di Mirko Alagna

 

[Settimo intervento della rassegna intitolata Chi ha ucciso la critica? Un’indagine indiziaria, a cura di Mariano Croce, in cui autrici e autori si confrontano sulla recente contrapposizione, dialettica o meno, tra critica e postcritica].

 

Entro anch’io in punta di piedi in un dibattito che – valga come suo merito – mi costringe a mettere in tensione gran parte degli arnesi concettuali che mi sono familiari – per abitudine, formazione, forse persino indole. Vi entro provando a emularne lo spirito, sperando che non risulti una scimmiottatura. Una premessa: quello che sto scrivendo è un testo completamente trasparente, ciò che dico è ciò che intendo dire: non alludo, non dissimulo, non lascio intendere. Quando scrivo: “sembra” sto davvero esplicitando un sospetto; quando dico: “mi chiedo” non sto introducendo velatamente una critica radicale: sto sinceramente chiedendo delucidazioni su qualcosa che mi sfugge. Insomma, da questo punto di vista, quello che leggerete è un testo postcritico, in quanto ha un solo, superficiale, livello di lettura.

 

1. Angola e la postcritica

 

Angola è un testo di apparente prosa all’interno di un libro di poesie di Guido Mazzoni, intitolato appunto La pura superficie. Il narratore incontra, a Parigi, un compagno dell’epoca d’oro della contestazione, ascoltato e affiancato in strada qualche decennio fa. Ricordano le mobilitazioni lanciate illo tempore a supporto della lotta anticoloniale angolana e scatta, nella mente del narratore, il paragone con tragedie contemporanee e sulle sue diverse reazioni; scrive: «nel 1976 il mondo è leggibile, lo è oggettivamente; la realtà è un conflitto fra due forme di vita, e questo schema è rozzo ma sta dentro le cose, le semplifica e spinge masse di giovani italiani a parlare, per mesi, della rivoluzione comunista in Angola»; ora invece «i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili». Uno dei punti focali di Angola è insomma la perdita di leggibilità del mondo, connessa poi causalmente a un affievolirsi delle azioni e reazioni (politiche) nel mondo; quanto più il mondo è leggibile, spiegabile, comprensibile – anche a prezzo di semplificazioni rozze – tanto più ampio sarà lo spazio di possibilità percepita di azione nel mondo. Poter leggere la guerra di liberazione angolana porta giovani italiani «a scendere in piazza, a Massa o a Pescara, come se l’Angola avesse un rapporto con Massa o Pescara, o come se Massa o Pescara avessero un rapporto con la storia». La leggibilità della questione angolana era di un tipo particolare: non si cimentava in una precisa ricognizione delle interazioni, delle speranze, delle connessioni concrete politiche ed economiche di ciò che stava avvenendo – l’amico del narratore «non è mai stato in Africa, non conosce il portoghese, sa di essere bordighista ma non sa nulla delle quaranta lingue che si parlano in Angola»[1]; piuttosto, riversava sull’Angola uno schema di lettura del mondo predeterminato, in cui forze e reazioni, strutture e sovrastrutture, tendenze e concetti erano già ben noti (a lui) e grazie a loro quella guerra assumeva un significato e una posizione: un significato che bisognava spiegare e una posizione che bisognava prendere. Leggibilità, qui, significa possesso delle chiavi di lettura dell’esistente, conoscenza delle forze che più o meno nascostamente trascinano le dinamiche storiche e causano i loro epifenomeni politici. Leggibilità, qui, significa capacità di accedere al significato (vero) di ciò che sta accadendo, e che evidentemente non è lì in piena luce, a disposizione dell’osservatore e dell’attore.

 

Passano i decenni, e quell’ansia, quella tensione verso un generale disvelamento di significati nascosti perde prensilità sociale mentre colonizza i dipartimenti universitari. Il combinato disposto di arroccamento universitario della critica e del suo divenire sempre più estesa e radicale provoca risultati farseschi; valga come emblematico lo sfogo di una studentessa immaginato da Franzen: «l’intero corso […], nient’altro che stronzate […]. Tutti quei critici che si danno tanta pena per lo stato della critica. Nessuno che sappia dire di preciso che cosa non va. Tutti sanno che “aziendale” è una brutta parola. E se qualcuno si diverte o diventa ricco, è disgustoso! Male! Ed è sempre la morte di questo e la morte di quell’altro. E chi crede di essere libero non è “davvero” libero. E chi crede di essere felice non è “davvero” felice»[2].

