di Claudia Terra

 

Nella primavera appena passata un testo singolare entra a far parte dei cataloghi italiani dopo una complessa vicenda editoriale e a più di quarant’anni dalla pubblicazione. Si tratta de “Le Origini” di Reiner Schürmann, un récit come dice il sottotitolo[1]. Un racconto autobiografico: il lettore familiare con l’opera di Schürmann vedrà confermate alcune tappe che la scandiscono, dall’esperienza nel kibbutz israeliano ai soggiorni nella Foresta Nera e in Francia, in America infine. Solo la scrittura poteva forse, guarire, elaborare questi eventi messi in moto dalla prepotente incombenza di un passato ricevuto, non vissuto direttamente: quello della Seconda guerra mondiale.

 

Reiner Schürmann è noto in particolar modo per la sua interpretazione di Heidegger, e d’altronde les origines rappresenta, tra i suoi scritti, l’unico racconto. Non intendo qui, tuttavia, occuparmi del dialogo tra Le origini e le altre opere dell’autore. Vorrei piuttosto immaginare un lettore che abbia su una colonna il testo di Schürmann, e sull’altra un récit – meglio, un romanzo in forma di récits – anch’esso scritto nella tonalità dell’autobiografia. Les origines viene pubblicato in Francia, a partire da un manoscritto francese, nel 1976[2]. In quegli anni l’autore ha già lasciato l’Europa “come si scappa dalla casa paterna: con uno sforzo ipocrita di ridere dei vecchi mobili”[3], alla volta dell’America, nella disperata fuga dalle proprie origini tedesche. Nell’altra colonna c’è il primo romanzo dell’esilio di Milan Kundera, scritto in ceco nella Francia del 1978. Quando Il libro del riso e dell’oblio[4] viene pubblicato, in francese, la Cecoslovacchia priva l’autore della nazionalità[5]. Non intendo sovrapporre i testi, ma riflettere su comuni nuclei essenziali, nella persuasione che questi possano illuminare, corrispondendosi vicendevolmente, la pagina divisa in due.

 

La Prefazione di Schürmann esplicita tutta la tragedia delle origini e il senso del libro, “un libro sul potere che una guerra passata detiene su un Tedesco cresciuto negli anni ’50 e ’60 del Novecento: nato troppo tardi per vedere quella guerra e troppo presto per dimenticarla”.  Nel libro si dipaneranno i vari tentativi di liberarsi di questa eredità e di ricerca di un posto nel mondo in cui non venga ricordata quell’origine tedesca. Un luogo che non ravvivi quei ricordi, reali e indovinati, penetrati negli intervalli di coscienza di un bambino nato in mezzo alla Seconda guerra mondiale. La vita stessa del narratore proietta un’ombra carica di dubbio circa la propria legittimità: pura follia essere stato “messo in cantiere quando la Germania ha invaso la Francia”[6]. Milan Kundera ha appena dieci anni quando, nel 1939, la Cecoslovacchia viene occupata dalla Germania nazista, qualche mese dopo gli accordi di Monaco. Ma è al potere del partito comunista che resiste Il libro del riso e dell’oblio: al colpo di stato e alla conseguente instaurazione del regime nel 1948, dopo le dimissioni di Edvard Beneš ancora una volta privo del sostegno dell’“Europa occidentale”[7]. È difficile, tuttavia, non legare questi fatti alle vicissitudini e alle spartizioni consecutive alla guerra passata. In un certo senso, allora, anche il libro di Kundera ha a che fare con la Seconda guerra mondiale. Entrambi i testi sono gravidi delle conseguenze di questa, al cuore della loro elaborazione vi è un problema, un’urgenza che pur declinandosi in contesti differenti viene dalla seconda guerra. Una questione che attraversa tutta l’Europa: la memoria.

 

