione.

Infine. Penso a una specie di paradossale Comma 22: “Potrebbe oggi proporre di abolire i talk – ed essere credibile – solo chi non dispone di alcuno spazio per fare questa proposta”.

14 thoughts on “Neanche “dalla parte del torto” si trova posto

  1. I talk evidentemente hanno ben scarso valore se lasciano il tempo che trovano. Soprattutto quando dicono cose interessanti. Per esempio l’altra sera ho visto Salvini fare una figuraccia in campo economico. Smascherato nella sua ignoranza da Cottarelli che i calcoli li sa fare. Nessuno che il giorno successivo abbia messo in rilievo questo fatto. Sarebbe mettere in risalto la stupidità di un personaggio che potrebbe tornare a governarci. I talk , potremmo concludere,sono tutta spazzatura? Roba da buttare via il bambino con l’acqua sporca?Che facciamo, spegniamo l’audio e guardiamo le figurine, scegliendo poi a memoria la più bella?Magari fosse il silenzio tombale sul cicaleccio quotidiano della politica!

  2. Più serenamente radicale di abolire i Talk Show televisivi è abolire la televisione. Non possiedo un televisore dal 2007. Non sono “non allineato”, “compromissorio”, “autoironico”, “dissidente”: semplicemente, non so chi sono, dal punto di vista pubblico. Lo saprei, in parte, se qualcuno me lo dicesse. Ma non saperlo è una fortuna, e una verità. Tuttavia, ritengo di essere pieno di “Passione”, e del minimo possibile di “Ideologia”. Pasolini ha spesso predicato bene, e quasi sempre razzolato male. Non mi fido di lui.

  3. I problemi dell’umanità sono tanti e noi li viviamo oggi intensamente: riscaldamento, inquinamento, terrorismo, pandemia… In Italia poi non passa giorno che la stampa non denunci uno scandalo, un atto di corruzione o altri gravi abusi. La conseguenza è che in Italia è tutto un gran parlare, denunciare, proporre soluzioni. Vedi le discussione al bar – oggi fortunatamente interrotte a causa del coronavirus – e i “talk show”, in cui ci si accapiglia perché ognuno vuol aver ragione. È un discutere infinito cui non si mette mai fine. Non si giunge mai a un accordo, perché, come cerchero’ di spiegare, la maniera di ragionare all’italiana è di un tipo particolare, dato che all’italiano medio, quando discute, manca in genere il senso della concretezza e dei limiti che occorre porre all’astratto ragionare. Ma pragmatismo e concretezza difettano a tantissimi italiani, appassionati di parole e di soluzioni teoriche.
    “Portare avanti il discorso” è la ridicola frase che spiega e giustifica questo stupido e inutile “parlare per parlare”, dove cio’ che conta non è tanto lo scambio d’idee, ossia l’apportare all’interlocutore il nostro punto di vista, le nostre esperienze, le nostre soluzioni ai vari problemi, ma l’essere protagonisti, il mostrarsi superiore all’altro, e il volere avere, insomma, a tutti i costi ragione.
    Ma quali sono meccanismi mentali cui fa appello questo “portare avanti il discorso”? Ve ne sono diversi. Uno di questi è, secondo me, l'”allargamento” del discorso. Vi avrete fatto caso: nelle discussioni il vostro interlocutore, anche quando messo in angolo dalla vostra logica di stampo nord-americano, basata sul realismo, il pragmatismo, la concretezza, amplia, allarga, dilata il suo ragionamento per spaziare su altri problemi, fare raffronti storici, rifugiarsi nell’astrazione, nella filosofia, nel relativismo.
    Il che non è altro che abbandonare il terreno del problema su cui si discute per innalzarsi in una sorta di stratosfera oppure di scavalcare confini geografici o epoche storiche facendo raffronti che c’entrano come il cavolo a merenda ma che invece nella dialettica dei polemisti italiani fungono da cacio sui maccheroni, ossia appaiono decisivi per contraddire l’avversario sgominando i suoi argomenti.

