di Renato Nicassio

 

Iniziamo da una scena ipotetica. Un lettore comune – un proverbiale, quasi mitologico lettore comune – entra in una libreria ben fornita alla ricerca di un libro. Non ha in mente nessun titolo ma un paio di cose le sa già. Primo, non vuole leggere poesia (è pur sempre un lettore comune). Secondo, non vuole leggere classici. Vuole qualcosa di contemporaneo, qualcosa di cui non ha sentito parlare a scuola. Siccome è un lettore di ampie vedute, diciamo che vuole qualcosa di pubblicato negli ultimi vent’anni. Si dirige prima nel reparto di saggistica. Qui sfoglia libri di economia, politica, sociologia, comunicazione, neuroscienze, e chi più ne ha più ne metta. Dalla sua disordinata rassegna trae un’impressione semplice e immediata: negli ultimi vent’anni il mondo è cambiato e il responsabile di questo cambiamento è internet. Con in mente quest’idea si dirige nel reparto di narrativa. Qui sfoglia romanzi e persino qualche raccolta di racconti. Sfoglia un po’ di tutto – autori italiani, americani, inglesi, tedeschi, francesi, svedesi – e ne trae un’impressione opposta alla precedente: negli ultimi vent’anni il mondo non è cambiato granché. Internet e tutto quello che si è portato dietro non è poi così importante. Il lettore comune rimane perplesso e si domanda dove sia la verità.

 

La perplessità del nostro lettore comune non è solo sua. È stata espressa da critici, giornalisti, oltre che – naturalmente – dagli stessi lettori, comuni e non. La dicotomia in cui si imbatte è allora sì un po’ esagerata ma tutt’altro che inventata. Negli ultimi anni, quasi tutti i saggi, a prescindere dal tema affrontato, mettono internet in primo piano. Leggendoli si apprende che la rete e le tecnologie collegate hanno cambiato la nostra economia, la nostra società, il nostro lavoro, la nostra politica, il nostro amore, persino – sostiene qualcuno – il nostro cervello. Eppure, se si legge la narrativa degli ultimi anni, internet e le tecnologie collegate non sembrano così decisivi. Certo, ci sono libri che fanno del mondo digitale il loro tema principale ma si tratta spesso di testi riconducibili alla letteratura di genere che più che raccontare l’attualità ne immaginano sviluppi e distorsioni ulteriori (sono cioè testi di fantascienza, techno-thriller, distopie…). Oppure sono libri nati su e dal web, scritti da blogger, youtuber, influencer, che cercano di tradurre quel mondo direttamente su carta. In ogni caso, si tratta di libri che non hanno il lettore comune come pubblico di riferimento, tanto che nelle librerie vengono spesso disposti in scaffali ad hoc. Nella produzione narrativa che vuole invece interessare al lettore comune e vincere premi che lo attirino, le tecnologie digitali sono spesso assenti oppure, se presenti, alquanto passive: non sono centrali nelle vite dei personaggi, non sono determinanti ai fini della trama. Così può capitare, e capita, che un romanzo pubblicato nel 2000 e uno pubblicato nel 2020 presentino uno ‘sfondo tecnologico’ pressoché identico anche se tutti – se interrogati a riguardo – giureremmo che molto, nel frattempo, è cambiato. L’ambientazione di molta narrativa contemporanea è di fatto un presente generico in cui esistono certo la rete, i computer, i telefonini, eccetera, ma questi non vengono usati né tanto né come oggi. La rivoluzione digitale è avvenuta ma nella narrativa, a differenza della saggistica, finora non sembra aver lasciato grandi tracce. Come il nostro lettore comune verrebbe da chiedersi dove sia la verità.

