di Franco Lolli
[Per la Poiesis Editrice di Alberobello, nelle scorse settimane è uscito Psicoanalisi senza dio. Per una critica del nuovo discorso religioso, volume curato da Luigi F. Clemente, Franco Lolli, Cristian Muscelli, Antonio Tricomi che, oltre ai contributi dei curatori, include saggi di Nicolas Guérin, Markos Zafiropoulos, Erik Porge, Daniel Koren, Jacques Hochmann, Michel Tort, Gérard Pommier, Roberto Finelli. Il libro – di cui, per gentile concessione dell’editore, si pubblica qui parte dell’introduzione, firmata da Franco Lolli – sarà presentato il prossimo 12 febbraio in un incontro con i curatori che si terrà sulla piattaforma Zoom. Per informazioni e prenotazioni: www.poiesiseditrice.it e info@poiesiseditrice.it.]
Il 29 ottobre del 1974, Jacques Lacan, rispondendo ad alcuni giornalisti, tiene una conferenza stampa presso il Centre culturel français di Roma. Il testo di quell’intervista diverrà il noto saggio Il trionfo della religione, in cui lo psicoanalista parigino avanza l’ipotesi di una possibile estinzione del discorso psicoanalitico, fagocitato dall’inarrestabile offensiva di una religione destinata, secondo lui, a dare senso “ad ogni sconvolgimento introdotto dalla scienza”. La sua idea era semplice e convincente: la psicoanalisi – egli affermava – ha rappresentato “un piccolo lampo”, “un momento privilegiato” sospeso tra “un mondo passato e un mondo che sta per riorganizzarsi come un meraviglioso mondo futuro”, e dunque il manifestarsi temporaneo di una precisa maniera di intendere l’umano (determinata da quanto accade nell’inconscio) condannata, però, a soccombere[1].
Nessuna garanzia – per dirla altrimenti – che la centralità attribuita dalla psicoanalisi al parlessere resisterà all’inarrestabile, e perturbante, sviluppo della scienza alle cui illimitate, inquietanti scoperte (che aprono a sconvolgenti scenari catastrofici, suscettibili di generare un diffuso senso di angoscia e un bisogno di confortanti soluzioni) la religione risponderà trovando “una corrispondenza di tutto con tutto”, sì da riaffermare il suo storico primato[2]. Nuove concezioni dell’uomo potranno allora sostituirsi a quella rivelata dall’elaborazione teorico-clinica di Freud. Si parlerà cioè non più di un soggetto diviso, marchiato da un insanabile conflitto interiore, segnato dal trauma impostogli dal linguaggio e indotto a interrogarsi sul taglio significante che lo ha generato, ma di un uomo “guarito” da quel dissidio provocatogli da “ciò che non va”, rassicurato dal vivere in un mondo in cui “tutto si rimetterà a girare per il verso giusto, tutto sarà sommerso dalle solite cose, dalle più schifose tra tutte quelle che conosciamo ormai da secoli, e che naturalmente torneranno in vigore”[3].
La psicoanalisi – urge ricordarlo – è nata come “sintomo” della società europea di fine Ottocento. Come obiezione al discorso sociale repressivo. Come sviluppo (portato fino alla propria rottura) della coincidenza cartesiana tra pensiero ed essere. Come gesto capace di smentire la presunta padronanza dell’io. Come atto di affermazione di una dimensione che smantelli l’arroganza della coscienza. Per diversi decenni, essa è stata un sintomo del sociale. “Ma – proseguiva Lacan nella succitata conferenza – nulla ci autorizza a pensare che continuerà per sempre ad esserlo. Perché – concludeva amaramente lo studioso francese – vedrete che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi”. Essa annegherà “nel senso, nel senso religioso beninteso”: questa la secca previsione di Lacan. La psicoanalisi sarà sradicata dal discorso sociale in quanto verrà soffocata dal senso che la religione offrirà a un’umanità angosciata dall’espansione del reale della scienza (“che introdurrà un sacco di cose sconvolgenti nella vita di ognuno”)[4].
Come non essere d’accordo con un’analisi del genere? Come negare un fenomeno che, ad oltre quarant’anni da quell’intervista, sembra oggi più che mai attuale? Come non vedere cioè il crescente rifiorire di senso religioso in ogni manifestazione contemporanea dell’umano, nella politica in primis?