 

2. Requiem per la Critica (?)

 

È una strana maledizione quella che sembra aver colpito la critica nei primi decenni di questo millennio. Da un lato appare “spompata” (Zuolo), priva di presa sui reali movimenti sociali, ininfluente perché disconnessa dal tessuto concreto della società, dalle sue esigenze, sfide e speranze; la critica resiste, e questa volta non è un bene: continua ad applicare schemi di lettura predeterminati a una realtà ormai trasformata e a proporre incasellamenti a una soggettività che ormai non vi si riconosce – e che suonano quindi astratti e artificiosi quando non residuati storici. Insomma, esistono ancora eredi ed emuli del compagno di Mazzoni, ma palesemente il vocabolario di lettura dell’esistente che propongono non attecchisce più, e Massa e Pescara sono tornate al loro rapporto usuale con il mondo e la storia. Non basta proporre una crittografia dell’esistente per scatenare tempeste: la decifrazione suggerita deve dimostrarsi in qualche misura consonante alle condizioni e aspirazioni diffuse. A peggiorare il quadro c’è poi, a volte, la reazione inacidita dei critici: delusi dalla diserzione ingrata delle masse che pure volevano liberare, ripiegano la teoria su stessa e scaricano la verve critica su impietose diagnosi dello stato comatoso della critica stessa; oppure si trasformano in fustigatori dei tempi e di chi li abita, così diverso dalla bella umanità di prima – e quanti venerati maestri ci hanno ricoperto di insulti in questi mesi di pandemia per la nostra scarsa ribellione e autonomia nonostante i loro insegnamenti sul vero significato di ribellione e autonomia. Il tutto, spesso, mantenendo ben stretta una posizione di santa irresponsabilità, senza cioè indicare alternative praticabili e svelando argutamente correità e mancanze delle alternative praticate.

 

Dall’altro lato, però, gode di ottima salute il piglio sospettoso dei critici, che si è anzi liberato dalle complesse teorie che lo supportavano – e dall’onere di indicare soggetti, moventi e mezzi a disposizione dei dominatori –, e vaga come postura diffusa segnando l’atmosfera psicopolitica del presente. Pane al pane: sempre più spesso la progressiva indistinzione tra critica e paranoia, tra sospetto e complottismo lascia le disquisizioni libresche e la si ritrova negli scivoloni dei maître à penser, nell’ubiquità di autodefinizioni di non conformità, di indipendenza, di opposizioni a un “pensiero unico” che è sempre quello altrui. Le cause di questo ribaltamento non sono (solo) contingenti: è proprio la critica più profonda e radicale a confinarci nel ruolo di pure vittime, sempre inconsapevolmente agite da entità mostruose che, uniche, sono i veri soggetti della storia. “Neoliberismo”, “capitalismo”, forse persino “Stato”, diventano così dei Moloch malvagi per definizione in grado di esprimersi con mille volti e di infettare ogni effervescenza sociale – nessuna contingenza: ovunque è all’opera un’intenzionalità che tutto può e tutto controlla. Ed ecco quindi la paranoia reazionaria impadronirsi dello sguardo critico e radicalmente sospettoso: tutto è falso nel mondo di Matrix, tutto è riconducibile a un fittissimo ordito di complotti elaborati da potenze demoniache – i “poteri forti”, Rothschild, Soros, sineddoche polite per il sempreverde “ebrei”; prendi la pillola rossa che ti diamo noi “critici”! Insomma, ci si potrebbe chiedere se i problemi attuali derivino davvero da un deficit di sospetto e un surplus di ingenuità – da curare con massicce dosi di critica. Forse, e in questa direzione ci fa guardare anche Latour, il problema è opposto: a scarseggiare è quel minimo di fiducia reciproca che rende possibili le interazioni sociali e la costruzione, direbbero alcune, di un mondo comune – e l’esigenza del giorno è quindi concentrarci sulle modalità di ricostruzione e ritessitura di tale tessuto fiduciario.

