di Sergio Benvenuto

 

Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica – né agiografica né spregiativa – di Freud.

 

Oggi conosciamo aspetti controversi della vita e dell’opera di Freud, che nemmeno gli apologeti freudiani possono ignorare. Certamente ci sono vari lati della personalità di Freud che sorprendono e deludono chi ha costruito un’immagine di lui come campione di idee assolutamente rivoluzionarie in rottura con ogni conformismo dell’epoca. Per esempio, la sua insensibilità alle avanguardie artistiche e letterarie della propria epoca, anche quando – come il surrealismo – queste si richiamavano direttamente alla psicoanalisi[1]. Stupisce la sua totale indifferenza per l’opera di Proust, per esempio, già celeberrima all’epoca, che pure appariva in sottile consonanza con le problematiche freudiane. Sorprende molti la sua indifferenza per le problematiche politiche, ad esempio.

 

E sconcerta il suo interesse per fenomeni come la telepatia. Nel 1921 uno specialista americano di spiritismo, Hereward Carrington, scrisse a Freud per sapere che cosa ne pensasse dei fenomeni occulti; e Freud rispose: “Se mi trovassi all’inizio della mia carriera scientifica, anziché esserne alla fine, forse non sceglierei altri campi di ricerca se non questo”[2]. Più volte Freud prese sul serio la telepatia. Giunse persino a dire che la psicoanalisi e l’occultismo avevano in comune il fatto di essere state entrambe vittime del disprezzo della scienza ufficiale. Miele per le orecchie di chi vuole demolire il monumento che la nostra cultura ha eretto a Freud.

 

Insomma, malgrado la radicalità delle teorie psicoanalitiche, Freud ha sempre portato con sé aspetti benpensanti da piccolo borghese, e una certa ingenuità culturale in senso lato, che oggi consideriamo tipica di un ceto semi-intellettualizzato.

Da qui l’interesse, da parte di Freud, per una serie di indagini che chiamerei “storiografia leggendaria”, oggi non meno floride di quanto lo fossero alla sua epoca.

 

1.

 

Freud aderì a teorie “complottiste” su Shakespeare. Sin dalla metà del XIX° secolo si era propagata una teoria, in realtà una leggenda storiografica, secondo cui Shakespeare era solo un prestanome del vero autore dei drammi shakespeariani, il filosofo Francis Bacon. Alla fine del XVI° secolo ci sarebbe stata una vera e propria congiura per proteggere l’identità di Bacon. Secondo questa teoria, Bacon, un Sir, non poteva farsi riconoscere come uno scrittore di teatro, professione all’epoca considerata volgare. Come scrive Peter Gay: “Chi identificava Shakespeare a Bacon mostrava un fanatismo assoluto e aderiva a teorie cospiratorie molto vicine alla paranoia”[3].

 

Nel 1920 un maestro di scuola inglese, Thomas Looney, rilanciò il caso attribuendo la paternità dell’opera shakespeariana non a Bacon ma a Edward de Vere, conte di Oxford[4]. Fu nota come “la teoria oxfordiana”. Persona molto erudita, Looney riuscì all’epoca a convincere della sua teoria anche scrittori e critici di un certo rilievo. Da notare che lo sforzo di questi “revisionisti”, sia di chi scommetteva su Bacon, sia di chi scommetteva su Edward de Vere, tendeva a fare di Shakespeare un membro delle classi sociali più elevate; insomma, trovavano inverosimile che l’autore fosse un saltimbanco di umili origini. Nel fondo, emergeva un tacito classismo: un genio come Shakespeare non può nascere in un ambiente plebeo! Freud si lasciò sedurre da questo ciarpame pseudo-storiografico. E questo malgrado gli avvertimenti di James Strachey e di Ernest Jones, che dall’Inghilterra cercarono di dissuaderlo dal prendere sul serio quelle teorie[5].

 

Freud aderì alla teoria di Looney. Nel dicembre 1928, in una lettera al famoso scrittore Lytton Strachey[6], che gli aveva inviato una biografia della regina Elisabetta e del conte di Essex, gli chiedeva il suo parere su questa ipotesi: se dietro il personaggio di lady Macbeth non si nascondesse un ritratto della regina Elisabetta, in quanto entrambe le donne erano torturate da un omicidio da loro commesso. Secondo lui, sia Macbeth che sua moglie incarnavano entrambi il destino di questa regina assassina, depressiva e isterica. Aggiungeva che il de Vere identificato da Looney assomigliava molto a Essex. E da qui si lasciava andare a un vero e proprio delirio interpretativo[7]. Non ci stupisce che Lytton Strachey non abbia mai risposto a questa lettera di Freud.

 

Nel 1929 Freud non dubitava più della tesi di Looney, fino a consigliare la lettura del suo libro a Smiley Blanton, un americano che era in analisi con lui, ed era specialista di Shakespeare. Blanton fu esterrefatto che il grande Freud potesse credere a tali sciocchezze, ed era sul punto di sospendere l’analisi per questo. Si rifiutò di leggere il libro di Looney[8], che fece leggere a sua moglie.

