di Roberto Lapia
Partiamo da un assunto ormai acquisito: le trasformazioni sociali ed economiche che hanno sconvolto le odierne società occidentali sono fonte di un forte incremento del numero di persone che soffrono di disturbi psichici, in particolare la depressione. Con questo non voglio affermare che ogni singolo caso di disturbo psichico e affettivo debba essere ricondotto a cause di ordine politico e/o economico, sarebbe semplicistico e fuorviante. Tuttavia, come afferma il pluricitato Mark Fisher, è altrettanto semplicistico asserire, così come sostengono gli approcci dominanti alla depressione, che occorre sempre cercarne le radici «nella chimica individuale del singolo cervello o nelle esperienze vissute durante la prima infanzia»[1]. Oggi sono numerosi gli studi critici che sottolineano come la prepotente penetrazione di questa piaga “invisibile” nel contesto attuale debba essere necessariamente messa in relazione con ciò che avviene nella contemporaneità. Negli ultimi trent’anni invece è accaduto l’esatto contrario: il problema della salute mentale è stato trattato come un fatto naturale, con conseguente scaricamento dei problemi psicologici sugli individui stessi (la cosiddetta «privatizzazione dello stress»). Sempre secondo Fisher – morto suicida nel 2017 proprio a seguito di una lunga depressione – è fondamentale innanzitutto chiedersi come si possa tollerare che così tante persone, soprattutto giovani, siano malate, quindi «ribaltare la privatizzazione dello stress e riconoscere che la sanità mentale è un problema politico»[2].
A tal proposito è interessante quanto afferma Massimo Recalcati circa le nuove forme che avrebbe assunto oggi la sofferenza psichica: non più perdita di legame con la realtà, bensì «una psicosi che si produce come immedesimazione, senza scarti, dell’individuo con il proprio contesto»[3], ovvero un adeguamento della vita al principio della prestazione. Di conseguenza, il disagio psichico della nostra epoca sarebbe investito in modo profondo, secondo Massimo De Carolis, dall’insistenza «sul senso di precarietà», dall’infiltrazione «della paura nelle nostre esistenze», e dall’esperienza di una dimensione temporale «sempre sottomessa agli imperativi dell’urgenza»[4]. Fisher tutto questo l’aveva già intuito: «il problema non ero (solo) io, ma la cultura intorno a me» dichiarava in Spettri della mia vita[5], una raccolta di scritti che per il filosofo inglese avevano rappresentato uno strumento di lotta contro il disturbo, un tentativo di fuga (riuscito solo in parte) dalla depressione attraverso l’esternalizzazione della negatività; perché anche a questo serve la parola. Un percorso, un esperimento di lotta contro il baratro della malattia che mi ha fatto pensare con forza ai percorsi intrapresi da tre autori italiani contemporanei – Andrea Pomella, Simona Vinci e Violetta Bellocchio[6] –, che attraverso la parola letteraria hanno tentato, ognuno a modo suo, di esternalizzare la propria condizione di soggetti colpiti da disturbi psichici (la depressione per i primi due, la dipendenza dall’alcol per Bellocchio), mettendo in luce, attraverso le loro esperienze personali, le caratteristiche odierne di quei disagi nell’ottica della società italiana contemporanea (una società nella quale vige «l’esigenza di essere sempre al top»[7]).
Prima di entrare nel merito dei tre testi in questione vorrei soffermarmi sull’importanza e sulla difficoltà insita in questo gesto – che è anche politico – di presa della parola di cui si fanno portatori Pomella, Vinci e Bellocchio. Al riguardo vanno messi in evidenza due elementi chiave: in primis, bisogna tenere bene a mente che le patologie psichiche sono ancora oggi circondate da una cortina di diffidenza, paura e pregiudizi che compromette le capacità e le possibilità delle persone “normali” di cogliere l’immagine della sofferenza psichica, di confrontarsi apertamente con la malattia nella sua dimensione sociale e interpersonale, nonché di riflettere e auscultare le eventuali tracce di disagio che si agitano in ognuno di noi. Quindi, e mi rifaccio alle parole dello psicanalista Franco Lolli, non va dimenticato che «La depressione è una condizione di dolore psichico che, più di ogni altra forma di disagio, è in grado di mostrare il limite strutturale della parola […]. Ogni depresso vive questa condizione di impotenza e di inadeguatezza del proprio linguaggio nel tentare di far capire l’intensità del dolore che prova»[8]. Se riusciamo a cogliere l’importanza di questi elementi comprenderemo con immediatezza il valore potenziale dei lavori di Pomella, Vinci e Bellocchio, che attraverso il loro atto scuotono i castelli pregiudiziali, costruiscono un’immagine significativa e mai banalizzante della sofferenza psichica, e, infine, aprono delle falle nel muro fatto di silenzio e segregazione che separa i soggetti malati dal resto della comunità; lo fanno ipotizzando delle possibilità di espressione e sfidando l’idea preconcetta dell’intraducibilità linguistica di un malessere che non si può dire.