 

Non lasciamoci andare però (anche noi) alla smania di recitare affrettati requiem. È già stato detto che questa superficiale polarizzazione in realtà tralascia schemi e modelli critici di gran lunga più avvertiti (Bernini) e peraltro a mio avviso infinitamente più diffusi; insomma, persino nell’accademia quella critica così macchiettizzata (totale, astratta, arrogante) mi sembra già esangue di per sé e da tempo, mentre a fiorire è proprio quella critica ben più “potabile” postcriticamente, attenta alla microfisica, alle soggettività, di comprovata e rivendicata fede immanentista[3]. Oltre a questo, segnalo solo che gli incisi posti tra parentesi nei periodi precedenti – (solo), (anche) – non sono un eccesso di moderatismo; bene segnalare l’aria di famiglia che accomuna critica e paranoia, ma credo sia un errore postulare una filiazione quasi monocausale; la torsione complottista avviene in uno spazio in cui la critica si trova ad agire contestualmente a un blocco delle capacità immaginative: in cui cioè la strutturazione esistente del mondo è implicitamente considerata come non ulteriormente perfettibile – e quindi se qualcosa per me va storto, deve per forza essere colpa di qualcuno che inceppa, travia o usurpa un meccanismo da cui ci si aspetta una splendida efficienza.

 

Ad ogni modo, in questo panorama non proprio esaltante, la postcritica emerge (anche) come surrogato di una critica che gira a vuoto; tra i suoi maggiori vantaggi c’è insomma la capacità di fare esattamente ciò che alla critica non riesce più. La formulazione è paradossale ma coglie un punto decisivo: senza proiezioni di potenze ubique e globali, la postcritica riesce a valorizzare tutte quelle esperienze e mobilitazioni contestuali e controegemoniche che emergono dal sociale; liberi da missioni palingenetiche possiamo dare la giusta attenzione a pratiche che si muovono e crescono negli interstizi e che la critica classica non coglie o peggio condanna o condannerebbe come illusorie vite vere nella wasteland della vita falsa – quando non come quinte colonne del neoliberismo. Non solo, quindi, la postcritica sarebbe in grado di descrivere meglio un esistente pulviscolare, ma restituirebbe un nuovo ruolo al teorico, meno blasonato ma più efficace: non più apocalittico fustigatore dei tempi, ma attore tra gli attori, incaricato di mappare ciò che vede, elaborare concetti in grado di dare forme, incarnare connessioni inedite. Bandito il pessimismo cosmico si apre lo spazio per l’azione situata e precisa. Bandita l’attesa per leggendarie maturazioni dei tempi si apre la possibilità di agire da subito, nella materialità delle nostre vite. Bandita l’apocalissi ci si libera anche dall’ossessione per la purezza: «l’ambiente è rovinoso, catastrofico ma è nondimeno un ambiente e cioè un’infrastruttura di risorse e vincoli che per quanto sgangherata è ancora e sempre capace di animare e produrre mondi»[4] e vivere vite; senza vergogna per le proprie ambiguità, senza immacolate fedine morali, consapevoli delle proprie – diciamolo – complicità e compromissioni irrinunciabili, ma ciononostante – e proprio per questo – vite in cui pur sempre proviamo a stare a nostro agio.

 

3. Tocca farlo

 