Eppure credo che Lacan, per ovvie ragioni legate allo specifico contesto socio-culturale del tempo in cui visse, non abbia potuto prevedere il vero pericolo al quale la psicoanalisi è (ormai da qualche decennio) esposta. Pericolo che non è, per dirla con estrema chiarezza, quello di essere sostituita dalla religione, ossia di essere soppiantata da un discorso ad essa alternativo. Pericolo invece che appare quello – e si tratta di una questione assai più spinosa e problematica – di implodere, di perdere di vista la propria identità costitutiva e di trasformarsi essa stessa in religione.
Per Lacan – bisogna ricordarlo – un’evenienza del genere era da ritenersi improbabile. All’esplicita domanda di un giornalista sulla possibilità che la psicoanalisi diventasse una religione, egli aveva infatti risposto: “La psicoanalisi? No”. Salvo tuttavia aggiungere, immediatamente dopo: “Almeno lo spero”[5].
Precisazione, quest’ultima, che esprime però, in riferimento al futuro, una paura che a distanza di quasi mezzo secolo sembra drammaticamente vicina a realizzarsi. Se la psicoanalisi appare insomma destinata a scomparire, ciò non lo si deve al fatto che le risposte da essa offerte si rivelino non più sintonizzate sulle richieste di rassicurazione e di senso mosse dal consorzio civile. Peraltro, da questo punto di vista, la religione è sempre stata e sempre sarà decisamente meglio attrezzata a soddisfare tali richieste e, di conseguenza, a trionfare sulla psicoanalisi, che quindi rischia l’estinzione per il motivo opposto: perché tende sempre più a rispondere a quelle domande sociali saturandole di un senso che – come Lacan ci ha appunto insegnato – è sempre un senso religioso e dunque perché essa stessa tende a diventare una forma di religione.
Tale sua deriva religiosa costituisce, fin dal principio, un pericolo che le è intrinseco. La storia del movimento analitico è scandita da gemmazioni di inedite prospettive di senso scaturite dalle molteplici interpretazioni della dottrina freudiana. Il rischio che lo psicoanalista ceda alle lusinghe immancabilmente procurate dall’adesione alla richiesta di senso è, del resto, sempre molto elevato. Ma ancor più nociva appare, soprattutto per l’analista lacaniano, la tendenza a scotomizzare una parte dell’insegnamento di Lacan che, senza dubbio, non è attualmente in sintonia con la richiesta sociale di rassicurazione. La parte, insomma, che mette al centro, tanto dell’elaborazione teorica quanto della pratica clinica, il concetto secondo cui “l’Altro non esiste”[6], o meglio, secondo il quale “non c’è l’Altro dell’Altro”[7].
In effetti, l’Altro, in quanto “tesoro del significante”, in quanto istanza della Legge, in quanto luogo terzo tra il soggetto e il suo altro speculare, in quanto garanzia del funzionamento del simbolico, esiste. Non esiste, invece, l’Altro dell’Altro, ossia un Altro che, a un livello di trascendenza ulteriore, garantisca la bontà della sua azione. Non esiste, in altri termini, un’istanza superiore che fondi – in una specie di donazione originaria – la piena legittimità dell’Altro. L’Altro che esiste è l’Altro che deriva da un patto tra pari, i quali, per assicurare la possibilità della convivenza civile, istituiscono la Legge come riferimento normativo a cui ogni membro della comunità, in cambio del rassicurante sentimento di appartenenza, è tenuto ad aderire. L’Altro che esiste è l’Altro del significante, anteriore al soggetto e, anzi, condizione della sua comparsa nel mondo umano.
Solo che a tale Altro manca qualcosa: “questo è il grande segreto della psicoanalisi”. Manca il significante in grado di attribuirgli una consistenza che superi l’immanenza della sua origine; che, in altre parole, smentisca il suo essere “una verità senza verità”[8]. Perché non esiste una verità prima – o ultima – che certifichi la verità dell’Altro.