Nelle loro singolarità irriducibili le due opere testimoniano di una relazione essenziale che gli individui istituiscono con l’atto del ricordare. Dice Mirek, uno dei personaggi di Kundera: “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”[8]. Così, la praghese Tamina (la figura intorno alla quale ruotano tutte le variazioni del romanzo) si sforza di ricordare il marito, che ha perso dopo la loro fuga a occidente per ragioni politiche. Come intervengono il potere e l’oblio? Tamina scopre dolorosamente la dimensione dell’oblio, lo sbiadirsi del passato e l’impotenza dei colori della memoria. Questo la porterà a coinvolgere diversi personaggi in un viaggio mai realizzatosi in Boemia, per recuperare quei diari e lettere che l’aiuterebbero nella sua lotta aperta contro l’oblio. Questa lotta diviene figura della lotta contro l’ingerenza nella propria vita. Tamina ha infatti nascosto i diari agli occhi e alle cure della polizia segreta comunista. Ciò che li rende irrecuperabili è ciò che permette di custodirne la memoria, di modo che questa non venga definita da un potere esterno. Tamina scoprirà, tuttavia, di poter ricordare non continuando, nel chiuso di un caffè, a innalzare un muro di date e fatti. Soltanto quando seguirà l’angelico Raphael, su una riva argillosa, potrà rivivere un frammento della vita con il marito che credeva dimenticato per sempre: “Chi vuol ricordare non deve starsene fermo e aspettare che i ricordi vengano da soli fino a lui! I ricordi si sono dispersi nel vasto mondo e bisogna viaggiare per ritrovarli e farli uscire dai loro nascondigli!”[9].

 

Il narratore delle Origini vive la medesima esperienza ma in maniera asimmetrica: gli occorrerà fermarsi. Spostiamoci già a Washington alla riunione dell’American Philosophy Association presso l’Hilton Hotel, ancora luogo di fuga dalle credenziali tedesche, da quell’aspetto “Almàn”. Lì, tra i requisiti per ottenere incarichi presso le università, una specializzazione in filosofia continentale. Ma di che continente si tratta, chiede il narratore. Gli viene chiarito che filosofia continentale vuol dire filosofia tedesca. Vuol dire Germania. Se non fosse che “ci serve un professore di filosofia tedesca. Ma non dev’essere tedesco”[10].

 

Queste origini bruciano e consumano perché chi le porta con sé non può semplicemente dimenticare. Lo specchio del mondo che continuamente le ripropone riflette la lotta interiore che il narratore stesso disperatamente conduce contro l’oblio. È una lotta più spietata del peso delle origini, contro il fiume dell’oblio: l’ossessione per le origini come via attraverso la quale non ci si sottomette all’oblio. “Ma non posso considerare quel passato come qualcosa di estraneo. Mi è negato quel distacco che lo renderebbe incomprensibile. Mi invade a folate di sbigottimento. Come se ci fosse un vuoto inammissibile nella mia esistenza. Come se fossi in ritardo nei confronti di me stesso”[11].

 

Anche questa è una lotta contro il potere: non può essere quel potere a dare la chiave di definizione. Nel salone dell’Hilton Hotel, allora, mentre “ogni rotazione della porta girevole fa uscire un filosofo ed entrare un cane”[12], deciderà di restare e affrontare le proprie origini. Al contrario, a Tamina che voleva ossessivamente ricordare serviva andare incontro al mondo. Al narratore delle Origini occorre fermarsi, almeno in un primo momento. Le erinni potranno infatti placarsi quando anch’egli andrà incontro a qualcosa: “oggi, me lo sento, risalirò a qualcosa di primitivo […] mi verrebbe da prendere un taxi, come per un appuntamento urgente”[13]. Qualcosa lo trascinerà verso un assembramento (sic!) dove in cerchio, una dozzina di elementi in uniforme nazista si è riunita per quello che sarebbe stato l’ottantacinquesimo compleanno di Hitler. Nel cerchio il suo leggio rosso. Solo quando il narratore lo distruggerà il libro si concluderà. Il potere non potrà più definire, incatenare le origini. Il narratore potrà vivere al di là di ogni collaborazione. “A forza d’essere escluso dalla vita, è nata in me una tenerezza nei confronti della dispersione. Io la accetto, io l’amo. Grazie a lei, so di essere al di là di ogni organizzazione, istituzione, associazione, al di là di ogni collaborazione”[14]. Il pensiero di Reiner Schürmann sarà proprio questo tentativo, messo in filosofia, di vivere al di là di ogni collaborazione. Vivere senza perché, lasciar essere.

 

Queste narrazioni che liberano si concludono entrambe nella tonalità dell’oblio. O forse nella tonalità di qualcosa che sta dall’altra parte del confine, oltre l’oblio. Tamina viene traghettata su un’isola popolata di bambini, “si trovava finalmente dove voleva essere: ripiombata molto indietro nel tempo, dove suo marito non c’era, dove non esisteva né nel ricordo né nel desiderio e dove non c’erano, dunque, né pesi né rimorsi”[15].  Sull’isola soltanto bambini, perché essi per eccellenza non hanno passato, il passato non può irritarli con il suo volto e dunque non sono preoccupati per l’avvenire. A Washington, nell’altra colonna, vedremo chiudersi la narrazione con queste parole: “vado a vedere la vita all’opera, andrò dove ci sono dei bambini. […] Mi bruciano gli occhi, non vedo nient’altro che le cose presenti”[16]. Entrambi si trovano ora oltre l’oblio: “Dici che un’ombra ti accompagna, proiettata da altri e non da te. I tuoi predecessori. Tu vuoi liberartene. Un giorno il passato non ti possiederà più. Vedrai le cose che ti stanno intorno tali e quali esse sono. Ne percepirai la presenza”[17].