Oggi questo filone di pseudo-storiografia attorno a Shakespeare si è esaurito[9]. Sappiamo che la storiografia leggendaria oggi ha preso di mira altri temi. Molto diffusa oggi è la teoria secondo cui gli antichi romani avrebbero scoperto l’America, per esempio; o quella secondo cui il continente Atlantide di cui parlava Platone sarebbe davvero esistito… Per non parlare dei bestseller fanta-storiografici di Dan Brown.

 

Una certa ingenuità faceva parte di quello spirito positivista fine-ottocentesco di cui Freud era intriso. Da una parte la ricerca razionale, dall’altra un fascino per l’occulto. Fioriva allora lo spiritismo da salotto, che era un modo di dare la forma dell’esperimento scientifico a vecchie superstizioni sul ritorno degli spettri. Assieme a sua figlia Anna e a Ferenczi, Freud fece sedute spiritiche e si cimentò in esperienze di trasmissione del pensiero in cui lui stesso faceva da medium[10]. Ovviamente, per i detrattori della psicoanalisi questo è il suo limite “ottocentesco” in toto: sospesa sempre tra un ideale illuminista e positivista da una parte, e un’attrazione per il misterioso e l’occulto dall’altra. Una tensione che la psicoanalisi non avrebbe mai risolto, da qui la sua doppia faccia che la rende sospetta agli occhi di molti: non completamente scienza, non completamente un immaginario simbolico-letterario.

 

2.

 

Se l’adesione alla leggenda storiografica di Looney è rimasta una fisima personale di Freud, diverso è il caso di un testo di Freud che può essere considerato quasi testamentario, Mosè e il monoteismo[11]. Qui egli riprende una tesi che risale alla fine del XVII° secolo, secondo la quale – in assenza di qualsiasi prova storiografica – Mosè non sarebbe stato in realtà un ebreo, ma un alto dignitario egiziano, il quale avrebbe iniziato gli ebrei al monoteismo e sarebbe poi stato messo a morte dagli ebrei stessi[12]. Freud prova a rovesciare i termini della leggenda biblica di Mosè, secondo cui quest’ultimo era un bambino abbandonato dalla famiglia ebrea originaria che, raccolto dalla figlia del faraone, fu adottato e nutrito dalla madre di lei. Secondo Freud, invece, Mosè era rampollo della famiglia reale egiziana, la quale avrebbe abbandonato il bambino in un paniere sulle acque, e sarebbe stato raccolto e allevato da una famiglia ebrea.

 

In un saggio, Se Mosè era egizio…, Freud afferma che l’origine del monoteismo sarebbe nel regno di Amenhotep IV (Akhenaton) nel XIV° secolo a.C. Mosè, rampollo della dinastia faraonica monoteista, avrebbe così trasmesso questo monoteismo egiziano al popolo ridotto in schiavitù, gli ebrei. Avrebbe imposto loro il rito egiziano della circoncisione proprio per provare che Dio aveva eletto questo popolo come proprio alleato.

 

Freud, riprendendo le teorie bislacche del tedesco Ernst Sellin[13] – che interpretava uno scritto del profeta Osea – sostiene che Mosè sarebbe stato ucciso dal popolo ebraico, il quale preferiva adorare idoli. Da qui sarebbe venuta la credenza cristiana, secondo la quale un Messia sarebbe stato ucciso dal proprio stesso popolo[14]. Dopo questo omicidio di Mosè, gli ebrei avrebbero dimenticato – rimosso – il loro misfatto. Diciamo che Freud “cristianizza” l’origine della religione ebraica, facendone la conseguenza di un’uccisione originaria. A differenza della reinterpretazione islamica della storia di Gesù, per esempio, che elimina qualsiasi riferimento alla crocefissione e morte di Gesù.

 

Freud[15] associa poi a tutto ciò una storia biblica più tardiva, secondo la quale gli israeliti si sarebbero alleati con tribù beduine installatesi nel paese di Madian; il loro dio, Yahvé, era una divinità brutale e pulsionale. Un altro Mosè, un levita, sarebbe stato accolto da un beduino di nome Jethro, ne avrebbe sposato la figlia e sarebbe divenuto prete dopo essere scampato alle persecuzioni del faraone. Unendo la storia di questi due Mosè, sarebbe scaturita la leggenda biblica di un Mosè unico, che avrebbe fondato una religione che univa il culto beduino di Yahvé con il nuovo monoteismo inventato dagli egiziani. Freud aggiunge che la religione arcaica di Yahvé aveva soppiantato il monoteismo, credenza troppo intellettuale. Il monoteismo sarebbe risorto solo secoli dopo. In questo modo Yahvé, la brutale divinità originaria, veniva identificata al dio del monoteismo, e la figura di Mosè veniva essa stessa unificata in quella del fondatore di una religione del Dio unico.