 

Una prima risposta possibile è molto semplice. Il problema non esiste. Hanno tutti ragione. Forse il mondo in generale è davvero cambiato grazie o a causa di internet e delle tecnologie digitali e la saggistica, di conseguenza, registra e discute quel cambiamento. Ma forse le persone – le persone in particolare – non sono cambiate o comunque non tanto. Prese singolarmente, forse, le persone restano sempre dei cacciatori-raccoglitori alle prese con problemi da cacciatori-raccoglitori: inseguire un obiettivo, combattere per raggiungerlo, trovare un compagno con cui riprodursi, sopravvivere finché ce la si fa. E se è vero che la letteratura si occupa proprio delle persone in particolare (la letteratura, ha scritto una volta Philip Roth, è la grande particolareggiatrice), è allora normale che trascuri i cambiamenti collettivi per concentrarsi sui fondamentali individuali. Del resto, quel che ci interessa in un romanzo o in racconto sono le relazioni tra i personaggi, le loro azioni, le loro emozioni. Non certo gli strumenti che usano. Vogliamo sapere cosa fanno, cosa provano, perché. Tutto il resto è più o meno accessorio.

 

Possibile. È però difficile negare che gli strumenti che usiamo oggi non sono semplici accessori ma modificano notevolmente, se non le emozioni, di certo le relazioni e azioni che esperiamo. Cent’anni fa, per comunicare con un amico lontano potevano servire giorni. Oggi, pochi secondi. Vent’anni fa, era facile perdersi per le strade di una città sconosciuta. Oggi, è quasi impossibile. Che questo non cambi qualcosa – molto – nelle storie da raccontare è un po’ sospetto. Forse, c’è in ballo qualcos’altro.

Un’antipatia di fondo, per esempio. La letteratura si trova più a suo agio con gli oggetti desueti che con quelli moderni: medio-alta tecnologia e medio-alta letteratura non sono mai state grandi amiche. È, tra le altre cose, una questione di concorrenza: la letteratura si basa su una tecnologia antica, il libro, che si vede continuamente minacciata dalle altre più moderne. La macchina fotografica, la televisione, il computer, il cellulare, la rete, eccetera sarebbero allora dei nemici – dei nemici che sottraggono spazio e soprattutto pubblico – e in quanto tali vanno combattuti. Per farlo la letteratura ha due strategie principali.

 

La prima è raccontarli come strumenti negativi. È quasi un luogo comune: i personaggi che fanno uso di tecnologie moderne, nei libri, ne fanno spesso un abuso. Agli occhi dei lettori risultano dunque dei disadattati che vivono in modo artificiale, inautentico, non positivo. La morale che se ne ricava è così facile che viene persino insegnata a scuola: i libri fanno bene, tutto il resto fa male. Quando poi la tecnologia moderna diventa il tema della storia, il racconto negativo si intensifica e sale di livello. Quando per esempio il romanzo decide di raccontare il mondo di internet, la narrazione diventa una critica aperta, se non una denuncia, se non addirittura una distopia. I libri fanno bene, tutto il resto – se continua così – farà molto, molto male.

 

La seconda strategia, dal canto suo, è ancora più semplice e forse per questo, come notato dal lettore comune, più diffusa. Consiste nell’ignorare o minimizzare la tecnologia, i suoi effetti, i suoi cambiamenti, e raccontare delle storie che funzionano indifferentemente con o senza Google, con o senza social, con o senza smartphone. In questo modo, la letteratura preserva il proprio spazio e rivendica la propria utilità. Chi vuole sapere di persone chine su uno schermo che litigano con sconosciuti dall’altra parte del mondo e che comprano monete che non esistono ma che consumano più energia di una piccola nazione può aprire la finestra, vedere la tv, leggersi un saggio. Chi vuole altro, chi vuole sapere che c’è altro, basta che si goda la letteratura.

 

I processi alle intenzioni sono però sempre dubbi. Forse davvero a molti scrittori internet e tutto quello che si tira dietro non piace e allora o ne parlano male o più spesso non ne parlano affatto. Ma se l’impressione del nostro lettore comune è corretta, per spiegare una situazione tanto generale non ci si può basare su un’idiosincrasia. Del resto, se è vero che i lettori cercano sempre un qualche tipo di identificazione in ciò che leggono, sarebbe sciocco per uno scrittore rinunciare a dei collegamenti così vistosi con la loro realtà. Oltretutto, se si considera la forma della scrittura di molti romanzi contemporanei è facile trovarvi consonanze – se non influenze – con la forma della scrittura del mondo digitale: predilezione della paratassi, uso frequente della sintassi nominale, passione per il frammento incisivo, amore per l’anafora… Scrivere come su internet ma senza considerare internet non ha senso se internet lo si odia. Allora, accanto a una possibile volontà di non raccontare qualcosa, si potrebbe forse considerare una più concreta difficoltà di raccontarla. Forse scrivere di internet – o meglio: scrivere considerando internet e le tecnologie digitali – non è solo brutto ma è soprattutto complesso.

