di Pietro Pascarelli
Non scrivo per mestiere, anche se lo faccio ormai più frequentemente di una volta. Non ho forse mai avuto un mestiere, a parte quello di vivere, avendo studiato per una professione, quella di psichiatra e di psicoanalista, dal nome difficile da pronunciare e dal contenuto difficile da spiegare, proprio nei suoi aspetti più importanti.
Ho sempre apprezzato, senza invidiarlo, chi un mestiere semplice e chiaro agli occhi di tutti l’aveva: il falegname, il calzolaio, il fabbro, il barbiere. Lavori artigianali che non possono riuscire senza estro, ingegno, e la lunga prova di modestia dell’apprendimento, necessaria anche per loro. Ciò che serve per connettere le mani con le linee del pensiero nella composizione immaginaria e nella realizzazione di cose che aiutano a vivere, e rendono la terra più ospitale. Piccoli capolavori che restano impressi nel cuore di chi li ha come compagni in un luogo, in una situazione, in un paese, in una casa, in una relazione erotica, cui lega il corpo coi suoi ricordi, e l’affetto.
Esiste un mestiere di scrivere? Di certo non lo si apprende da qualcuno, a meno di non chiamare in questo modo — “qualcuno” — sconosciuti o figure familiari che ci hanno segnato, angeli o diavoli, quasi sempre senza che ce ne accorgessimo; o la morte beffarda che ci piega a terra come una raffica di vento; la scoperta del nome dei convolvoli che profumano a maggio, strangolatori di alberi; il calore della stufa contro cui il bambino si rannicchia quando fa freddo; la preparazione delle caramelle d’orzo, così facili da fare per una mamma e i suoi figli intorno a lei, come è facile in sogno e in certi pomeriggi infantili chiamare un amore che subito compare, e viene incontro etereo pieno di luce, o col corpo raggiunge e abbraccia.
Scrivere è trovare parole per ciò che è al di là delle parole. Parole che non vanno lette, ma viste ognuna, e una dopo l’altra, o l’altra dopo l’una, in frasi montate come in un film, che si familiarizzano poi fra loro, come fanno talvolta i fiori di diverse bocche di leone a forza di stare vicini, che si ‘innamorano” nella versione di mia madre, tingendosi degli stessi colori che “vedono”. Un film che anche lo stesso autore guarda come una cosa che vede per la prima volta.
Scrivo quando il tempo, un tempo di durata variabile e sorprendente per frenesie e pause, mi annuncia con la sensazione di una sottile stretta nel petto, che mi procura un grato senso di beatitudine e di attesa per il futuro, di aver ancora completato in me un suo cammino diretto da stelle sconosciute.
Si è infilato in stretti corridoi passando in mezzo a facce splendide e miserabili, facendo inventario d’ombre, di fotografie, di tazze vanitose da cui la luce fugge, di libri stremati col filo di refe messo a nudo sui dorsi smangiati, o con le pagine incollate dall’umidità, serrate come labbra chiuse. Le labbra chiuse sono la fine della fiducia e della speranza, sono ciò che non si può più cambiare, ciò che si perde e non può più tornare, il primo disinganno, orrore puro che un urlo non può bastare a dire.
Col tempo qualcosa ha attraversato intemperie e clamori del mondo, la pace dei campi e il silenzio delle chiese. È stato caricato un meccanismo che funziona come un relè e a un certo punto fa scattare qualcosa, apre un buco magico nel velo dell’esistenza, qualcosa che fa vedere.
Nel romanzo di Kafka Il Castello è attraverso il buco della serratura di una porta che si può osservare l’inquietante signor Klamm, un alto funzionario della gerarchia del castello, che si trova in una stanza della locanda in cui lavora come cameriera Frieda, la sua amante, prima si scappare in impeto erotico con l’agrimensore, il signor K. L’atmosfera è di cupa attesa, e vi è desolazione in questa scena priva di senso. La vista unidirezionale rubata dall’osservatore è simile a un’allucinazione creata dalla curiosità di vedere ciò che non si può vedere, che siamo alla fine sempre noi in quanto irrappresentabili a noi stessi se non attraverso un’inversione speculare, cioè vedendoci allo specchio o come in uno specchio triangolando su un altro che ci rispecchia. Tale immagine non interrompe la separatezza e l’incomunicabilità, non colma il nulla, e anzi accresce il mistero di un Potere imperscrutabile e incombente, il nulla o meglio il vuoto, cui rimanda. Quell’immagine di un uomo solo e spiato in realtà ci guarda, come la famosa scatola di sardine che galleggia sul mare e fa pensare a Lacan che essa lo guarda senza vederlo. È la “macchia” nel quadro, lo sguardo dell’Altro. In tutto ciò, in questa presenza sospesa della visione di un irraggiungibile Klamm, colta furtivamente e forse irripetibile, sta il nucleo segreto del weird, la pulsazione angosciosa di un mondo strano e incomprensibile che è metafora dell’assurdo e dell’enigmaticità della vita. Freud direbbe che siamo nell’area, nel vuoto che circonda la Cosa, das Ding. La Chose di Jacques Lacan, che ha a che vedere con ciò che sempre cerchiamo senza poter trovare.