È chiaro che si tratta di un gesto oltremodo difficile da concepire e da compiere, come si evince dalle parole che chiudono Parla, mia paura di Simona Vinci: «Spesso siamo noi a costruire le sbarre della nostra prigione, immaginandole. Raccontare la forma di quella gabbia e i tormenti che ci procura […] può essere un modo per cominciare a smontarla»[9]. E allora è necessario fidarsi della propria immaginazione e tentare di guidarla nel vortice dei pensieri e della memoria, «anche quando siamo attraversati da una selva oscura: il buio può parlare e non è detto che le sue siano soltanto parole dolorose»[10]. E in effetti questo buio parla, sputa fuori parole e voci spietate, disturbanti, che piombano il lettore nell’oscurità trasparente del male interiore, per riprendere una definizione di William Styron. Ciò che balza agli occhi davanti a queste tre narrazioni, opera di tre autori che potremmo tranquillamente definire “romanzieri”, è la scelta ineluttabile del racconto in prima persona nonché quella di affidarsi al memoir. Un allontanamento (forse solo momentaneo) dalle storie degli altri e soprattutto proprio dal romanzo, strumento che lo stesso Pomella nelle pagine dell’Uomo che trema considera non il più adatto «a disseppellire le mie pulsioni emotive, il magma che sentivo ribollire e che aveva la pesante responsabilità di rendermi, per così dire, inabile alla vita»[11].
Diciamo che si tratta di tre narrazioni non lineari – nonostante una rigorosa struttura interna – che portano impresse le stigmate del caos dantesco di un male infernale e che procedono spedite, con continue analessi e prolessi, verso un intransigente procedimento di indagine su se stessi e sulla propria patologia. Ma andiamo per ordine cronologico: nel 2014 Violetta Bellocchio pubblica per Mondadori Il corpo non dimentica, un testo nel quale l’autrice racconta il percorso intrapreso nel 2012 per liberarsi del fantasma di quei tre anni vissuti alle dipendenze dell’alcol, i cui ricordi sono stati seppelliti in una fossa poco profonda. Bellocchio, con un passato da «giovane signora autodistruttiva» (tra i venticinque e i ventotto anni) e un presente da recuperata, inquadra «il percorso esistenziale per cui, in linea di principio, le centinaia di migliaia di donne come me tendono a essere considerate danni collaterali necessari al benessere altrui; una terribile pietra di paragone, e allo stesso tempo lo specchio deformante della collettività»[12].
Dopo aver incontrato una psichiatra, e essere stata messa sotto antidepressivi, Violetta decide di entrare in cura da una psicoterapeuta, Meredith. Il 30 giugno 2012 le viene affidato un quaderno che contiene ventotto parole, dovrà prenderle una per volta, ognuna di esse servirà a innescare un ricordo: «ventotto giorni in cui non devo fare niente – niente insiste Meredith – se non dire la verità»[13]. Da qui inizia una sorta di diario attraverso il quale la narratrice ripercorre la sua malattia, scava nel ricordo, per trovare un filo di pace e per esternalizzare (o liberarsi di) quell’esperienza; un’esperienza fatta di violenza, di degradazione fisica e psicologica, di propositi di suicidio e di ebbrezza perenne: «Il più delle notti bevo birra e fingo di guardare la lavatrice girare. (Non abbiamo la lavatrice, se ce l’abbiamo io non la faccio.) Sambuca la mattina, dalle undici in poi. […]. Una volta sto pulendo la casa e vomito acqua nel bagno»[14]. Ma questo groviglio di stati confusionali e di vai e vieni da un ospedale all’altro dove ha avuto inizio? Violetta se lo chiede, individuando lo sbaglio, il momento della rovina: una festa, all’epoca dei suoi diciotto anni, «qualcosa dentro di me è andato molto storto. Non ne parlo con nessuno. Non saprei da dove cominciare, davvero. Mi fa male»[15]. Il racconto procede serrato, la narratrice si rivolge direttamente ai potenziali lettori e non ha alcuna pietà per quella se stessa con cui ora deve tentare di convivere, né alcuna remora nello spiattellare in pubblico una vera e propria discesa in una vertigine fatta di immagini perturbanti, di umiliazioni continue e di stanze squallide e buie. Tanto che a un certo punto, il 12 agosto, scrive: «mi sento insozzata dalla mia stessa biografia»[16].