  4. Forse c’è un modo reale per essere non allineati, che non sia l’isolamento o estraneazione dalla realtà che non si condivide: l’azione. E’ solo l’azione dà vita al pensiero, senza l’azione il pensiero, anche eretico, a lungo andare rimane nel campo del gioco delle parti, sempre che quel pensiero riesca a trovare uno spazio pubblico in cui esprimersi nella sua eresia.
    Oggi l’intellettuale, inteso nel senso di individuo che conoscere e riflette criticamente sulle cose, non conta più perché non ha il coraggio di agire, cioè, ad esempio, di esporsi pubblicamente, di mettersi contro qualcuno, di creare un movimento che possa incidere nella realtà. Al massimo, ci scrive un libro. CIò che manca forse all’intellettuale odierno non sono le idee, ma il coraggio, l’ideale, l’amore per la verità che lo possano spingere al di là di se stesso (della propria posizione economica, dei propri privilegi, della propria tranquillità d’animo) per un fine più alto, cioè più duraturo e collettivo.
    Oggi gli intellettuali non contano perché sono nel sistema, magari non nelle idee o nelle parole, magari non nella produzione culturale, ma nell’azione (nei fatti, nella vita banale di ogni giorno) sì.

  5. In Italia si parla per parlare
    L’Italia è l’unico paese al mondo in cui, da anni, giornalisti, attori, politici, opinionisti, cittadini comuni ed esperti di ogni risma denunciano, discutono e analizzano all’infinito, in TV, le numerosissime ingiustizie e storture che affliggono il Belpaese e il suo popolo.
    Io ho la presunzione di essere riuscito a identificare “la madre di tutte le storture” che andrebbe immediatamente corretta in Italia per porre fine a questa assordante e ridicola incapacità degli italiani di scambiarsi delle idee. Gli italiani – seguendo l’esempio dei canadesi, degli americani, dei tedeschi, persino dei francesi – dovrebbero imparare a rispettare quel minimo di regole elementari senza le quali gli scambi d’idee si trasformano immancabilmente in risse verbali.
    Solo cosi’ si riuscirebbe a trasformare le grottesche sessioni urlanti di tipo masturbatorio-esibizionistico e falsamente moralistico (alla Sgarbi e compagnia), che attualmente ammorbano l’Italia, in un normale dibattito con un vero scambio d’idee. E i “parlatori” potrebbero finalmente prendere in considerazione l’idea di passare dalle parole ai fatti concreti.

  6. In un mondo che urla e grida in modo strepitoso (sic, etimologicamente) per essere davvero in rivolta forse bisogna scegliere l’unica strada terza del silenzio. Un silenzio consapevole. Stare zitti mentre gli altri si affannano a parlare. Non solo perché è nel silenzio che si recupera il valore vero di una meditazione, ma perché il silenzio a volte può anche far rumore. Diventa anonimia solo se è coltivato nella rassegnazione, nel “non dico niente perché tanto nulla cambierà”. Per cambiare qualcosa, e ricominciare a dire qualcosa, basterebbe spegnere la tv e coltivare il silenzio. Forse.

  7. Fa bene Filippo La Porta a spostare rapidamente l’attenzione dal talk show italiano (forma pubblica di dibattito democratico secondo i codici televisivi nostrani) ai blog e all’attività comunicativa di chi quei programmi denuncia. Sarebbe, infatti, troppo facile concentrarsi sulle pecche del talk show televisivo (canale generalista fortemente “istituzionalizzato”), considerando che nell’ambito dei blog e della rete in genere (canali più individualizzanti e scarsamente “istituzionalizzati”) la logica del dibattito sia radicalmente altra. L’imperativo della “visibilità”, dell’espressione- a tutti i costi – del mio punto di vista, anche quello più critico”, domina trasversalmente gli ambienti ideologici e i loro supporti mediatici. Sottolineare questo punto dovrebbe innanzitutto spingerci a una disagevole autocritica, sottraendoci per un attimo alla postura più agevole della critica e della denuncia.
    La Porta poi scrive: “La classe media scolarizzata – cui tutti apparteniamo – capace di trasformare in retorica anche il dissenso più radicale, dà il tono alla discussione culturale.”
    Qui in effetti c’è qualcosa che non so se definire ambiguo o contraddittorio. Un sempre maggior numero di persone ha strumenti, canali, e spesso intelligenza, per dire cose in pubblico e sulla polis. Spesso anche cose molto critiche. Ma è come se tutto prendesse una via ariosa, celeste, una via “culturale”, senza attrito e radicamento, senza spigoli e rischi di ferite.
    Un amico marxista e filosofo mi diceva: non sento più la necessità di scrivere, di dire, di entrare nel dibattito. Prima ancora che io formuli un punto di vista, già ne saranno stati pubblicati e formulati una ventina, grosso modo simili ai miei, tutti acuti e indignati. Preferisco tornare a un dialogo tra piccoli gruppi di persona, dialogo in carne ed ossa.
    Non credo che si possa parlare di una forma di rassegnazione, ma di una certa intrattabilità rispetto agli imperativi di “esprimersi”, certamente.
    Un’altra pista che propongo, per interpretare il termine usato da La Porta – “intrattabilità” -, termine che mi piace molto, è questo: cercare di situare il proprio terreno di discussione il più vicino possibile alla propria forma di vita, ai propri desideri e i bisogni, riconoscendo privilegi, limiti, idiosincrasie, di cui si è portatori. Questo non vuole suggerire un atteggiamento confessionale, né un’esaltazione della propria particolarità. Si tratterebbe, però, di attenuare il tono della voce, di confrontare lo scintillio della teoria e dei principi con il casino delle nostre vite, e anche portare testimonianza dei conflitti, delle sofferenze, delle contraddizioni che albergano non nella sfera del gran dibattuto pubblico, ma dei nostri luoghi di lavoro, dei nostri spazi familiari, dei nostri rapporti con i concreti ambienti culturali. E’ un appello ad un certo “realismo”, nelle questioni etico-politiche, ma non per forza nella direzione di un’autoindulgenza. In quella forse di raccordare enunciati e vita con maggiore intransigenza, e quindi laboriosità, difficoltà. Mettere un po’ di attrito nella così facile produzione di opinioni.