 

Che cos’altro porta con sé questo epilogo? “Se chiedeste: C0s’è che desideri veramente? L’abolizione del linguaggio. Non più labbra in movimento. Non più questo prolungamento verbale del passato nel presente. La naturale conseguenza sarebbe la nudità. Niente più discorsi, niente più bisogno di vestirsi”[18]. Anche nell’isola di Tamina ritroviamo la nudità, e la nudità accompagnerà la sua esperienza di morte. La fine del linguaggio, del vestirsi, questa fine ha in sé qualcosa della morte stessa. Ecco perché entrambi gli epiloghi si trovano sì nel dominio dell’oblio, ma in qualcosa di ancora più lontano. Se prendiamo l’altro termine focale del romanzo di Kundera, il riso, possiamo forse capire meglio: “All’origine, il riso appartiene dunque al diavolo. Vi è in esso qualcosa di malvagio (le cose si rivelano di colpo diverse da come volevano far credere di essere), ma anche una parte di benefico sollievo (le cose sono più leggere di come apparivano, ci lasciano vivere più liberamente, smettono di opprimerci con la loro austera serietà)”[19]. Questi due aspetti del riso dicono qualcosa della relazione fra la memoria e l’oblio. Vi è qualcosa di malvagio anche nell’oblio: le cose si rivelano di colpo diverse da come volevano far credere di essere, e allora anche le cose più importanti smettono di occupare tutta la nostra energia, le dimentichiamo, non ne conserviamo più la presunta originalità, integrità. Così come l’oblio è benefico: le cose sono più leggere di come apparivano. Ma le esperienze dei protagonisti sembrano porsi al di là di questa relazione pacificatoria, ci mostrano la faccia radicale di questo processo, il suo lato senza compromessi. Per loro il tornare alla nudità, alla fine del passato, assomiglia alla morte stessa. Sono ormai al di là dell’oblio e del riso.

 

Queste opere, quella di Kundera nei termini più espliciti, testimoniano della pericolosità, dello strazio dell’oblio e del riso organizzati. Ma cosa può voler dire organizzare l’oblio? Il libro del riso e dell’oblio così esordisce: “Nel febbraio 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga […]. Clementis, premuroso, si tolse il berretto di pelliccia e lo mise sulla testa di Gottwald. […] Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e impiccato. La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. […] Di Clementis è rimasto unicamente il berretto sulla testa di Gottwald”[20]. Questa apertura narra della macchina repressiva del regime comunista, nella Cecoslovacchia del dopo guerra, ma dice forse qualcosa di una condizione che si è abbattuta in Europa, a partire dalla Seconda guerra mondiale. Queste righe ci permettono di vedere quella distinzione centrale tra il rapporto che i singoli istituiscono con la memoria e con l’oblio, e l’oblio organizzato di un gruppo al potere. In quest’ultimo caso, come in un incubo ritorna la figura della gioventù. “L’avvenire è dei giovani”, possiamo leggere, con distaccata ironia degli autori, su entrambe le colonne. I fanciulli sono l’avvenire “perché l’umanità è sempre più vicina al bambino” e noi “non dobbiamo mai permettere che l’avvenire ceda sotto il peso della memoria”[21]. Nella conclusione del libro del riso e dell’oblio uno dei personaggi sembra accorgersi con rinnovata lucidità della sanguinosa ombra portata dalla nudità quando la fanciullezza viene dislocata in un avvenire da raggiungere a tutti i costi. La nudità è la marca di coloro che stanno dall’altra parte di questo confine, questo limite da raggiungere. Jan se ne accorge mentre scende in una spiaggia dove tutti sono nudi. Questi corpi gli ricordano quel significato della nudità: “fu preso da una strana tristezza e da questa tristezza emergeva, come dalla nebbia, un’idea ancora più strana: era in massa e nudi che gli ebrei andavano nelle camere a gas. Forse che gli ebrei in quel momento erano anch’essi dall’altra parte del confine e dunque che la nudità è l’uniforme della gente che si trova dall’altra parte. Che la nudità è un sudario”[22].