E d’altra parte, come afferma Violetta con rabbia, cosa pensavamo che sarebbe successo quando abbiamo accettato di ascoltare la storia non detta di una che ci è passata? «Cosa pensavate che fosse l’alcolismo femminile: un sottile languore mentre cade la pioggia?»[17]. Chi racconta, conscia del proprio privilegio di poter raccontare, non può smorzare i toni, non può nascondere la tossicità della malattia, perché è necessario avere una voce in un Paese che «ci racconta da morte; noi siamo la nostra tragedia. Questo Paese ci guarda passare»[18]. Ed ecco la privatizzazione del disagio, la tragedia di una vita di chiusura e di vergogna, nella quale l’unica speranza è di essere risucchiati fuori, con la consapevolezza atroce che il mostro è sempre in agguato, perché la struttura della dipendenza non si può rimuovere: «Continuerò a prendere blandi antidepressivi, finché qualcuno non valuterà che sia arrivato il momento di ridurre la dose a tre gocce al giorno»[19]. Per cui non c’è nessun finale possibile.
«Per la depressione, secondo me, non esiste la remissione totale»[20]: una consapevolezza simile accompagna il racconto di Simona Vinci Parla, mia paura (2017): una narrazione dal ritmo meno sincopato rispetto a Il corpo non dimentica, nondimeno incalzante grazie alla sapiente costruzione paratattica, con una tensione che non viene mai meno. Vinci affronta il racconto della propria depressione attraverso una serie di salti temporali e tematici, e lo fa partendo da quello stato emotivo dal quale tutto sembra avere origine: la paura. La paura di molte cose, la paura degli altri e quella di se stessi. La paura della paura. E poi dalla perdita dell’identità: «Mi disintegravo. Così la mattina uscivo e andavo a camminare in mezzo ai camion. Mi sembrava più facile rischiare davvero un urto mortale, una deflagrazione. Le definizioni per me sono paragonabili alla morte, ma questo abisso spalancato cos’era? Avevo trentatré anni e non sapevo chi ero»[21]. Attraverso l’abisso descritto dalla narratrice si può cogliere con chiarezza il senso di non-esistenza o di esistenza eccessiva cui sono condannati i soggetti depressi, per i quali la prigione è allo stesso tempo la propria mente e il proprio corpo.
Anche in questo corpo a corpo con il male totalizzante non vi sono sconti per il lettore, che seguendo del trame del racconto intessute da Vinci si ritrova di fronte a una vita appesa a un filo dalla quale si è sempre pronti a salpare, a una tristezza che mangia vivi, all’esistenza ridotta all’osso e alla complessa relazione con il corpo, considerato il portatore del male stesso. Si arriva poi a un punto nel quale la narratrice inquadra il limite estremo, il punto di non ritorno: un tentativo di suicidio fallito come culmine di un processo autodistruttivo che la spinge finalmente a cercare aiuto, ad accettare la propria vulnerabilità e a mostrarla agli altri. È l’inizio di un percorso nuovo, non privo di ostacoli, anche perché «Io so che, per me, l’obiettivo non era solo superare gli attacchi d’ansia, c’era qualcosa che doveva venire alla luce»[22]. E quel qualcosa verrà poco a poco alla luce: si tratta della morte di E., ex compagno della narratrice, avvenuta nel 1997, perché di tutte le cose fatte e successe nella sua vita «nessuna mi ha costruita (forse sarebbe meglio dire demolita, ma non ne sono sicura) come la tua morte»[23].
È lo snodo del dolore, il buco nero nel quale è stata inghiottita vent’anni addietro. Comprenderlo permette di intraprendere la trasformazione con la convinzione che le parole, che non l’hanno mai tradita, l’aiuteranno ancora; e con la lucidità per analizzare il male, una «paura senza oggetto» che molti non hanno il coraggio di confessare, un flagello che non lascia traccia diagnostica, per cui «spesso – sempre? – si viene rispediti a casa con una boccetta di benzodiapezine»[24]. Possiamo dire che Vinci nella parte finale del testo, meno dolorosa ma non per questo meno forte della prima, assume un certo distacco critico nei confronti della depressione, e non esita a scagliarsi contro il rifiuto sociale della malattia mentale: «Come se fosse una colpa o qualcosa di cui vergognarmi, essere ammalati. Come se tutte le malattie si potessero dire, raccontare, discutere, tranne quelle che hanno a che fare con il cervello»[25]. Infine Vinci sottolinea la necessità di non giudicare chi opta per la scelta estrema, chi si arrende a quell’ombra insopportabile che oscura la mente, perché qualsiasi giudizio risulterebbe sempre superfluo, parziale, feroce. Perché «ogni vicenda umana è diversa, ogni storia di ansia, paura e depressione è diversa, non c’è una via unica. Questa è stata – questa è – la mia»[26].