  8. Leggendo l’articolo di La Porta, sulla chiassosa ossessione per la presenza e la visibilità che impalla tutti gli attuali supporti mediatici, annientando nel conformismo dell’ ‘esserci e del dire a tutti i costi’ anche le opinioni più critiche, mi torna in mente il monito della mia cultura popolare sarda (beninteso, nella sua forma più antica e genuina a ‘ non far parlare di sé, a non essere “mentovados”(ossia nominati) come modo di porre in essere la propria alienità alla chiacchiera paesana, ovvero alla brodaglia mediatica, in cui tutto è uguale a tutto, e niente, seppur di valore, ha alcun rilievo.
    Quindi, alienità, estraneità, e, come ripetuto nei commenti prima di me, intrattabilità.
    In genere , proprio i commenti che mi hanno preceduto mi pare concordino sull’inanità di dire il dissenso, ma rifiutino una prospettiva di banale rassegnazione, invitando -affinché tale istanza critica possa avere qualche speranza di efficacia- alla pratica del proprio dissenso, nella dimensione spicciola e pragmatica del quotidiano, un po’ nell’accezione evangelico-cattolica del dare e costruire l’esempio dell’antagonismo.
    Credo che per tutti noi intellettuali, orfani di qualsiasi mandato sociale, sia d’uopo, con un doveroso -e forse utile- atto di umiltà accettare questo genere di sfida.
    Forse, solo nella banalità del quotidiano regna ancora una superstite possibilità di dis-omogeneizzabilizzazione.

  9. Ottimo articolo. Come giustamente notato da Andrea Inglese prima di me, la questione non è certo il talk show ma il posto dell’intellettuale come produttore di se stesso anche quando sembra produrre delle idee. Le ragioni di questo possono essere socio-economiche (distruzione dei compi intermedi e moltiplicazione dei media), culturali (educazione universitaria allo stesso tempo di massa e profondamente elitista -vedi Bourdieu ed Emmanuel Todd) ma anche geopolitiche, specie in un UE dove l’ideologia umanista è tanto più insistita quanto regolarmente colta in flagrante delitto di propaganda strategica. Cosa pensare ad esempio di una Boldrini che difende uno xenofobo come Navalny ? Ci crede davvero? È un agente americana ? Mera propaganda interna politichitaliota ?
    Quale che sia la risposta gli strati mediatici per arrivare a parlare seriamente della questione sono talmente tanti che viene appunto voglia di galleggiarvici sopra. Sempre meglio che affogare o faticare invano…