 

Le due colonne nella stessa pagina testimoniano della lotta per uscire dal circolo dei sistemi totalitari europei, dal loro progetto di costruzione di un recintato e rovesciato giardino edenico. Mostrano anche la seducente tentazione di questo cerchio, ma soprattutto l’ostinata volontà di non farne parte, a costo della caduta libera fuori dalla sua forza centripeta. Ho provato a gettare un ponte tra queste testimonianze di un’epoca perché, forse, nelle loro corrispondenze, ma anche in ciò che le differenzia, possono comprendersi reciprocamente. Esiste un luogo nell’Europa dove risuonano queste domande spezzate? Da dove vengono, più radicalmente e più profondamente questi testi? Dove si incontrerebbero, idealmente? Dove, cioè, si origina l’amalgama di conseguenze più tragiche, il dispiegarsi e l’attuarsi di scelte assassine, che echeggia nelle nostre pagine? Forse né nella Germania di Schürmann, né nella Repubblica Ceca di Kundera ma in quel luogo al cuore dell’Europa, al suo centro, dove si sovrapposero e interagirono nella Seconda guerra il potere e le crudeltà dei due regimi di Hitler e Stalin: “Il Giardino dell’Eden di Hitler, il passato puro da ritrovare nel prossimo futuro, era la Terra Promessa di Stalin, un luogo dominato a caro prezzo…”[23]. È nelle terre di sangue[24] che avvennero le operazioni più feroci, lì dove si è fatta a pezzi l’Europa. Non leggiamo nelle due colonne l’esigenza di pensare ancora la tragedia della Seconda guerra, le sue conseguenze? Non emerge qualcosa che deve essere ulteriormente compreso? Quelle due colonne non ci suggeriscono, una volta giustapposte, che i fatti di cui parlano, se pensati insieme, possono dire qualcosa di più? Qualcosa che oltrepassa la mera somma delle parti. Se le terre di sangue di cui parla Timothy Snyder sono il luogo in cui “le uccisioni di massa separarono la storia ebraica da quella europea e la storia dell’Europa orientale da quella occidentale”[25], proprio la divisione che hanno infaustamente incarnato invita a ricucire queste storie. “La storia delle terre di sangue, continua Snyder, è stata conservata, spesso con intelligenza e coraggio, dividendo il passato europeo in comparti nazionali e poi evitando che questi si toccassero gli uni con gli altri”[26]. La singolarità di quanto accaduto ad un gruppo, invece, potrebbe essere compresa pienamente alla luce di quanto accaduto ad un altro. In questo senso, il saggio di Timothy Snyder “rimette insieme i regimi nazista e sovietico, la storia europea con quella ebraica e infine riunisce le storie nazionali”[27]. Si tratta di una prospettiva che mi sembra in accordo, o quanto meno in risonanza, con un’osservazione di Gershom Sholem a proposito dell’articolo Gli ebrei e l’Europa di Max Horkheimer. L’occasione di parlarne gli fu data da Walter Benjamin, curioso della sua opinione a proposito del testo. Fu l’ultima lettera che Sholem ricevette dall’amico, che incontrerà la morte pochi mesi dopo l’invio della risposta di Sholem, datata “febbraio 1940”. Ne riporto una parte, da poco disponibile in traduzione italiana: “[Horkeimer] Non dedica neppure un rigo al tema annunciato nel titolo: Gli ebrei e l’Europa (anzi si sforza di mostrare che esso non ha nulla a che vedere con l’Europa, perché il fascismo è in agguato ovunque), anche se sarebbe, a mio avviso, un problema reale: l’espulsione degli ebrei dall’Europa […]. Non si chiede, dal punto di vista degli ebrei: come saranno loro quando questo terreno gli sarà stato sottratto, dopo umiliazioni spaventose e strategie di sterminio […]. Ma nemmeno si chiede, dal punto di vista dell’Europa: quale aspetto avrà dopo l’espulsione degli ebrei? Eppure su questo tema ce ne sarebbero di domande da fare”[28].

 

La pagina comune delle due colonne è l’Europa, e le due storie a destra e sinistra del foglio rappresentano la lotta contro l’oblio. Se vedessimo così le cose non potremmo sottrarci dal compito presentatoci da quella stessa pagina, pensare ancora la tragedia europea della Seconda guerra. Questi testi reiterano i problemi del tempo alle loro spalle. Un tempo non troppo indietro per loro, ma anche in virtù di loro, neanche troppo indietro per noi. Anche noi nati troppo presto per dimenticare.

 

Note

 

[1] R. Schürmann, Le origini. Un racconto, tr. F. Scabbia, a cura di F. Guercio, Roma, Edizioni Efesto, 2020.