 

Nel suo terzo saggio, Mosè, il suo popolo e la religione monoteistica, Freud riprendeva la tesi dei due Mosè, il madianita e l’egiziano. Di fatto adottava le tesi cristiane anti-semite (gli ebrei come popolo deicida) per dar loro un nuovo senso. Anche per Freud, gli ebrei avevano ucciso una figura divina, quella di Mosè appunto. In questa prospettiva, il giudaismo sarebbe la religione del padre, il cristianesimo quella del figlio. I cristiani sarebbero i legatari di un omicidio che gli ebrei avrebbero rimosso. Questo avrebbe permesso ai cristiani di universalizzare il loro monoteismo, cosa non possibile agli ebrei.

 

Ma perché insistere sul fatto che Mosè fosse egiziano e addirittura parte della famiglia faraonica, e non un povero schiavo ebreo? La molla è la stessa, credo, che portava a vedere in Shakespeare Lord Bacon o de Vere: l’idea che “i grandi” non possono avere umili origini. Che alla nobiltà storica debba corrispondere una nobiltà classista. Mi sorprende anzi che qualcuno non abbia ancora diffuso la teoria secondo cui Gesù non era “figlio” di un falegname ma dell’imperatore Ottaviano.

 

3.

 

Come si vede, benché Freud elabori alla fine una teoria originale e a suo modo suggestiva dei rapporti tra cristianesimo e giudaismo, la sua ricostruzione storica del costituirsi della figura di Mosè non ha la minima attendibilità[16]. Non mi risulta che nessun egittologo o storico di rilievo abbia preso sul serio queste fantasticherie freudiane. Si tratta di costruzioni che non hanno la minima base. Leggende. Ma da dove viene allora il rispetto che circonda i saggi “mosaici” di Freud da parte non solo di psicoanalisti, ma anche di filosofi e storici della psicoanalisi?

 

Indubbiamente gioca un presupposto oggi molto diffuso tra gli intellettuali: che le opere tarde, anzi l’ultima opera, di un grande autore, sono quelle più rivelatrici e più grandi. E in effetti possiamo considera i tre saggi mosaici di Freud la sua ultima grande opera. Non è diverso per altri autori: alcuni sostengono che The Tempest, l’ultimo dramma di Shakespeare, sia quello più rivelatore dello spirito di Shakespeare e in fondo il suo capolavoro. C’è chi considera il Falstaff il capolavoro di Verdi, proprio perché è la sua ultima opera. E fiorisce tutta una scuola di pensiero che esalta soprattutto il tardo Freud e il tardo Lacan. Per molti (giovani) lacaniani il Lacan che veramente conta è quello degli anni 1970, dell’ultimo decennio della sua vita. Le ultime opere vengono viste, insomma, come testamenti fondamentali.

 

È vero che il saggio dà forme mitiche, ovvero pseudo-storiche, a una tesi di fondo di Freud: il parricidio come nodo centrale non solo delle vicende individuali, ma anche della storia occidentale. In questo caso, l’uccisione di Mosè ha il senso di un’uccisione del padre del monoteismo ebraico. Freud rilegge nella storia ebraica quel che aveva elaborato come mito costitutivo della civiltà in Totem e tabù[17]: l’uccisione primordiale del padre dell’orda primitiva da parte dei figli maschi coalizzati. Quel che in Totem e tabù veniva dato come ipotesi d’origine della civiltà, in Mosè e il monoteismo viene dato come ipotesi storica attendibile, ma quel che conta è il valore cruciale che, in tutta la sua opera, Freud dà al parricidio. In questo Freud articola sul piano delle vicissitudini individuali – l’Edipo come parricidio immaginario per cui ogni essere umano, maschio in particolare, deve passare – quel che Nietzsche prima di lui aveva teorizzato come mito filosofico, ovvero la tesi della morte di Dio. Nietzsche non sostiene, come gli atei illuministi, che Dio non è mai esistito: dice che a un certo punto Dio viene ucciso dagli uomini. Si tratta di un evento storico, di cui gli umani porteranno sempre il segno e la responsabilità. In Freud, la morte di Dio è piuttosto una forma idealizzata dell’uccisione del padre. Mosè è figura paterna, in quanto padre del monoteismo.

 

Perché Freud ha dato sempre tanta importanza al tema del parricidio – fantasia o atto storico che sia – come elemento costitutivo dell’inconscio umano? Possiamo dire che oggi, nella pratica clinica, questa centralità è confermata? Possiamo dare al tema del parricidio la stessa attendibilità che aveva in Freud? Evidentemente questo tema dell’uccisione del padre era un chiodo personalissimo di Freud, un nodo del suo modo di pensare, ma questo modo di pensare è universalizzabile?