That being said, non mi sembra tutto oro quel che luccica – e chiedo scusa per la necessaria schematicità. La postcritica, certo, brilla di forza attivante; c’è però un mondo di cose e circostanze che può essere più o meno favorevole e potenziante, che offre più o meno chance di potenziamento e felicità. Ci sono contesti e assemblaggi in cui stiamo bene, o in cui è più facile e più produttivo collocarsi in modo da trarre gioia e forza; e ce ne sono altri da cui sentiamo di dover prendere le distanze, agire in difesa, evitare di esserne intossicati. Appena usciamo dalla nostra bolla di affinità sappiamo che ci sono persone da schivare, luoghi da disertare, testi da non leggere; oppure, a grana più fina, argomenti da evitare con date persone in dati contesti. E tutto questo agire di ritaglio è fatto proprio per preservare potenza – o, in linguaggio ordinario, per scansare sconforto, mal di stomaco e mantenersi sufficientemente felici. Temo sinceramente di banalizzare concetti di portata decisamente più impegnativa, ma in fondo è (anche) di queste piccole preoccupazioni che è fatta la vita e la politica. La postcritica rifiuta distanza e sospetto cercando di legarsi al suo oggetto di studio, di entrarci in relazione affettiva collocandosi, appunto, in modo da trarne forza[5]; ma ci sono oggetti in cui la distanza sembra l’unico modo per preservare forza e serenità, il sospetto e l’indagine una delle poche modalità di trattarli senza sentirsi troppo spossati e inquinati. Una poesia, un racconto o un bel ragionamento possono cambiarmi e io posso dispormi in modo da farmi tendere al massimo; ma un delirio sul piano Kalergi, sull’invasione, sui taxi del mare, possono solo farmi letteralmente male, rovinarmi giornate e causarmi gastriti. Me ne tengo lontano, trancio legami, ma – e questo è il punto – può essere politicamente necessario averci a che fare: contrastarli, batterli, odiarli, parlare e parlare ancora con gli altri genitori del gruppo classe – anche svelando cosa c’è dietro (sospetto), anche rischiando spiacevolezze, anche armandosi di gastroprotettori. Posso cioè, ed è questa la parola scomoda, sentire il dovere di entrare in connessioni da cui la mia gioia può solo uscire fiaccata, e devo farlo perché quei deliri girano, si concretizzano in provvedimenti legislativi, impattano sull’atmosfera del presente. Devo farlo perché sono sbagliati. Per dirlo in termini più tranchant: credo che non sempre ciò che è politicamente necessario ed eticamente doveroso sia congruente con un aumento della felicità e della potenza di esistere. Sia chiaro, nessuno vuole qui difendere, e men che meno incarnare, un kantismo popolarizzato e catacombale, ma provare a prendere sul serio l’esistenza anche di una dimensione tragica nel mondo, nella vita e nella politica. Senza doversi schiacciare sul vivere depressivo dei critici, temo si debba comunque prendere atto di un mondo eticamente irrazionale, in cui chi fa politica deve essere pronto – dopo l’ennesima sconfitta, l’ennesima assemblea debilitante, l’ennesima discussione infruttuosa – dennoch!, come dice Weber: pronto ad andare avanti e riprovarci. Perché non può farne a meno e perché sente che è giusto – e onestamente non me la sentirei di scommettere sulla sua felicità. – Peraltro, sia detto per inciso dato che è stato evocato Kant: la sanzione (kantiana) di inaccessibilità del mondo noumenico e la convinzione (postcritica) di poter accedere in maniera letteralmente immediata al mondo mi sembrano condividere lo stesso tasso di metafisicità; si tratta cioè di due (opposte) immagini del mondo, ma pur sempre immagini del mondo – necessarie e utilissime e impattanti, ma ugualmente indimostrabili e inverificabili.

 

4. Ho visto anche razzisti felici

 

Immaginiamo questa scena: un crocchio in uno spiazzo pubblico, si alzano cori, grida, insulti; c’è rabbia, ma una rabbia che si scopre condivisa è in fondo felicitante; intanto ci si (ri)vede e ci si (ri)conosce, si sta per strada tra persone affini, ed è bello. Cosa sto descrivendo? È una protesta contro lo smantellamento di un presidio sanitario di quartiere o contro l’apertura di un centro di prima accoglienza? Dalla mia descrizione non si capisce e, credo, non si capirebbe nemmeno se fosse più estesa ma rimanesse tarata su un’analisi microfisica delle relazioni e delle emozioni circolanti in quel contesto. Ho ben chiaro dove io starei bene e sentirei crescere la mia forza, moltiplicare legami e aumentare lo spazio di possibilità – e dove invece mi sentirei costretto, triste, a disagio. Ma tutto è chiaro finché parlo di me. Altra cosa, ben più onerosa, è spingersi ad affermare che tra quelle due potenziali piazze agitate ce ne sia una attraversata e unita da affezioni positive e una dominata e recintata da passioni tristi. Non vedo in che modo, rimanendo sulla pura superficie, sia possibile discriminare crocchi diversi, se non impegnandosi in una mossa incredibilmente pesante in base alla quale alcuni assemblaggi vengono giudicati oggettivamente potenzianti e altri oggettivamente depressivi. Oggettivamente: cioè non “per me”, ma per tutti. Qualcuno può davvero alzarsi a dire che loro si sentono felici, si dicono felici, ma non sono veramente felici – ripetendo la mossa più irritante dei critici?