Questa prospettiva radicalmente atea – che Lacan difenderà fino al termine della sua elaborazione – invalida ogni possibile lettura della psicoanalisi in chiave religiosa. La vocazione speculativa della psicoanalisi si arresta infatti sulla soglia del tema dell’origine e non si confronta mai con quello delle finalità. Nessuna cosmogonia, nessuna escatologia e nessuna teleologia: l’inizio, la fine e il fine della vita, quindi, non sono campi di suo interesse. Non solo: delle tante vite che la psicoanalisi incontra e studia, attraverso l’ascolto delle persone che al suo sapere si rivolgono, essa non sa altro che il loro essere sottomesse a forze pulsionali contrastanti; il loro essere orientate da fantasmi inconsci; il loro essere marchiate da conflitti di cui ha imparato a riconoscere le principali istanze in gioco; il loro essere assoggettate alla catena significante; il loro essere attraversate da correnti libidiche che non sempre risultano regolamentabili. La psicoanalisi non sa cos’è l’amore, cos’è la famiglia, cos’è il sesso. Non conosce il senso dello stare al mondo e non sa indicare quale sia la direzione più giusta da seguire. Non sa se sia meglio una vita di coppia o una vita da single; se sia meglio lavorare oppure oziare, avere amici o non averne, fare figli o non farne. Essa sa, infatti, che la vita può prevedere scelte inedite, in contrasto col senso comune, ostili allo spirito dei tempi, ma per tutti necessarie perché funzionali alla situazione esistenziale, unica e irripetibile di ciascuno. La psicoanalisi non deve entrare in risonanza coi valori che la cultura dell’epoca promuove. Se lo fa, perde il suo carattere fondativo. E lo psicoanalista che la costringa a farlo, si pronuncia esclusivamente a titolo personale, non già in quanto psicoanalista.
Ma c’è anche un altro pericolo a cui è esposta la psicoanalisi, sul versante della sua possibile deriva religiosa: il pericolo di legittimare la vocazione monoteistica della società nella quale essa è nata, attraverso l’affermazione (più o meno esplicitata) del primato del padre. Quando lo psicoanalista (come sempre più spesso, purtroppo, capita di ascoltare) inizia il suo straziante sermone sul declino della figura paterna e sulle terribili conseguenze che tale presunta fragilità del padre provocherebbe in termini di dissoluzione del sistema simbolico e di escrescenza di nuovi danni psicopatologici, ecco che l’odore di incenso pervade il campo analitico e che il lamento nostalgico per un passato oramai perduto infonde al discorso quel tratto mistico che tanto affascina le folle. Il mito di Edipo viene così piegato alla logica reazionaria di un invocato ritorno del padre e trasmutato in quella ridicola retorica secondo cui il padre che non stabilisce alcun limite, che in nessun caso dice “no” e che nulla vieta, fa precipitare il bambino nell’inferno materno, dal quale il figlio non potrà che uscire più che malconcio.
La consapevolezza dell’evidente superficialità di tali posizioni spinge gli psicoanalisti più accorti, tra coloro che le sostengono, a porre contrappesi concettuali ad esse, sì da camuffarne la sbrigatività. Non conta il padre – ci viene allora detto – ma la funzione paterna: non, dunque, la qualità, lo stile, il carattere dell’individuo in carne e ossa che il bambino chiama padre, ma la presenza (o l’assenza) di un’azione di limite, di barriera, di interdizione che – così recita la vulgata lacaniana – qualunque soggetto (non necessariamente un familiare) può realizzare. Tesi che, in effetti, sarebbe tutto sommato convincente: se non fosse però che poi è pur sempre l’azione del padre della realtà che si finisce col prendere in esame per denunciarne le innumerevoli mancanze, definite, di volta in volta, precarietà, assenza, infantilismo, immaturità, complicità, subordinazione, e via dicendo.
Il padre non svolge più il suo ruolo, affermano i declinisti, ossia quanti per l’appunto sostengono che il mondo occidentale sia segnato dalla sciagura dell’evaporazione paterna. Dunque – conseguenza logica implicita nei loro discorsi, sebbene mai confessata – occorre “ripristinarlo”. Ristabilire l’ordine patriarcale è il sotterraneo suggerimento che il declinismo offre insomma al nostro tempo, tacitamente spronato, per tale via, a scongiurare l’imminenza della catastrofe sociale. E, con l’ordine patriarcale, ci sarebbe altresì da restaurare, ovviamente, l’ordine divino. Non si dà infatti l’uno senza l’altro. Il primo implica necessariamente il secondo. Il culto del padre non è distinguibile dal culto religioso: il culto del padre – si potrebbe anzi affermare – è la religione per eccellenza. Dio, non a caso, è padre, maschio, creatore. Il bisogno di credere in Dio – scriveva Freud – si radica nel bisogno infantile di credere in un padre protettivo, rassicurante, accogliente, giusto.
Il patriarca (versione millenaria del padre occidentale) è, di fatto, l’uno d’eccezione. È il fondatore (della famiglia, del clan, della società). È la figura capace di garantire la stabilità della comunità che ha inaugurato, godendo del privilegio (che nessuno potrà mai mettere in discussione) di sottrarsi alle regole dell’ordine da lui imposto. Egli è, per definizione, il principio dell’intera storia: l’eroe di cui si tramandano le gesta generative e la capacità di tenere coeso il gruppo sociale che da lui dipende. È il creatore che governa il creato e a cui i figli sono riconoscenti per la vita che hanno da lui ricevuto. A lui si devono gratitudine e fedeltà incondizionate: il debito che egli instaura è inestinguibile, poiché connesso all’esistenza stessa di ogni sua creatura. In un regime di vera e propria devozione, ciascuno ha il dovere di testimoniargli rispetto, amore, lealtà, attaccamento. Il padre è, in tal senso, la perfetta controfigura di Dio: la venerazione nei suoi confronti rientra pienamente nel cerimoniale religioso.