 

A grandi linee si possono individuare tre livelli di complessità: di età, di passo, di narrazione.

Una prima difficoltà, in effetti, è costituita semplicemente dall’anagrafe. Gli scrittori di quaranta, cinquanta, sessant’anni – e sono quelli più affermati e letti – possono trovare ostico scrivere di cose che conoscono poco, male o che addirittura non conoscono affatto. Non sono nativi digitali e ogni loro esplorazione del mondo digitale rischia di essere non solo complessa ma anche pericolosa: poco seducente per il loro coetaneo pubblico di riferimento e molto ridicola – liquidabile con un istantaneo ok, boomer – per i più giovani. Meglio dunque ridurre al minimo le incursioni e giocare con i fondamentali: amore (trovare o perdere), famiglia (distruggere o ricomporre), società (criticare o denunciare), morte (piangere o consolare). Ora, se così fosse, basterebbe aspettare dieci anni per vedere cambiare la situazione. Quando i ventenni di oggi, che non usano il cellulare per telefonare e il computer per scrivere, pubblicheranno i loro libri e le vecchie generazioni lasceranno la scena editoriale, le storie e i personaggi di romanzi e racconti rifletteranno meglio la nuova era digitale. E in effetti, a leggere testi di autori giovani oggi, qualcosa già si nota. I personaggi si googlano tra loro, vedono filmati su youtube, cercano consigli o lavoro online. Anche qui, però, c’è spesso qualcosa che non convince: rimane l’impressione di uno sfondo staccato e non integrato. Gli oggetti tecnologici, per esempio, non sono quasi mai usati al massimo delle loro reali possibilità: il cellulare, come sappiamo, è oggi macchina fotografica, videocamera, computer, GPS, lettore mp3, eccetera, ma nei libri fa sempre una o due cose soltanto e mai contemporaneamente. Le, per così dire, ‘azioni digitali’ dei personaggi sono poi spesso generiche, non hanno specificazioni concrete: si chatta ma non si dice dove, si cercano informazioni o si comprano oggetti online ma non si dice come o con cosa. Soprattutto, poi, la storia vera sembra sempre procedere altrove (anche nel passato, con l’uso di flashback) dispiegandosi e risolvendosi indipendentemente dalla tecnologia dei suoi protagonisti. Forse l’età, da sola, non rende automaticamente facile l’impresa.

 

Un secondo livello di complessità che può aiutare a spiegare la questione è la velocità che internet e le tecnologie digitali proiettano all’esterno. Tenere il passo è difficile e potenzialmente frustrante: si rischia di scrivere di cose che, al momento della pubblicazione, sono già scomparse e dimenticate. Non è un problema da poco. Il tempo necessario affinché qualcosa sia rimpiazzata da qualcos’altro si è accorciato parecchio negli ultimi anni. Questo può impedire a una tecnologia (o a una modalità di utilizzo di una tecnologia) di sedimentarsi abbastanza da essere riconoscibile nel futuro prossimo venturo. Il risultato è che oggi un romanzo dei primi anni Duemila in cui i personaggi si scambiano cd per masterizzarli rischia di apparire più alieno di un romanzo epistolare dell’Ottocento. Il tutto diventa ancora più accentuato se si sbarca nell’immaterialità del web. È facile parlare del presente, in generale, come l’età dei social network ma un romanzo in cui il protagonista usa Facebook, per un lettore diciottenne è già un romanzo vecchio, un romanzo che non parla dell’attuale. Basta vedere cosa succede quando, a scuola, si fa leggere qualche pagina de Il cerchio di Eggers: gli insegnanti si aspettano che gli studenti si riconoscano; gli studenti non capiscono in cosa dovrebbero riconoscersi.