 

5. Tra Torquemada e Pilato

 

Davvero le buone intenzioni lastricano le vie per l’inferno. L’agente (potenzialmente) patogeno della critica sta in due assunti pensati per essere generosi: da un lato il sospetto verso l’autorappresentazione del parlante – chi crede di essere libero non è davvero libero –, prendendosi la responsabilità di valutare quanto quell’autodichiarazione di libertà possa essere condizionata, estorta, irriflessa. Dall’altro, l’esigenza universalista in base alla quale ci si salva solo insieme, o tutti o nessuno. Sommando questi due fattori il risultato può essere agghiacciante: è moralmente doveroso e politicamente necessario liberare tutti – anche chi non condivide quel preciso significato di libertà – e, se necessario, sbarazzarsi dei renitenti alla libertà, che con la loro testardaggine otturano la salvezza di tutti gli altri. È solo un rischio, ma per precauzione potremmo essere ben felici di allontanarci da sospetti portatori sani di autodafé.

 

Che succede dall’altra parte della barricata? La prendo larga. Croce tende l’ortografia e scrive “int(e)razione”: la “e” centrale viene da un lato omessa – «“intrazione” sostituisce quindi “interazione” proprio perché i termini della relazione sono costituiti in essa»[6] – e dall’altro valorizzata all’estremo – «io e te: una relazione qualsiasi muta i suoi termini come una relazione affettiva muta chi vi entra. Al punto che non ha senso chiedersi se quell’io, dentro la relazione, sia o no l’io che precedeva la relazione»[7]. Come in una mossa a tenaglia, due movimenti ortograficamente contrari si uniscono nello smascherare l’illusoria autopercezione “sovranista” di sé: non esiste un “sé” antecedente alla miriade di assemblaggi che ci formano mentre li formiamo. O almeno è così ab origine, perché a un certo punto qualcosa cambia, e proprio abdicando a quella fictio della sovranità-su-di-sé si guadagna capacità agentiva nel decidere il proprio collocamento all’interno degli assemblaggi; a un certo punto «ci si comprende come sezione del mondo, ci si rende individua(bi)li con un atto di separazione dall’insieme potenzialmente infinito delle connessioni»[8]. Si guadagna una certa pesantezza singolare capace di essere slancio per alcune connessioni e resistenza per altre. Ecco: l’osmosi tra singolarità individua(bi)le e assemblaggio è il punto che mi suona problematico. Sono d’accordo che mi (tras)formo nella relazione e insieme trasformo la relazione e gli altri nodi facendone parte, ma questo scambio non è sempre (e forse quasi mai) equivalente, ed è invece sempre rischioso o labile. In questo reciproco (tras)formarsi ci sono forze diverse in momenti diversi con poteri condizionanti diversi. Ci sono condizioni che rendono più o meno facile stringere, troncare o condizionare relazioni e c’è anche del sano realismo nella diffidenza del critico, consapevole che ci sono persone, e momenti nella vita di ogni persona, che per motivi contingenti – economici, culturali, sanitari, caratteriali ecc. – si trovano più a subire che ad agire quella specifica connessione, che vi partecipano da una posizione di debolezza. Non concettualizzare questo fatto – comunissimo nella vita concreta di tutti noi: abbandoniamo amicizie e ne stringiamo altre, cerchiamo di limitare il contagio di contatti spiacevoli ma inevitabili e ci facciamo felicemente stravolgere da altri – espone la postcritica, credo, al rischio di assumere una certa postura pilatesca.