  10. Ringrazio tutti per i commenti e le osservazioni. Certo, il centro del mio articolo non era propriamente il talk. Volevo solo descrivere un paesaggio culturale mutato (rispetto a Pasolini): ci aggiriamo in un universo troppo pieno, saturo, in cui ognuno si sforza disperatamente di “apparire”, con ogni mezzo (perciò è meno credibile), in cui tutti si dichiarano fieramente eretici e possiedono l’inesauribile abilità retorica di giustificare qualsiasi “compromesso” (possiamo ingoiare e far ingoiare quasi tutto, magari citando Simone Weil! come diceva Orwell gli intellettuali troveranno sempre un argomento a favore della tortura), in cui il vero pensiero critico a me pare distante dal brusio pubblico dei luoghi del presunto “scambio di idee”, e dall’ingorgo dei consumi culturali correnti.
    Noto che quasi tutti mettono l’accento su una “intrattabilità”, o alienità o estraneità individuale, che va anzitutto “dimostrata”con l’esistenza che uno fa, confrontando “lo scintillio dei principi con il casino della nostra vita”(in fondo Pasolini, che “razzolava male”, però i suoi conflitti, i suoi demoni, li ha sempre rappresentati con una trasparenza rara nella nostra cultura). Infine: molti auspicano una dimensione più ristretta, tangibile, e dunque oggi più autentica. Cito solo la proposta di un intellettuale radicale, e oggi dimenticato, come Nicola Chiaromonte negli anni ’60: quando i margini dell’agire politico sono ridotti meglio una “secessione” – temporanea – dalla società, senza clamori e in piccoli gruppi.
    Filippo

  11. Grazie a lei, Filippo, per la sua risposta e per il suo articolo, che evidentemente mettono a fuoco problemi e tematiche ben più rilevanti e sentiti di quello del ‘diritto di esistenza’ del talk show.
    La sua risposta, in particolare, mi pare riassuma il comune sentire maturamente condiviso, emerso dai commenti che ho letto, con la frase (citata ad impronta, e me ne scuso) ‘quando i margini dell’agire politico sono ridotti, meglio una “secessione” temporanea dalla società, senza clamori e in piccoli gruppi’.
    Anche ove si voglia considerare tali spazi minimali quali approdi di una sorta di ritirata (speriamo) strategica, essi non sono né disprezzabili né impraticabili (penso al quotidiano delle nostre modalità di interazione con il mondo/mercato dell’informazione e della cultura, digitale e non, o alle nostre modalità di consumo in senso più globale…..). Essi sono ambiti in cui, da consapevoli, possiamo essere fattivamente “eretici”, ovvero sono luoghi, possibili e reali, per una effettiva produzione del senso e del dissenso.

  12. Una piccola riflessione sull’uso delle parole che siano “televisive”, “scritte” o semplicemente da noi utilizzate nel quotidiano vivere.
    Mai come nella polemica politica di questi giorni ho avvertito che usare le parole come lame sempre più taglienti aumenti il disagio, la confusione e la conseguente manipolazione di chiunque, acculturato o meno.
    Ripartiamo con un uso delle parole più coerente con la loro etimologia e con la loro molteplicità dei significati.
    Tutti
    Chi parla e chi scrive, chi concorda e chi dissente.

  13. “ Venerdì 2 luglio 1999 – « Le fotografie di disastri, personaggi politici, donne formose che vediamo nei rotocalchi, si suppone che abbiano la funzione di “ portare il mondo fino a noi “. Ma ciò che quelle immagini effettivamente compiono è una funzione assai inumana: trasformano persone ed eventi reali in oggetti di puro sguardo, avulsi da ogni contesto vivo e da ogni significato men che elementare grazie alla chirurgia dell’obbiettivo. Sicché possiamo guardare senza vedere, afferrare senza capire, essere eccitati senza provare in realtà alcun sentimento particolare. L’immagine fotografica abolisce decisamente la densità e l’ambiguità degli eventi reali, isolandoli dalle paure, aspettative, desideri, idee e conflitti d’idee che ad essi ci legano e che ne costituiscono il senso. Ridotte a immagini nette, le cose diventano infinitamente più evidenti e, al tempo stesso, infinitamente più insignificanti che non possano mai essere in realtà. Quel che alla fine abbiamo è davvero la “ pellicola “ della vita. Piuttosto che portato fino a noi, il mondo è stato efficacemente “ fatto fuori “. » (Nicola Chiaromonte, La realtà fatta fuori/ Considerazioni sul cinema, in «Tempo presente», 4, n. 2, 1959) “.

  14. Occhio: l’Intellettuale Dissidente è un sito di estrema destra, organico al mondo detto “rossobruno”.
    PPP magari “razzolava male” ma certa gente la riconosceva anche da lontano.

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