di Antonella Anedda
[È uscita da poco, nella serie «i domani di ieri» della collana «i domani», diretta per Aragno da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno, la riedizione di un libro pubblicato da Antonella Anedda, presso Empirìa, nel 1998 (e già ripubblicato una volta, dal benemerito editore romano, nel 2005): Nomi distanti.
In apparenza siamo di fronte a un format ormai consolidato, nella tradizione del moderno, come il «quaderno di traduzioni»; ma il gioco di Anedda è più sottile. Mentre nelle successive sono raccolte versioni dell’autrice dalle prose della Semaison di Philippe Jaccottet, e cinque suoi Notturni l’anno seguente solo in parte confluiti in Notti di pace occidentale, nelle prime tre sezioni della silloge ogni volta i testi figurano in tre diverse versioni: l’originale, una traduzione altrui (come, nel caso in oggetto, di Valeria Rossella e del compianto Pietro Marchesani) e infine – ma presentata all’inizio – una «variazione» d’autrice: a volte assai ravvicinata al testo di partenza; altre volte a questo legata, in apparenza, solo dal titolo e dalla collocazione nell’insieme del volume. Ne sortiscono effetti di eco e rifrazione, talvolta di retroazione interpretativa, sempre sorprendenti.
Per la cortesia di autrice ed editore offriamo qui la breve introduzione di Anedda, fra le sue prose più memorabili; tre poesie di e da Zbigniew Herbert, e la postfazione di Andrea Cortellessa.]
Antonella Anedda
Introduzione
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l’orizzonte verde-mirto degli scogli, lo spento italiano di voci tradotte da altre voci. Notte. Campane. Un canto soffocato di cuoio: ombre che strisciano i piedi nella danza più triste dell’isola
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Non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? Non troppo libere, anzi legate alla promessa di una risposta. Risposte da lontano: al lontano testo originale, alla lingua della traduzione. Un sogno di esattezza nella precarietà. Come accade in mare quando ci si chiama da barche diverse, di notte, con lanterne nell’acqua buia, con volti e corpi nel buio. Chi risponde deve tener conto dell’aria e del fragore, del freddo, del tremore dell’onda, del tremore del fiato: per capire il richiamo, per remare verso l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile.
Ho voluto rispondere a nomi distanti, a nomi stranieri, parlare con la mia voce, vicino e dopo la traduzione. Ho risposto, non dall’alto, non dal basso, ma nell’orizzonte di una traiettoria accesa dallo scatto di un grido: il testo prima in originale, poi raccolto dalla traduzione e dalla traduzione reso tanto forte, tanto ampio da schiudere un altro respiro, un altro destino: una terza voce in un terzo spazio.
Ho risposto per ardore e per nostalgia, per compiere un passo oltre la consegna della traduzione, per il desiderio di abitare il margine bianco di un messaggio decifrato. Un tragitto di suoni, un tragitto di ragioni. Un pellegrinaggio che come ogni pellegrinaggio conosce solo il sogno della meta: il retablo di Santiago che scintilla su ogni pietra dei Pirenei, la partenza decisa da un bagliore, da un richiamo che diventa precarietà della sosta, incertezza dell’arrivo.
Il pellegrino non viaggia per scoprire, ma per esistere, viaggia per vedere il proprio viaggio riflesso nel corpo e nel pensiero che sosta e cammina. Così è accaduto per queste poesie. Per caso la luce, il suono di un verso e da lì l’inizio di un cammino, la memoria di quel verso come la conchiglia che il pellegrino medioevale teneva cucita al mantello per dire: vado a Santiago, e nella curva della madreperla c’è il perdersi e l’arrivare, il profilo delle guglie, il vapore che le inghiotte. Dal verso-conchiglia, accostando l’orecchio ho sentito il mare, l’ampiezza dell’acqua, nel verso-conchiglia, oltre la perla, poteva forse vivere, crescere ancora qualcosa.
Ciascuna di queste liriche è stata decifrata, tradotta, portata fino alla lettura. Meravigliosamente resa. Ma ecco che da questa resa, dalle grate, dalle valve della parola sfuggiva ancora qualcosa, un seme ulteriore era maturato per confermare la vita del testo. Qualcosa si spalancava lasciando entrare il vento, lasciando che il vento spingesse il seme in avanti. A questo bisognava rispondere, direttamente, amaramente (perché separati, perché distanti), rispondere con se stessi, accettando di attraversare un paese davvero straniero, dove non si sarà protetti se non da un guscio di conchiglia, dove la lingua sarà conoscenza, errore, di nuovo silenzio.