 

4.3 Tocca farlo II

 

Nella pratica posticritica, a mio parere, c’è il rischio (nessun automatismo) che l’aumento di operatività situata venga pagato in una potenziale perdita di efficacia nel momento in cui è necessario agire a livello strutturale; nel momento in cui, cioè, l’obiettivo dell’azione deve o vuole essere il consolidamento, la difesa o l’ampliamento di quello specifico interstizio, inteso come spazio di possibilità al cui interno azzardare modalità diverse di vivere (al) meglio. A questo livello si è obbligati ad agire politicamente nel senso tradizionale del termine, ossia facendo pesare numeri e rapporti di forza; ma per avere numeri e rapporti di forza favorevoli si può essere costretti a cercare alleanze e supporti allargando l’assemblaggio a nodi con cui solo quel preciso obiettivo ci accomuna, mentre molti altri ci distanziano. Può essere che si debba accettare la co-azione con persone e gruppi in larga parte spiacevoli, cercare faticosamente di convincerli, accettare compromessi. Che faccio? Rispondere a questa domanda è una delle grandi difficoltà della politica; volta per volta, a seconda delle mie scelte etiche e politiche, valuterò quanto in là e in che direzione spingere l’allargamento dell’alleanza, davanti a chi e cosa fermarmi – costi quel che costi –, se, quali e quanti rospi ingoiare; dopo di che, mi assumerò la responsabilità politica di questa scelta, nel bene e nel male[9]. Nonostante la formulazione sembri démodé, questo mi sembra ciò che di fatto fanno tutte quelle soggettività che agiscono politicamente, dentro e sugli interstizi, quando si interrogano sui potenziali interlocutori e decidono con chi parlare e chi combattere, quando provano a condizionare movimenti o preferiscono tenersene alla larga. Tutte dinamiche che, a mio parere, non sono completamente spiegabili con la permanenza su un puro piano di immanenza. Tutta questa spiacevolezza, infatti, va sopportata in nome di una doppia scommessa: quella di riuscire così a raggiungere l’obiettivo prefissato e quella, ancora più tragica, di non pervertire l’obiettivo accettando troppi compromessi, di non scoprire di aver suscitato, con i mezzi e le alleanze ingoiate in nome di quel fine, forze e contraccolpi devastanti in quello o in un altro ambito. L’aggettivo fondamentale di questo periodo è ancora una volta “tragico”: mi chiedo cioè se la ricerca di massimizzazione della propria potenza d’esistere riesca a motivare un agire strategico che porta con sé inevitabilmente anche amarezze, dubbi, fastidio – e tutto in nome di un azzardo. Vedo insomma il rischio, tanto controintenzionale quanto però coerente, di favorire una diserzione da questo spazio – in fondo chi me lo fa fare di intossicarmi giornate per qualcosa di faticoso e dubbio – o di sagomarlo paradossalmente in cerchie di simili – partecipo solo ad assemblaggi in cui sto bene, in cui trovo persone affini, e pace se siamo pochi – o ancora di tendere verso un’autoriflessività che può diventare esasperata al punto da offuscare l’obiettivo stesso – obiettivo che diventa quindi mera occasione per fare qualcosa di bello insieme, e pace se non lo si raggiunge.

 

6. Ancora tu, ma non dovevamo non vederci più?

 

Cerco di essere ancora più esplicito: agire sul piano politico all’interno di soggetti numericamente significativi significa anche anteporre le esigenze di quello specifico assemblaggio alle proprie, tollerare un impaccio alla propria libertà in nome di qualcosa di incerto. Ciò è implicito e connaturato all’agire con altri; altri che, seppur condividono con noi quello specifico obiettivo, su molto altro sono o possono essere diversi: sta poi a noi decidere se e quanta “diversità” accettare, quanto farci cambiare e di fronte a cosa, invece, porre un veto insormontabile. Temo, appunto, che muoversi sul piano d’immanenza, con tutta la sua carica liberatoria e libertaria, con il suo rifiuto di sintesi – considerata sempre sacrificale – e l’enfasi sacrosanta sulle differenze irriducibili possa (non debba) da un lato causare una pericolosa diserzione da quel piano – pericolosa perché altri lo praticano, e con successo. E, dall’altro, possa indurre, paradossalmente, proprio a un calcificarsi e atomizzarsi di quelle identità che si voleva sfaldare; insomma, se la postcritica riesce a fare (virgola) ciò che alla critica non riesce più, vedo il rischio che sul piano d’immanenza della postcritica si riproducano gli stessi effetti nocivi della critica. Il critico, infatti, cristallizza(va) identità, forte di una scolastica talmente onniesplicativa da bollare ogni scarto come una compromissione, un tradimento, un segno di internità al fantasmatico “Sistema”; la postcritica immanente, leggendo ogni sintesi unitaria come una potenziale violenza compiuta ai danni dell’incomprimibile differenza di ciascuno, mi sembra possa finire a incentivare la formazione di gruppi di “ugualmente differenti”; ogni cedimento e compromesso non è più un “tradimento della Causa” ma rimane comunque un “tradimento” di ciò in cui si crede, di qualcosa che per noi è importante e che ci fa star bene. Per motivi e con fenomenologie diverse, e diversamente valutabili, l’esito può essere simile. Temo insomma che quel congedo dalla paranoia della purezza – tra i maggiori vantaggi della postcritica – rischi di essere revocato dall’emergere di un nuovo pulviscolo di secessioni tra omogenei, piccoli gruppi che concordano tra loro, e solo tra loro, sul significato di alcune parole. Il problema è sempre lo stesso attorno al quale giro da tre paragrafi: quanto è ampia la zona di modificazione potenziale, quanti sono i nodi dell’assemblaggio da cui mi lascio mettere in crisi, in discussione, cambiare? Quali legami tronco e quali, invece, mi cambiano? Ed è davvero tutta responsabilità mia?