Se è vero che ogni storia umana è marcata dalla differenza, tuttavia sembra esserci qualcosa che lega tutti coloro che hanno sofferto di depressione: ne ho la conferma leggendo L’uomo che trema (2018) di Andrea Pomella, i cui punti di contatto con l’esperienza e anche con l’estetica di Vinci (e di Bellocchio) sono numerosi. A partire dalla paura, in particolare le paure notturne, fino al senso di non-esistenza, come si evince dal passaggio che segue: «La presa d’atto dell’irrilevanza della realtà non mi toccava più i gangli vitali, e perciò io non potevo più ritenermi, a rigor di logica, un essere vitale»[27]. Pomella in questo testo racconta la storia della sua depressione[28], e lo fa attraverso una costruzione narrativa di maggior respiro rispetto a Parla, mia paura e Il corpo non dimentica, un procedere più analitico e una chiara divisione per tematiche che permettono all’autore di realizzare quello che potremmo definire perechianamente un tentativo di esaurimento del disagio psichico. Si tratta di una storia che inizia con un cattivo umore che non passa mai, con l’etichetta ricevuta in famiglia di «un carattere difficile» e con la mancanza di dignità attribuita alla malattia. A seguito di tali constatazioni ha inizio il processo di riconoscimento e di rigorosa analisi del male, un’urgenza evidente fin dalle prime pagine: «ho interesse a esplorare queste acque profonde in cui mi sono inabissato, a scandagliarne ogni cavità»[29]. Le meticolosa ricerca lo porta a identificare se stesso con la malattia di cui soffre, e a riconoscere la maledizione del depresso che per raggiungere ciò a cui aspira deve faticare il triplo rispetto a una persona sana: è la maledizione di Sisifo che spinge il masso, «Solo che a volte io non mi sento Sisifo. Mi sento il masso»[30].
Va da sé, nemmeno L’uomo che trema lesina impulsi suicidi, attacchi di panico e dolore, un dolore violento che schiaccia tutto. Le nude immagini di cui si nutre la narrazione comunicano con vividezza l’abisso della malattia, senza mai scadere nella vittimizzazione del malato, che pure deve fare i conti con l’incomprensione sociale, finanche del personale medico: «Il medico psichiatra non ha idea di quanto vasto e multiforme sia l’oceano del mio male, di quante leggendarie bestie marine vi dimorino, per lui la mia depressione maggiore non è che un piccolo stagno in tempesta»[31]. Il narratore si sofferma sulle ancore di salvezza che ritrova nel nucleo familiare composto da sua moglie Grazia e da suo figlio Mario di sette anni, e descrive dettagliatamente il suo impegno profuso per superare le imboscate della malattia e adeguarsi al suo corso fatale, «convincendomi della razionalità di ogni singolo evento depressivo, allo scopo di raggiungere una pace che non può concretizzarsi in altro se non in una sorta d’indifferenza finale verso ogni aspetto della realtà»[32].
Mai accondiscendente verso se stesso, e con un forte piglio critico nei confronti del contesto romano (definito desolante, mentre la vita lavorativa è considerata di una tristezza piana e ineluttabile), il narratore, che si considera «un abusivo, uno che non può permettersi di abitare il mondo in scioltezza»[33], riesce ad affrontare, con l’aiuto di Mario, il problema di fondo, una delle cause all’origine del disagio psichico, ovvero il fatto di aver abbandonato il padre da ormai trentasette anni: «Il mio male non è quindi diretta conseguenza delle azioni di mio padre, ma effetto del preciso atto di volontà che ho compiuto da bambino: rinchiudermi nella caverna per vivere in contemplazione di quell’unica ombra immensa»[34]. Riallacciare i legami col padre significa per Pomella voltarsi con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna, gli occhi abbagliati dalla luce del sole. E prendersi il tempo necessario per adattarsi alla nuova realtà. Nondimeno, rimane una consapevolezza amara, come per Bellocchio e Vinci: «Sono di nuovo nel mondo, ma non so per quanto ancora. Non so se questa tregua durerà, se fra qualche mese ricadrò di nuovo nelle spire del mio male»[35].