 

Di fronte a ciò, non si può allora biasimare la prudenza con cui gli scrittori inseriscono il mondo digitale nel loro universo narrativo. Qualcosa che cambia in fretta non è mai un oggetto semplice da raccontare e può persino venire il dubbio che sia inutile farlo. In fondo, ciò che non dura non è importante. Meglio allora mantenersi sul vago, senza esagerare. Inseriamo i computer ma non soffermiamoci troppo su quello che ci si fa. Mettiamo gli smartphone nelle tasche dei personaggi ma non facciamoglieli usare troppo. Lasciamoli chattare, praticare e-shopping, flirtare con sconosciuti ma non diciamo bene dove e come lo fanno. Magari nell’immediato si perde di concretezza e di verosimiglianza ma forse si guadagna la sopravvivenza sul più lungo periodo.

 

L’ultimo livello di difficoltà è il più interessante perché più generale: forse, internet e le tecnologie collegate sono difficili da raccontare perché, di principio, ostacolano la costruzione di una storia. Per capire meglio la questione poniamoci due domande molto complesse e diamoci due risposte molto semplici.

Che cos’è una storia? Una storia è una successione di eventi disposti secondo un qualche significato.

Che cos’è una tecnologia? Una tecnologia è uno strumento che interviene sulla realtà per controllarla (e modificarla, e migliorarla).

 

Ne consegue che inserire una tecnologia in una storia significa controllare meglio la successione dei suoi eventi, esercitare su di loro un potere maggiore. Nella vita di tutti i giorni succede di continuo: l’automobile, il televisore, il telefono, la penna… qualsiasi tecnologia che usiamo ci consente di tenere un po’ sotto controllo la realtà, di ridurre un po’ la sua componente di mistero e casualità. E nella vita di tutti i giorni è certo un vantaggio. Ma in una storia da raccontare il controllo della realtà, la riduzione di mistero e casualità, sono più un intralcio che una risorsa. Un esempio concreto. Scherzetto, breve romanzo di Domenico Starnone del 2016, racconta della convivenza forzata tra un nonno settantenne e un nipote quattrenne. A un certo punto, il nipote chiude il nonno fuori al balcone. La porta è difettosa e non si può aprire né dall’interno né dall’esterno. È il culmine della tensione narrativa. Entrambi i personaggi sono in pericolo. Sul balcone piove, è notte, fa freddo: una brutta situazione per un anziano. In casa, un bambino piccolo lasciato solo può fare di tutto: mangiare o bere cose che non dovrebbe, cadere, tagliarsi. Che fare? La risposta più semplice, quella che a tutti oggi verrebbe in mente sarebbe: telefonare per chiedere aiuto. Ma non si può. Il nonno ha lasciato il cellulare all’interno, è troppo vecchio per portarlo sempre con sé. Il bambino è troppo piccolo per saperlo usare. La risposta più semplice non è allora possibile. Bisognerà inventarsi altro e noi potremo assistervi. L’assenza della tecnologia telefono trasforma una banale rogna domestica in una tesa situazione narrativa.

 