 

7. Tra il crocchio e lo Stato

 

«Quando il minuto si trasforma, l’ampio ne esce trasformato […]. La postcritica è spinozista nella misura in cui crede che un solo corpo felice sia in grado di suscitare effetti di superficie che si ripercuotono sull’intera linea di aggregazione dei corpi»[10]. Questo è il punto focale e la grande scommessa. Ahimè, ho letto Hobbes prima di Spinoza, e il massimo del compromesso a cui posso arrivare è che a volte il minuto può trasformare l’ampio, e a volte succede l’inverso. Pistola alla tempia, questa volta scommetterei anch’io sul minuto, più che altro per diffidenza nei confronti delle capacità trasformative dell’ampio. Per fortuna però non ho una pistola alla tempia, e quindi mi chiedo se davvero è così secca l’alternativa. Davvero dobbiamo scegliere tra molare e molecolare, tra crocchio e Stato? Penso che sia più fruttuoso ragionare su scale, modi e maniere del fare politica; nessuna speranza nell’ampio – paralizzato dalla sua stessa ampiezza e incapace ormai di descrivere il sociale, figuriamoci trasformarlo – ma con l’esigenza di ragionare politicamente su scale e modi di organizzazione del molteplice in grado togliere ai crocchi quella tachicardia che li fa gonfiare e sgonfiare in tempi giornalistici, per trovare il modo di dargli stabilità, durevolezza, continuità, capacità organizzativa – una piccola rivoluzione permanente, dove l’enfasi è chiaramente sul participio – anche accettando di pagarne i costi. Penso che sia questo ciò che sta succedendo, ciò su cui si sta lavorando e sperimentando proprio in quelle miriadi di mobilitazioni che continuano ad agitare i nostri tempi e che l’approccio postcritico ci permette di vedere. Bene i flussi, per carità: ma possiamo immaginarci forme che aiutino i flussi a stabilizzarsi e sopravvivere abbastanza a lungo da scavare solchi, limare ostacoli, aprirsi una strada al mare?

 

Note

 

[1] G. Mazzoni, Angola, in Id., Pura superficie, Donzelli, Roma 2017, p. 37.

[2] J. Franzen, Le correzioni, Einaudi, Torino 2002, pp. 45-46.

[3] I cui “-ismi”, va detto, spesso si sviluppano come una lingua da iniziati, volta più segnalare appartenenze che a comunicare interpretazioni.

[4] M. Spanò, Sull’agio di stare al mondo proprio ora, Dinamopress, consultabile qui: https://www.dinamopress.it/news/sull-agio-di-stare-al-mondo-proprio-ora-a-proposito-di-teoria-della-classe-disagiata/

[5] Cfr. M. Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 80-81.

[6] Ivi, p. 62.

[7] Ivi, p. 63.

[8] Ivi, p. 72.

[9] Perdonate lo scolasticismo, ma questo è ciò che fa di un testo come Politica come professione un classico.

[10] M. Croce, Postcritica, cit., p. 83.

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