Certamente no. Il tema dell’uccisione del padre, come quello dell’uccisione di Dio in Nietzsche, restano miti, che esprimono ossessioni idiosincratiche dei loro autori. Si dirà che la specificità dei miti è di essere anonimi, produzioni collettive, mentre qui si tratta di miti scritti e firmati da un autore. Ma è anche vero che certe elaborazioni di autori possono avere la forma del mito, anche senza diventare mitologie collettive. Quelli di Freud si vogliono ricostruzioni mitiche delle origini della civiltà umana (Totem e tabù) e dell’ebraismo.

 

Ora, molti sostengono che questi “miti d’autore” illustrano qualcosa di profondo dell’epoca in cui queste tesi-miti sono stati articolati: ovvero il declino del mondo patriarcale, che questi pensatori avrebbero percepito ancor prima che esso divenisse evidentissimo, come è oggi. Anche se in modi diversi, Nietzsche e Freud si sarebbero fatti aedi di quella che potremmo chiamare la Saga del tramonto del Patriarcato. Con tutto quello che questo tramonto comporta: l’emancipazione delle donne e dei giovani, l’ideale di una “società sempre giovane” che si rinnova continuamente, il sempre minor rispetto per le tradizioni e per la storia, il rigetto delle autorità politiche ma anche intellettuali… Certo possiamo illuministicamente dire che la morte di Dio di Nietzsche e il parricidio di Freud sono solo fantasie, ma in questo modo perderemmo l’influente alone di senso che queste tesi-miti hanno.

 

4.

 

Gli infortuni di Freud quando si è cimentato con la storia reale sono stati spesso evocati dai suoi detrattori per dimostrare come, di fatto, le interpretazioni cliniche di Freud non siano diverse dalle sue bislacche interpretazioni storiografiche, a proposito del padre dell’orda o del Mosè sdoppiato. Analogamente, le sue ricostruzioni dei casi individuali risulterebbero prive di una base seria. Questo è particolarmente vero quando Freud cerca di ricostruire, attraverso sogni e fantasie, eventi reali, storicamente databili. Questo è il caso soprattutto dell’Uomo dei lupi.

 

In un altro testo[18] ho commentato questo caso famoso – anche perché scritto magnificamente – mostrando come il disperato tentativo di Freud di ricostruire l’Urszene, la scena originaria – l’aver assistito al coito dei genitori – come evento storicamente databile è del tutto fallimentare. In questa analisi, Freud pretende di sapere che Sergei Pankejeff (vero nome dell’Uomo dei Lupi) all’età di un anno e mezzo avrebbe assistito a un coito a tergo dei genitori alle cinque di un pomeriggio d’estate, e che egli avrebbe interrotto questo coito con una defecazione!… ¡Eran las cinco en todos los relojes! Credere di aver identificato questa scena in modo così preciso (che risale a un’età in cui ai bambini non resta memoria di quel che hanno visto) appare un’impresa alquanto simile a quella di identificare Shakespeare nel conte de Vere, o Mosè in un alto dignitario egizio. Elucubrazioni storiografiche senza nessuna prova verosimile. Eppure per Freud era importante far risalire i problemi del suo paziente Sergei a un trauma iniziale, all’aver assistito a una scena sessuale definita, per confutare le tesi di Jung, il quale interpretava le apparenti rimemorazioni di episodi infantili da parte di pazienti come delle retro-fantasie, come interpretazioni immaginarie del passato (Jung andava nel senso della moderna ermeneutica). Freud pensava sul serio che per “fondare” su basi solide la sua ricostruzione clinica – dell’Uomo dei lupi – occorresse risalire a un trauma reale, databile con precisione nella vita del soggetto. La verità è che Freud coglie aspetti molto acuti del mondo soggettivo del suo paziente senza aver bisogno del feticcio storiografico della scena databile, di cui potrebbe anche fare a meno.

 

Possiamo generalizzare. Freud ci appare rozzamente storiografico, ingenuo, poco convincente, ogni volta che egli punta su una supposta verità storica, ovvero su un evento ricostruibile. Fu per lui un evento storico preciso l’uccisione del padre dell’orda da parte dei figli maschi coalizzati. Fu un evento storico l’uccisione di Mosè da parte degli ebrei. È un fatto storicamente ricostruibile la sostituzione di un certo Shakespeare a un altro scrittore reale. Fu un evento biografico il fatto che l’Uomo dei lupi avesse assistito a un coito dei genitori da piccolo. È il pregiudizio secondo cui le strutture soggettive hanno origine in un evento descrivibile dall’esterno. Ma questa ricostruzione puntigliosa dell’evento preciso si risolve in un racconto mitico, sia sul piano storiografico, sia sul piano dell’anamnesi dei pazienti.