Il discorso declinista rimpiange – pur senza mai affermarlo apertamente – la scomparsa di un simile padre. Fa coincidere la sua eclissi con l’eclissi del simbolico tout court: in una sovrapposizione del tutto ingiustificata, lascia dunque intendere che la funzione paterna collassi sul padre della realtà e il simbolico evapori nell’immaginario. Per quanto denegata, da questo cortocircuito concettuale emerge allora, come simulacro di un’auspicata restaurazione, l’intrinseca legittimazione culturale della figura dell’uomo “forte”, capace di prendersi quelle responsabilità che il padre “molle” non è più in grado di assumere; di compiere scelte “difficili e coraggiose” per il bene dei suoi sottoposti; di offrirsi come riparo sicuro per un gregge che vive nel disorientamento e nel panico. Sullo sfondo, resta sempre il richiamo al Padre dei padri, al Patriarca di tutti i patriarchi, al Mito che ogni mito (in primis familiare) sostiene. L’appello al padre è, in sostanza, l’appello a un ordine che ristabilisca il senso; a un assetto regolato che disciplini le cose del mondo; a una divinità che assicuri la già citata corrispondenza del tutto col tutto.
Note
[1] J. Lacan, Il trionfo della religione, in Id., Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, pp. 98, 102.
[2] Ivi, p. 99.
[3] Ivi, p. 102.
[4] Ivi, pp. 100, 98.
[5] Ivi, p. 99.
[6] Id., Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Id., Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, vol. 2, p. 823.
[7] Id., Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione. 1958-1959, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2016, p. 329.
[8] Ivi, pp. 329, 330.
Immaginare Sigmund Freud, buon lettore della lingua italiana, che si imbatte nel titolo di questo articolo, mormora qualcosa come: “Ach… du Schwein Oskar Pfister… also SOLCH eine Zukunft!…” e si fa immediatamente una dose come neppure ai tempi in cui era interno ospedaliero e l’odiato primario Meynert infestava anche i suoi sogni.
Io non credo che il discorso psicoanalitico si perda nella declinazione religiosa e tanto meno un ordine divino può essere un momento di dialettica alternativa a questa. Bauman nel 1995 con la solitudine del cittadino globale ha scardinato ulteriormente l’ordine divino riprendendo poi in società liquida il discorso del lavoro come trascendenza. Per cui credo che con questi presupposti nel pieno millennio la psicoanalisi atea possa ritenersi salvata dall’errore comune di sottovalutare il nomos paterno quanto quello di cercare significazione nell’altro, opera che Nancy conclude bene pur contraendo un valore che è quello della categoria del dolore. Jean luc Nancy l’intruso. Per cui scevra dal guelfismo lacaniano credo che la psicoanalisi sia ancora riduzione dell’altro con strategia psichiatrica quale opera di ingegno poliziesco anche e passatemi il termine di Dupiniana invenzione. Ancora oggi.
Il problema è che in Lacan il termine “Altro” ha una decina di significati diversi, il che genera molta confusione e ambiguità nei discorsi dei lacaniani
Derivando da una situazione che di normale ha ben poco, è chiaro che la “normalità” prima o poi entri in crisi. Non è normale infatti che il cristianesimo sottragga fin dalla nascita i figli alle rispettive famiglie. Dal resto, entrando in una situazione nel quale la mancanza di una famiglia naturale pone l’uomo in una condizione sradicata, è evidente che la raggiunta consapevolezza di questo fatto non può rimettere le cose a posto. Non lo può in quanto non ha termini di paragone e i condizionamenti che l’uomo ha avuto sin dalla nascita sono soverchianti. Certo una raggiunta coscienza in tal senso può rendere un grosso servizio all’uomo che ricerca la verità, ma d’altro canto di questa verità in realtà non sa che farsene! Ecco che dunque l’uomo è diviso, in preda a ciò che Nietzsche definiva come quella condizione nella quale non sa da che parte girarsi “che non sa neanche lui quel che gli accade”, per esprimersi con le parole della prefazione alla “Nascita della tragedia”. Altro che ritorno alla religione, mai ce ne siamo staccati.