Così pure in 2001, Odissea nello spazio Kubrick vede attraverso la macchina da presa e con gli occhi vitrei dell’astronave, col distacco e la passione frenetica di un nume, sullo sfondo di un cosmo nero solcato da luci fredde, la drammatica silente traversata nello spazio-tempo di un giovane astronauta. Il viaggio si compie attraverso sussulti e traumi molecolari nel vortice dell’energia e della materia per concludersi, dopo visioni e transizioni insostenibili, con l’approdo in una mai vista quiete, in cui il giovane si riscopre nel futuro — in un mondo bianco e fermo, in una stanza essenziale come il ghiaccio — imbiancato e vecchio. Un stato di vecchiaia senza storia e senza un’esistenza alle spalle che si possa rimpiangere o ricordare. La vita rimane come involucro vuoto, oppure: della vita rimane solo il perimetro, un confine senza territorio al suo interno, un involucro senza contenuto, che allude tuttavia a qualcosa, la Cosa, come le scatole vuote di fiammiferi che colpiscono Lacan in visita a casa dell’amico Prevert.
Su una lavagna nera in quel biancore potrebbero affiorare algoritmi e altri segni matematici, la lingua del dio.
Il tempo si presenta alle sue scadenze imperscrutabili portando in regalo un oggetto magico, una specie di ragnatela, che vibra e raccoglie farfalle e boulevard, tavolini di caffè e parate militari. Si ritrovano insieme alberi e signorine, un fiume e Rimbaud, l’uomo su una slitta nella tempesta di neve, rincorso da lupi famelici, e l’apatia inguaribile di Oblomov, Dillinger e i fratelli Marx. Un mondo immaginario si è messo in tumulto, si è attivata una diversa dimensione, una diversa realtà che sfuma nel sogno ma lascia una traccia nel reale. Gli attori si materializzano ed escono dallo schermo scendendo in platea come in un film di Woody Allen; cose rapide e immediate se pur fantasiose filano rapide come frecce verso chi guarda e scrive. Sento una corrente sotto la pelle, un respiro teso. In un attimo, non sono più là dov’ero e dove per un certo verso ancora sono. Ma sono dove?
Una spinta dell’inconscio che minacci gli equilibri difensivi e avvicini troppo il rimosso al conscio dà luogo a un agire (agieren, acting out), e comporta l’abbandono del registro della parola e del ricordo per azioni inspiegabili al soggetto stesso. Ma è possibile che la fantasia inconscia possa farsi strada con un effetto diverso: la liberazione di rappresentazioni gioiosamente vitali in un flusso creativo inusitato e modulabile, purché il soggetto dell’inconscio presenti la ricettività necessaria per farsene trasportare. Qualcosa di simile a ciò accade nel motto di spirito, o nell’estasi. Qualcosa che presuppone che l’inconscio possa essere ripensato non come la casa dell’orrore, ma entro una prospettiva dionisiaca, come vita e balsamo per la vita.
Era questa la proposta di Elvio Fachinelli rivolto nel suo ultimo libro, La mente estatica, alle profondità dell’essere, simboleggiate dall’infinita estensione e dalla potenza del mare che sempre si muove.
Forse quel che vediamo, quel che accade, è solo apparentemente improvviso. Forse il passaggio all’espressione è stato a lungo preparato nell’officina del preconscio. E forse la sua maggiore manifestazione è anche stata preceduta da piccoli antecedenti intesi come esperienze straordinarie puntiformi: illuminazioni, innocence, per dirla con William Blake.
Questa percezione dello scadere di un ciclo del tempo, questo segnale dell’inconscio, può raggiungerci in un angolo qualunque del mondo in un momento in cui ci raccogliamo in noi stessi, o mentre canticchiamo guardando la nostra immagine riflessa in uno specchio. Da quel momento, per un bel po’ ogni volta, e ogni volta più a lungo, si vola, la nostra vita non è più la stessa.
[Immagine: Stanley Kubrick, 2001, Odissea nello spazio (scena finale)].
Bell’analisi, Dr. Pascarellli, lucida, pacata, serena, meditata…forse un po’, in fondo, disperata, ma non lo dà a vedere.
Manipolatore – in positivo della parola che pur dice di usare e di non conoscere a fondo, ma non è vero: è piacevolissimo leggerla ed illuminante.
Vasta la sua cultura, nel ‘particulare’ e nell’universale, ma non invadente, né impositiva.
Per fortuna…
Bonnes chances, pou tout…