[2] R. Schürmann, Les origines. Récit, Paris, Fayard, 1976.

[3] Le origini, cit., p. 179.

[4] M. Kundera, Le Livre du rire et de l’oubli, tr. F. Kérel, Paris, Gallimard, 1979. Per la traduzione italiana: Id., Il libro del riso e dell’oblio, tr. dal ceco di A. Mura, Milano, Adelphi, 1991.

[5] Nel 2019 Kundera è ridivenuto cittadino della Repubblica Ceca.

[6] Le origini, p. 6.

[7] Cfr., per un’analisi recente, R. Krakovsky, L’Europe centrale et orientale. De 1918 à la chute du mur de Berlin, Paris, Armand Colin, 2017.

[8] Il libro del riso e dell’oblio, cit., p. 14.

[9] Ivi, pp. 202-203. Obbligato il confronto con Proust, “Ovunque si è messo un po’ di se stessi, tutto è fecondo, tutto è pericoloso, e nella pubblicità di un sapone si possono fare scoperte altrettanto preziose che nei

Pensieri di Pascal.”, M. Proust, Albertine scomparsa, in Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. G. Raboni, Milano, Mondadori, 2020, p. 1724.

[10] Ivi, p. 200.

[11] Ivi, p. 17.

[12] Ivi, p. 204.

[13] Ivi, p. 212.

[14] Ivi, p. 18.

[15] M. Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, cit., p. 212.

[16] R. Schürmann, Le origini, cit., p. 228.

[17] Ivi, p. 34.

[18] Ivi, p. 100.

[19] M. Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, cit., p. 212.

[20] Ivi, pp. 13-14

[21] Ivi, p. 225.

[22] Ivi, p. 271.

[23] T. Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2011, p. 191.

[24] “Le terre di sangue non erano territori politici, reali o immaginati: sono semplicemente il luogo in cui i più criminali regimi d’Europa operarono nel modo più feroce”, ivi, p. 22. L’autore ne precisa i contorni geografici: “in termini odierni, San Pietroburgo e la fascia occidentale della Federazione Russa, la maggior parte della Polonia, gli Stati Baltici, la Bielorussia e l’Ucraina”, p. 432.

[25] Ivi, p. 22.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, pp. 22-23.

[28] W. Benjamin, G. Sholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, ed. it. a cura di S. Campanini, Milano, Adelphi, 2020.

2 thoughts on “Una prospettiva europea per Schürmann e Kundera

  1. Se per fuggire da una memoria collettiva siamo costretti a “ricordare” cose che non abbiamo vissuto, insomma a formarci memorie surrettizie in base a sconvolgenti documenti storici per arrivare alla consapevolezza del “mai più”, ebbene siamo ancora preda delle dicerie quotidiane di gente che come noi non ha vissuto il dramma di una memoria sconvolgente che invade la coscienza. Infatti chi le ha vissute quelle vicende non si sente fuori dal pericolo che si ripetano, anzi. Mi sembra dunque che parlare di memoria nel senso attuale sia inconcludente e forse controproducente; piuttosto si ringrazi il cielo che queste persone rarissime siano sopravvissute per testimoniare un orrore della memoria, quello stesso orrore che portò Primo Levi a lasciarci i suoi preziosi ricordi, nella consapevolezza però che essi costarono molto allo scrittore, forse più della stessa detenzione nei campi di concentramento. A questo prezzo si riscatta una memoria collettiva creata surrettiziamente.

  2. Sono d’accordo con il tentativo di ricercare nella memoria ciò che ci è totalmente nuovo, ma la memoria si dipana sulla vita come una rete di significanti che hanno tutta l’aria di essere conosciuti, e quindi per “nuovo” si intende la prospettiva dalla quale si riprende il ricordo. Passiamo ora ad esaminare il concetto di oblio; esso è un naufragio della memoria all’interno dei ricordi vissuti, cosa che rende la vita indimenticabile… Senza l’oblio, come insegna Nietzsche, non c’è il senso della vita (sull’utilità e il danno della storia per la vita) ma senza la vita il ricordo anche di spegne se in esso c’è vita, perché la carica di entusiasmo che sorregge una vita di memorie prima o poi viene meno e si resta totalmente sguarniti di fronte alla morte. Eppure, prima o poi deve avvenire che si ingaggi una lotta per i ricordi, violenta, cocciuta, disperata e tremenda che porti su di sé tutto un carico di speranze! E quante cadute su questa via crucis… per lo spettacolo di quanti sono sulla via, impotenti a fare uscire una mosca che cozza su un vetro.

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