 

Il paradosso è che quel che vedo come un difetto di Freud – voler datare oggettivamente eventi soggettivi – è stato oggetto di attacco da parte di molti commentatori moderni, ma nel senso inverso: che Freud non avrebbe dato il dovuto rilievo ai traumi infantili precoci! È ben nota la campagna, al limite del calunnioso, di J. Masson contro Freud[19], il quale secondo lui avrebbe abbandonato la teoria della seduzione come eziologia dell’isteria (molestie sessuali da parte di adulti, in particolare di padri, nei confronti di figlie bambine), quindi un trauma storicamente databile, a favore di una teoria puramente “fantasiosa” dell’incesto. In realtà, Freud invece è rimasto sempre ligio all’idea che all’inizio ci deve essere un trauma esterno. E l’osservazione di un coito dei genitori è un trauma. I critici di Freud in un certo senso rimproverano Freud per non essere stato ancor più freudiano.

 

Oggi questa mitologia dell’evento originario, del fatto storico che spiegherebbe degli assetti soggettivi, è passata alla cosiddetta teoria dell’attaccamento. Questa suppone che alla base di tutte le problematiche adulte ci sia un certo tipo di relazione tra madre e bambino; ovvero, non come il bambino ha vissuto ed elaborato il suo rapporto con la nutrice, ma gli eventi effettivi, ricostruibili, della loro relazione. Difatti i teorici dell’attaccamento mostrano una lunga serie di video che “incastrerebbero” le madri nel loro rapporto coi bambini.

 

5.

 

Denunciare l’ingenuità della costruzione storica come ricerca dell’evento più o meno databile non implica una sottovalutazione di ciò che nella vita umana può fare evento. Possiamo senza dubbio supporre che nella primissima infanzia possano accadere eventi, anche anodini, che finiranno per dare una direzione precisa alla vita di un soggetto. Questa possibilità non va mai scartata. Ma appunto, la particolarità dell’evento originario è proprio quella di non poter essere ricostruito; e non solo perché esso può risalire a un’epoca della vita troppo precoce per conservarne memoria. Più l’evento è incisivo nella vita di un soggetto, meno esso è ricostruibile. È una sorta di Cosa – direbbe Lacan – che il soggetto non riesce a pensare e a definire, se non nella forma cava di un vuoto, di un’esperienza di mancamento. Una cosa è la vera esperienza soggettiva di ciascuno di noi, altra cosa è volerla vedere dall’esterno come uno storiografo, volerne datare gli episodi, ricostruirne i dettagli…

 

È il concetto stesso di evento quindi che nella psicoanalisi va ripensato, nel senso di chiedersi “che cosa fa evento”? È vero che lo stesso Freud ha accennato a una visione diversa quando ci ha parlato di Nachträglichkeit, di après-coup. E in effetti una riflessione sull’après-coup può liberarci da quella che chiamerei una certa ingenuità storiografica della psicoanalisi[20].

 

In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?

No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.

 

Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose… Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla…. Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant… per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.

 

Note

 

[1] Con l’eccezione di Salvador Dalì, che ebbe per un certo periodo in cura. Si fece fare da lui un ritratto (figurativo) oggi famoso.

[2] Cfr. Henri Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psicologia dinamica, Bollati Boringhieri, Torino 1980. Arthur Conan Doyle, Histoire du spiritsme (1927), Paris, Dunod 2013.

[3] P. Gay, “Freud and the man from Stratford” in Reading Freud: Explorations & Entertainments, New Haven, CT: Yale University Press, 1990, p. 17.

[4] J. T. Looney, “Shakespeare” Identified in Edward de Vere, the Seveteenth Earl of Oxford, London, Cecil Palmer, 1920.

[5] E. Roudinesco, Sigmund Freud en son temps et dans le notre, Seuil, Paris 2014. Location 8681.

[6] Fratello di James Strachey, che sarà il curatore principale della Standard Edition delle opere complete di Freud in inglese.

[7] Lettera di Freud a Lytton Strachey del 23 dicembre 1928 in Bloomsbury/Freud, pp. 373-375.

[8] S. Blanton, La mia analisi con Freud, Feltrinelli, Milano 1974.

[9] Anche se non completamente. La tesi di Looney venne ripresa dal film Anonymous di R. Emmerich nel 2012.

[10]Nel 1921 fece comparire su Imago un articolo, “Sogno e telepatia”, OSF 9, pp. 383-411; GW 13, pp. 165-221. Nel 1931 diede una conferenza sul tema “Sogno e occultismo”. Quindi pubblicò nel 1921 “Psicoanalisi e telepatia”, OSF 9, pp. 345-361; GW 17, pp. 27-44.

[11] S. Freud, L’uomo Mosé e la religione monoteistica: tre saggi, OSF, 11, pp. 331-453; GW 16, pp. 97-246.

[12] Jan Assmann, Mosé l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Milano, Adelphi 2000. Jacques Le Rider, “Moise égyptien”, Revue germanique internationale, 14, 2000, p. 127.

[13] Ernst Sellin (Mose und seine Bedeutung für die Israelitisch-jüdische Religionsgeschichte, Leipzig und Erlagen, A. Deichertsche Verlagsbuchhandlung, 1922).

[14] Ipotesi, questa, storicamente errata. Gesù fu crocifisso, e la crocifissione era una pena tipicamente romana. Se Gesù fosse stato giustiziato dagli ebrei, sarebbe stato lapidato.