Non è una faccenda nuova. Già il treno – e poi l’auto e poi l’aereo – avevano sferrato brutti colpi alla narrativa d’avventura. Ma internet e le tecnologie collegate risultano, da questo punto di vista, assai più ingombranti. Consentono di fare molte cose, di conoscere molte cose, e senza un vero vincolo territoriale: sono ovunque e le si possono portare sempre con sé. Il controllo potenziale esercitato sul corso degli eventi si fa maggiore e le occasioni narrative, di conseguenze, si restringono. Lo smartphone, in tal senso, è il nemico per eccellenza. Chi ha uno smartphone e lo sa usare è un personaggio assai difficile da inserire in una storia perché è assai difficile da mettere in difficoltà: non lo si può far perdere in una città sconosciuta (ha il GPS), non lo si può tenere all’oscuro di qualcosa (ha i social, ha le chat, ha Wikipedia), non si può impedire che abbia le prove di ciò che vede (ha una videocamera), non si può renderlo sprovvisto di un documento o di un oggetto molto a lungo (ha un cloud, ha Amazon). Ben si capisce che una storia popolata da personaggi così rischia di essere una storia poco emozionante e molto breve: attese, equivoci, inconvenienti, curiosità, sono ridotti al limite e con loro la narratività degli eventi. Romeo e Giulietta, oggi, non si ucciderebbero per errore: si scambierebbero i dettagli del piano via messaggio vocale. Hercule Poirot, oggi, non dovrebbe aspettare tre giorni il telegramma a conferma di un sospetto: la polizia gli manderebbe una mail in giornata. Oggi, insomma, sapere qualcosa è più facile che non saperla. E se questo è un bene per la realtà, è un male per la narrativa. L’ignoranza, si legge nell’Encyclopédie, è una sorta di via di mezzo tra la verità e l’errore, e quel tragitto – verso la verità o verso l’errore –  è spesso l’oggetto della narrazione di romanzi e racconti. Se sparisce o si accorcia è un problema.

 

C’è poi un’ulteriore difficoltà che le tecnologie digitali, smartphone in testa, pongono alla narrativa: la loro componente visuale. Internet, ai primordi, era un mezzo principalmente verbale: lo si fruiva leggendo e scrivendo. Oggi, lo si fruisce sempre più vedendo e ascoltando. Show, don’t tell: così recita un vecchio consiglio per gli scrittori. Non raccontate quello che accade ma mostratelo. Ora questo consiglio è sbarcato nella vita reale. Non si racconta più una cena agli amici. La si mostra con le foto dei piatti consumati. Non si racconta più un concerto ai propri genitori. Si mostra il video delle canzoni migliori. Tradurre tutto questo su pagina è complesso e persino antipatico. Scrivere di personaggi che mostrano invece di raccontare o che raccontano mostrando, significa usare diversamente le parole, far parlare di meno i personaggi, e se i personaggi parlano meno tra loro, di cosa – e come – si scrive?

 

Beninteso, tutte queste difficoltà sono condivise anche dalla saggistica. Quanti saggi degli ultimi anni sono ‘invecchiati male’ a causa della velocità della rivoluzione digitale? Tantissimi. E tuttavia la saggistica sembra riuscire a gestirle meglio. A prescindere dall’anagrafe, chi scrive un saggio deve padroneggiare il tema e conoscere i cambiamenti recenti avvenuti nel campo. Anzi, spesso e volentieri, si scrive un saggio proprio per analizzare i cambiamenti recenti avvenuti nel campo che si studia. La velocità di questi cambiamenti, come detto, è un problema anche per la saggistica ma i saggi più che tenere il passo cercano di misurarlo e hanno dunque meno remore nell’esaminare e nominare il contemporaneo. Soprattutto, però, il vantaggio decisivo della saggistica è legato alla sua minore componente narrativa. Certo, molti saggi raccontano delle storie ma non devono, tecnicamente, costruire una storia. L’impatto di internet e delle tecnologie digitali sulla vita dei personaggi non è dunque un ostacolo che deve essere superato, aggirato, o ignorato – anzi, può costituire esso stesso il fulcro dell’interesse.

 

La finestra che si apre sul mondo è una vecchia metafora della letteratura. Le storie che si scrivono raccontano ciò che si vede da quella finestra o cosa succede quando si tenta di aprirla. Ma ora le finestre sul mondo sono ovunque, persino in tasca, e si aprono con immensa facilità. La saggistica indaga la loro proliferazione e come quest’ultima cambia i vari settori dell’attività umana. La narrativa, davanti a tutta questa vista, si trova spesso in imbarazzo e preferisce distogliere lo sguardo e fissarlo su altro: un presente a bassa intensità tecnologica o un passato privo di tutta questa tecnologia. Se questo sia un male o un bene, è questione tuttora aperta. A deciderlo sarà, come sempre, il nostro lettore comune alla cassa della libreria. O, naturalmente, sul carrello di Amazon.