Per concludere, mi sembra di poter affermare che da questa breve e parziale lettura delle tre opere di Bellocchio, Vinci e Pomella si possano scorgere le storie di tre personaggi emblematici dell'(iper)modernità, tre esistenze sintomatiche della crisi della società odierna e del disagio esistenziale vigente. Quello che voglio azzardare, sulla scia di ciò che ho affermato all’inizio dell’articolo, è che le loro vicende personali – nelle quali il disturbo psichico occupa una zona preponderante – non possono essere slegate dal contesto in cui si svolgono, non possono essere scollegate dalla narrazione di cui fanno parte. Ma è soprattutto un altro l’aspetto che vorrei mettere in evidenza: ho sempre pensato che il ruolo maggiore della letteratura fosse quello di allargare l’immaginario. Qui però ci troviamo di fronte a una letteratura radicalmente testimoniale che, oltre ad avere – non dimentichiamolo – una virtù terapeutica per chi scrive, si fa portatrice di una forza dirompente – come dirompente è il linguaggio proprio ai tre autori – che spazza via i pregiudizi e che affronta, a volto scoperto, l’ignoranza e il silenzio che circondano la malattia mentale. Allora, strizzando l’occhio a Giuseppe Berto, direi che questa letteratura rende quel male psichico un po’ meno oscuro e ci fa capire che, in fondo, questa vicenda è anche la nostra.
[1] Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici K-punk / 1, Roma, Minimum fax, 2018, p. 202, epub.
[2] Ivi.
[3] Francesca Borrelli, Massimo De Carolis, Francesco Napolitano, Massimo Recalcati, Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci, Torino, Einaudi, 2013, p. 64, epub.
[4] Ivi, pp. 67-68.
[5] Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Roma, Minimum fax, 2013, p. 67.
[6] Violetta Bellocchio, Il corpo non dimentica, Milano, Mondadori, 2014; Simona Vinci, Parla, mia paura, Torino, Einaudi, 2017; Andrea Pomella, L’uomo che trema, Torino, Einaudi, 2018.
[7] https://www.lastampa.it/cultura/2017/09/23/news/simona-vinci-combatto-il-tabu-della-depressione-bisogna-accettare-di-essere-fragili-1.34424715.
[8] Franco Lolli, La depressione, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 10-11, epub.
[9] Simona Vinci, Parla, mia paura, cit., p. 119.
[10] Ivi.
[11] Andrea Pomella, L’uomo che trema, cit., p. 171, epub.
[12] Violetta Bellocchio, Il corpo non perdona, cit., pp. 26-27, epub.
[13] Ivi, p. 49.
[14] Ivi, pp. 68-69.
[15] Ivi, pp. 83-84.
[16] Ivi, p. 133.
[17] Ivi, p. 205.
[18] Ivi, p. 294.
[19] Ivi, p. 349.
[20] Simona Vinci, Parla, mia paura, cit., p. 60.
[21] Ivi, p. 4.
[22] Ivi, p. 53.
[23] Ivi, p. 78.
[24] Ivi, p. 53.
[25] Ivi, p. 93.
[26] Ivi, p. 103.
[27] Andrea Pomella, L’uomo che trema, cit., p. 12, epub.
[28] https://www.doppiozero.com/materiali/storia-della-mia-depressione.
[29] Andrea Pomella, L’uomo che trema, cit., p. 26.
[30] Ivi, p. 52.
[31] Ivi, p. 80.
[32] Ivi, p. 225.
[33] Ivi, p. 266.
[34] Ivi, p. 304.
[35] Ivi, p. 318.
Tutto bello ma la vogiamo fare finita con questa insopportabile retorica da pseudo letterati colti, sensibili e umanisticissimi, che considerano gli psichiatri dei beceri prescrittori di pilloline? Praticamente non esistono psichiatri che considerano la malattia mentale come semplice squilibrio di sostanze chimiche, esistono invece psichiatri psicoanalisti, fenomenologi, psicoterapeuti che dedicano la loro vita a studiare il rapporto tra salute mentale e società, politica, psiche e via discorrendo. E poi ringraziando il cielo esistono gli psichiatri farmacologi perché ahimè non è tutta politica e le vite umane si salvano con antidepressivi, litio e antipsicotici (oddio che schifo!). Se una persona con problemi si rivolge a un farmacologo gli verranno prescritti psicofarmaci, se si rivolge a un terapeuta riceverà un supporto psicologico, ognuno facendo il possibile secondo le proprie competenze e la propria coscienza. Allora, la facciamo finita?