[15] Riprendendo l’ipotesi dell’egittologo Eduard Meyer, Die Israeliten und ihre nachbastaemme: Alttestamenliche Untersuchungen, Halle, Max Niemeyer, 1906.

[16] Vedi Yosef Hayim Yerushalmi, Freud’s Moses. Judaism Terminable and Interminable, New Haven (CT), Yale University Press, 1993.

[17] S. Freud, Totem e tabù, OSF 7, pp. 7-164; GW 9, pp. 3-193.

[18] “Commento a ‘L’Uomo dei Lupi’ di Sigmund Freud”, POL.it, 29 dicembre 2017, http://www.psychiatryonline.it/node/7144

[19] Jeffrey Moussaieff Masson, Assalto alla verità. La rinuncia di Freud alla teoria della seduzione, Milano, Mondadori, 1987.

[20] Sull’après-coup: Jean Laplanche, Problematiche. Vol. VI : L’après-coup, La Biblioteca by ASPPI. Sergio Benvenuto, “L’après-coup, après coup”, POL.it, 3-IX-2018, http://www.psychiatryonline.it/node/7583. Alessandra Campo, Tardività, Mimesis, Milano 2018.  Antonello Sciacchitano, « In differita », POL.it,  http://www.psychiatryonline.it/node/7539,

 

 

[Immagine: Andy Warhol, Sigmund Freud from the portfolio Ten Portraits of Jews of the Twentieth Century, 1980, particolare].

7 thoughts on “Paccottiglia freudiana

  1. Senza volere minimamente sminuire l’interessante testo, che ho letto e riletto con profitto, mi sento incoraggiato dal titolo “paccottiglia freudiana” a proporre questa mia irriverente riflessione su Freud.
    Che fine ha fatto Sigmund Freud? Le teorie del padre della psicanalisi ci spiegavano, fino a ieri, che ogni comportamento umano era dovuto al subconscio. Molte patologie fisiche – vedi la stessa ulcera – erano considerate neurotiche, psicosomatiche, da guarire sul divano del ben pagato psicanalista. L’autismo del figlio era poi imputato a papà e a mammà. La ricerca del trauma infantile – e chi non l’ha avuto? – forniva la chiave di tutto. Dietro ogni comportamento eccezionale, dietro ogni atto di dedizione e d’altruismo, i seguaci della religione freudiana scorgevano il ghigno della bestia umana. Gli eroi e i santi erano persone che avrebbero avuto invece bisogno di lunghe sedute psicanalitiche per sanare i loro conflitti irrisolti.
    La psicanalisi saturava la cultura, il linguaggio. Ogni romanzo, ogni film americano avevano il loro bravo intreccio psicanalitico. Oggi, invece, nelle serie televisive trionfano il Dna, i gruppi sanguigni, i liquidi organici, le autopsie, le necroscopie, le analisi al microscopio. Le telecamere hanno lasciato il divano psicanalitico per installarsi in obitorio.
    La famiglia è uscita con le ossa completamente rotte dall’ubriacatura psicanalitica. I rapporti familiari erano stati posti da Freud sul piano dell’eros, con l’invidia del pene, il complesso di castrazione, il desiderio di andare a letto con la madre e di uccidere il padre. E il “pater familias” è stato effettivamente ucciso, in Occidente. La rivoluzione, quella vera, quella sessuale – auspicata da Freud – ha trionfato su tutta la linea. Ma non ha dato i frutti promessi. Il sesso gioioso, che pur avrebbe dovuto trionfare, trionfa solo nella pubblicità. Il pericolo dell’Aids e oggi anche del coronavirus ha sostituito la sanzione morale contro il sesso promiscuo. Sono poi apparse nuove patologie come l’anoressia, il body piercing, l’automutilazione, i tatuaggi sul fondoschiena. Le “nevrosi” abbondano. L’“alienazione” trionfa. Chi tra voi non è depresso alzi la testa…
    Nel trionfante permissivismo odierno, sopravvivono, non si sa come, solo gli antichi tabù dell’incesto e della pedofilia. Dare oggi una caramella a un bambino che non sia nostro figlio rischia di farci avere seri guai. Un nuovo tabù, sancito dal codice penale, è poi apparso in Occidente: il negazionismo.
    Il freudismo è passato di moda. Ma quanti guasti!

  2. Estremamente interessante. Un resoconto ‘a tutto tondo’ di Freud.
    Solo una notazione di carattere ortografico: i numeri romani sono già ORDINALI, non è necessario scrivere _XX^, XX è già la corretta trascrizione di ‘ventesimo’.