4 thoughts on “New media, old stories: la narrativa contemporanea alla prese con la rivoluzione digitale

  1. Un bell’intervento, su un tema nodale. La poesia è di per sé rapidissima, isocrona, autopittorica; la narrativa, invece, virtualizzando la realtà, è molto a disagio con la realizzazione della virtualità, con un mondo vastissimamente complanare e indiscreto. Di qui, credo, la voga dei romanzi storici e dei memoir, autentici “beni rifugio” della nostra epoca.

  2. «Siccome è un lettore di ampie vedute, diciamo che vuole qualcosa di pubblicato negli ultimi vent’anni.».
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    «negli ultimi vent’anni il mondo è cambiato e il responsabile di questo cambiamento è internet».
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    Caro lettore normale,
    sei sicuro di essere «di ampie vedute»? Potresti chiedere a quanti ti suggeriscono con troppa insistenza che ««negli ultimi vent’anni il mondo è cambiato» in cosa – in generale e nei dettagli, quantitativamente e qualitativamente, nell’apparenza e nella sostanza – sia cambiato; e se internet sia la vera o l’unica causa del «cambiamento» di cui tanto (sui mass media) si parla?
    Un caro saluto
    Samizdat

  3. @Paolo Febbraro: grazie per il commento.

    @Samizdat
    Credo che il lettore normale, da definizione, non sia mai davvero davvero di “ampie vedute”. Anzi, a dirla tutta, credo anche che ogni lettore normale – oggi – abbia una “veduta” sulla letteratura un po’ più stretta. E questo è proprio uno dei cambiamenti provocati da internet (che dà ai lettori tante altre cose da fare così da dargli meno tempo per leggere).

    In ogni caso, la domanda posta – se ho compreso bene – è: siamo davvero sicuri che il mondo sia cambiato con e per internet?
    Due risposte mi vengono in mente.

    Uno: non è importante stabilirlo. E’ importante (o almeno era importante nell’articolo) registrare che una grossa parte del discorso pubblico lo sostiene e lo scrive mentre un’altra parte del discorso pubblico (la narrativa) lo fa molto meno.

    Due: per quanto ogni cambiamento e ogni rivoluzione non vengano mai dal nulla e si possano sempre trovare antecedenti che smorzino la loro supposta novità, a me pare davvero difficile non vedere come la nostra vita sia cambiata parecchio con e per internet. Non voglio cadere nei soliti luoghi comuni ma faccio una rapida ricognizione di vari campi. Economia: oggi esistono aziende che vent’anni fa non esistevano e non potevano esistere e che oggi hanno un peso notevolissimo in borsa e non. Scienza: il machine learning è ormai una realtà consolidata ma che anni fa pareva fantascienza o quasi. Politica: in Italia il partito di maggioranza in parlamento è nato su un blog, negli USA dei meme hanno letteralmente attaccato il campidoglio. Si potrebbe continuare e sì, come detto, per ognuno di queste cose credo qualcuno potrebbe dire che no, non sono davvero delle novità. Però anche così torneremmo al punto primo. Così sono percepite e raccontate da molti.

  4. @ renato nicassio
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    1. « Credo che il lettore normale, da definizione, non sia mai davvero davvero di “ampie vedute”».
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    E allora perché designarlo così: «Siccome è un lettore di ampie vedute»?
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    2. «Uno: non è importante stabilirlo. E’ importante (o almeno era importante nell’articolo) registrare che una grossa parte del discorso pubblico lo sostiene e lo scrive mentre un’altra parte del discorso pubblico (la narrativa) lo fa molto meno.[…] Due: per quanto ogni cambiamento e ogni rivoluzione non vengano mai dal nulla e si possano sempre trovare antecedenti che smorzino la loro supposta novità, a me pare davvero difficile non vedere come la nostra vita sia cambiata parecchio con e per internet.».
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    Forse andrebbe approfondita la questione: valgono più le dicerie o la/le verità, la registrazione dei fatti o la loro interpretazione mirata a qualche scopo degno. Ma capisco che oggi affrontarla pare a molti una pretesa antiquata. Non importa, continuo a preferire il Brecht fuori moda: https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/11/ennio-abate-sulle-cinque-difficolta-per.html

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