  3. Scrive Serio Benvenuto: “Oggi questo filone di pseudo-storiografia attorno a Shakespeare si è esaurito.” Aggiunge in una nota: “Anche se non completamente. La tesi di Looney venne ripresa dal film Anonymous di R. Emmerich nel 2012.”
    In realtà, gli studiosi continuano la ricerca del vero Shakespeare, vale a dire la ricerca mirante a stabilire l’identità del vero autore di quell’insieme di capolavori fin qui attribuiti al William Shakespeare di Stratford-upon-Avon. La paternità letteraria di quest’ultimo, circa l’opera cosiddetta shakesperiana, è infatti contestata da molti a causa di numerosi, consistenti indizi “contrari”. Basterà dire che questo Shakespeare attore, impresario teatrale, proprietario terriero, usuraio, non lasciò, alla sua morte, libri in eredità. E del resto, anche se avesse posseduto una ricca biblioteca, come la sua creazione letteraria farebbe supporre, il lasciare libri alle figlie sarebbe servito a ben poco, visto che queste erano analfabete. Il che, dopo tutto, non dovrebbe neppure stupire più di tanto, poiché sembra che lo stesso William Shakespeare non fosse andato negli studi più in là delle elementari.
    Ed ecco che un serissimo studioso, John Hudson, sostiene in un articolo accademico (“Amelia Bassano Lanier; A New Paradigm”) pubblicato in una prestigiosa rivista (The Oxfordian) che il vero autore delle opere attribuite a Shakespeare fu una donna, certa Amelia (Aemilia o Emilia) Bassano, figlia di un Baptiste (Battista) Bassano, musicista veneziano che era stato fatto venire a Londra a suonare nell’orchestra di corte. I Bassano di Venezia erano molto probabilmente dei “conversi” o “marrani”, come venivano chiamati gli ebrei convertitisi al cristianesimo.
    Una tale attribuzione di paternità letteraria – e forse sarebbe più giusto dire “maternità” – sarebbe stata accolta nel passato con espressioni d’incredulità e persino di dileggio. Ma i tempi sono cambiati: che l’autore immortale sia in realtà una donna, è un’idea oggi accettabile. Gli argomenti presentati da questo studioso a sostegno della sua attribuzione dell’“identità Shakesperiana” alla Bassano, vengono analizzati con serietà anche da quella parte della critica che è in genere poco disposta ad accettare proposte troppo innovatrici. Il sesso femminile della presunta autrice spiegherebbe dopo tutto la necessità che l’autore ebbe di scrivere sotto pseudonimo in quell’epoca lontana, quando era molto difficile trovare un editore per opere letterarie femminili. Quindi che fosse donna, è un’idea oggi accettabile. Sì, donna… Ma italiana?
    La discendenza italiana della Bassano è per molti un fattore difficile da mandare giù. Lo mostra tra l’altro il fatto che nelle presentazioni, analisi, commenti riguardanti la tesi di John Hudson, l’accento non è mai posto sul legame con l’Italia di Amelia Bassano, figlia di un emigrato veneziano. E dire che l’identità culturale è uno degli elementi base dell’operazione d’identificazione, compiuta da John Hudson, circa il vero creatore dell’universo shakesperiano, universo marcato da una forte “italianità”. “Italianità” non solo di personaggi e di storie ma anche di fonti letterarie. Ebbene, torno a ripetere: l’italianità della Bassano, presunta autrice dell’opera attribuita fin qui a Shakespeare, non sembra destare alcun interesse tra gli addetti ai lavori o anche tra il pubblico profano. Nelle presentazioni, analisi, commenti riguardanti l’audace tesi di John Hudson, l’accento non è quasi mai posto sul legame con l’Italia di Amelia Bassano, figlia di un emigrato veneziano. Vivissimo interesse suscita invece il fatto che la Bassano fosse un’“ebrea”, come la stragrande maggioranza dei commentatori, istantaneamente, l’acclama con compiacimento.
    Un’altra cosa anche sorprende – ed è questo il punto che intendo sollevare adesso, invitandovi a considerare tutto quanto precede come una sorta di lungo preambolo. Sorprende che non si citi, in questi commenti, il professore universitario Lamberto Tassinari di Montréal, autore di un documentato studio – “John Florio – The Man who was Shakespeare” (Giano Books, 2009) – anteriore a quello di John Hudson, e ricco di elementi che vanno nello stesso senso di molti degli argomenti fatti valere da Hudson nel suo saggio sulla Bassano. Tassinari nel suo libro aveva proposto, quale autore delle opere del cosiddetto “Shakespeare”, John Florio; anche lui, al pari della Bassano, di origini italiane.
    È giocoforza constatare che l’intensità delle reazioni con cui è stata accolta la tesi di Hudson contrasta con il disinteresse che ha circondato finora la tesi fatta valere da Tassinari. Come spiegare questa differenza di trattamento? Un inizio di spiegazione ce lo dà la maniera in cui, nella stragrande maggioranza dei commenti consacrati alla tesi di Hudson, si sorvola allegramente sul legame che intercorreva tra Amelia Bassano e l’Italia, il cui padre, lo ripeto, era nativo di Venezia. Si constata insomma nei commenti uno scarso interesse per l’aspetto italiano della ricca identità culturale della Bassano. Questa del resto è identificata in più occasioni semplicemente come Amelia Lanier, con il solo cognome del marito e con l’omissione di quello suo proprio: Bassano, forse con l’intento di rendere Amelia più accettabile al pubblico “normalizzandola” anche nel nome. La Bassano è inoltre costantemente definita “ebrea” e mai “italiana”.
    Queste constatazioni ci aiutano a capire il disagio che deve aver provocato il libro di Lamberto Tassinari, perché libro scritto su un italiano, da un italiano, in lingua italiana (la prima versione è stata in italiano: “Shakespeare? È il nome d’arte di John Florio” Giano Books, 2008). Speriamo che l’edizione inglese del suo libro venga accolta con maggior interesse, anche perché è ormai impossibile sottacere i forti apporti della cultura italiana all’opera cosiddetta shakesperiana.
    Mi si potrà a questo punto obiettare che l’attribuzione dell’opera shakesperiana ad Amelia Bassano, un personaggio con antenati ebraici, riesce a dare una spiegazione al fatto che le opere di Shakespeare siano ricche di conoscenze religiose, ebraiche incluse. Ebbene, anche John Florio, figlio del predicatore Michelangelo Florio, era un profondo conoscitore di testi sacri. E oltretutto non è per nulla escluso che anche i Florio discendessero da ebrei.
    Nel suo notevole libro, Lamberto Tassinari accenna solo a quest’ultimo particolare, senza dilungarvisi. Se vi avesse ricamato solo un po’ su, sono sicuro che avrebbe immediatamente suscitato l’interesse degli addetti ai lavori e di una larga fetta di pubblico.
    Per essere più chiaro ricapitolerò con parole un po’ diverse quanto già da me detto: il fatto che sull’italianità del padre di Amelia, Battista Bassano, si sorvoli quasi completamente, mentre si pone un entusiastico accento sull’ebraicità degli antenati della Bassano, ci aiuta anche a capire perché la tesi di Tassinari su John Florio, personaggio quest’ultimo troppo italiano per i gusti di esperti e profani, non abbia suscitato l’interesse che questa tesi meritava. È inutile commentare che solo certi tipi di nomi – vedi il nome “Ponzi” – sono capaci di far scattare nella mente di un pubblico un immediato legame con l’Italia e gli italiani.
    Noi siamo grati a Lamberto Tassinari di aver messo in ampia luce, con il suo “John Florio – The Man who was Shakespeare”, il profondo legame che l’universo shakesperiano ha con l’Italia. Legame che la sorprendente, affascinante tesi di John Hudson – al di la della diversità del volto ch’egli pone dietro l’enigmatica maschera shakesperiana – riafferma e consacra. In una futura edizione – ripetiamo l’invito a Tassinari – questi farebbe senz’altro bene bene a ricamare su un fattore quanto mai prezioso in campo accademico e commerciale: le possibili radici ebraiche dello stesso Florio.

  4. “ 10 dicembre 1988 – Gheddafi sostiene che Shakespeare era in realtà un tale Sceik Esbij. Digli bugiardo. “

  5. E’ ampiamente condivisibile l’approccio “equilibrato” alla figura comunque controversa del “padre della psicoanalisi” di cui vengono riportati “scivoloni” culturali decisamente inquietanti. Se tuttavia si passa dalla filologia al merito della teoria psicoanalitica freudiana penso che non si possa fare ameno di citare “Sognare a Libro Aperto ” di Lydia Marinelli e Andreas Meyer, testo in cui si affrontano le ambiguità de “L’interpretazione dei sogni”, manuale metodologico della psicoanalisi freudiana.

  6. La tendenza di una certa generazione di intellettuali è quella di denigrare le personalità incontestabilmente geniali tacciandole di patologie psichiche gravi. Invece di sviluppare spunti originali nelle interpretazioni della tradizione culturale, si affannano a confermare il risaputo come fosse la verità incontrovertibile (direbbe Severino) . In questo articolo, per quanto interessante, non ci si discosta dal pettegolezzo e ci si muove tra gli argomenti in ballo come il gallo nell’aia; se si sta attenti a quello che viene scritto si nota una tendenza che pervade tutto l’articolo, e cioè il tentativo prettamente gregario di rendere sospetto il genio con la “scusa” dell’ortodossia di pensiero. Non resta che continuare a screditare questo modo giornalistico di screditare la politica e l’intelletto! Con la pietistica pretesa dell’obbiettività, un mito degli intellettuali di ogni tempo, questi parvenu, dato che non è l’unico, confutano personalità mondialmente note cercando di brillare all’ombra, screditando la loro fama in modo patologico.

  7. Cose che fanno stare Freud piuttosto simpatico. Alla fine la critica sembra essere: “Freud non era un piddino politicamente corretto anticomplottista e dedito al culto di avanguardie letterarie da salotto”.
    Per fortuna…

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