C’è nella Conversione di Matteo di Caravaggio una traiettoria di luce creata non dal fulgore ma dalle parole di Cristo, dalla sua richiesta. A quelle parole, a quel richiamo Matteo risponde, ma lentamente. Lentamente nel quadro, nella vita, in ciò che di volta in volta scriviamo, si delinea un orizzonte spezzato di lentezza e luce. Matteo risponde per ardore; faticosamente, ciecamente ha toccato una sponda diversa. Cristo è il suo paese straniero. Benché Matteo conosca la sua lingua, benché da tempo abbia sentito le sue parole e sia in grado di tradurle, solo là, in quella stanza di gabelliere, in quello spazio ristretto riesce a capire il loro suono ulteriore, il loro senso fatto di vicinanza e estraneità, di prossimità e distanza. «Si alza e lo segue». Va in avanti, verso se stesso, risponde. Dopo il tempo della traduzione trova lo spazio bianco.
In memoria di L.A.A.
(da Zbigniew Herbert)
E ora stringe alle tempie nuvole brune di radici
nel viaggio rovesciato senza cielo.
Solo acqua pesante è la sua morte perché da tanto è morta
terra su terra fino al cuneo di zinco. Eppure
non più il buio del tempo la confonde, ma il nero
fulgore della pioggia, più forte
della nascita breve, dello stanco tepore
dei suoi anni. Vita che per morte soltanto
noi non chiamiamo vita tesse ora per lei
ciò che per cecità fu per noi un abbandono.
Tren
Zbigniew Herbert
Pamięci Matki
A teraz ma nad głową brązowe chmury korzeni
wysmukłą lilię soli na skroniach paciorki piasku
i płynie na dnie łodzi przez spienione mgławice
o milę dalej od nas tam gdzie rzeka zakręca
widoczna – niewidoczna jak światło na fali
naprawdę nie jest inna – opuszczona jak wszyscy
Elegia
Zbigniew Herbert
Alla memoria di mia madre
E ora ha sul capo nuvole bronzee delle radici
un esile giglio di sale sulle tempie chicchi di sabbia
e naviga sul fondo della barca attraverso nebulose schiumanti
un miglio lontano da noi là dove il fiume svolta
appare – scompare come una luce sull’onda
davvero non è diversa – come tutti abbandonata
traduzione di Pietro Marchesani
Milano, Adelphi, 1993
*
(da Zbigniew Herbert)
È vero, l’allarme si leva dalle stelle
l’argento non ha luce sul barbaro grido del terrore.
L’imperatore ha spento il lume
ha chiuso il libro. In basso la terra
scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia
freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli
alti nel vento come aeree gabbie, non sente
il bronzo del trono sulla nuca, né il rintocco dei chiodi sulle porte.
Dormirà per sempre
perciò sospendi tu la quiete, prova
a rovesciare il dorso della mano, a raggiungermi
nel nome di una lingua sconosciuta
perché parlo da un’isola
il cui latino ha tristezza di scimmia. Un mare
una pianura, nuvole di tempesta spinte sui fiumi, uccelli
nel cui becco gli steli annunciano alfabeti. Forse solo così,
Zbigniew, può viaggiare il cesto dei fogli sulle acque
così credo giunga la voce
la stretta del volto nell’orrore
fino a un’orma fenicia, a un basso scudo
privo come il tuo di luce.
Do Marka Aurelego
Zbigniew Herbert
Prof. Henrykowi Elzenbergowi
Dobranoc Marku lampę zgaś
i zamknij książkę Już nad głową
wznosi się srebrne larum gwiazd
to niebo mówi obcą mową
to barbarzyński okrzyk trwogi
którego nie zna twa łacina
to lęk odwieczny ciemny lęk
o kruchy ludzki ląd zaczyna
bić I zwycięży Słyszysz szum
to przypływ Zburzy twe litery
żywiołów niewstrzymany nurt
aż runą świata ściany cztery
cóż nam – na wietrze drżeć
i znów w popioły chuchać mącić eter
gryźć palce szukać próżnych słów
i wlec za sobą cień poległych
więc lepiej Marku spokój zdejm
i ponad ciemność podaj rękę
niech drży gdy bije w zmysłów pięć
jak w wątłą lirę ślepy wszechświat
zdradzi nas wszechświat astronomia
rachunek gwiazd i mądrość traw
i twoja wielkość zbyt ogromna
i mój bezradny Marku płacz.
A Marco Aurelio
Zbigniew Herbert
Per il prof. Henryk Elzenberg
Buonanotte Marco spegni il lume
e chiudi il libro Già alto si leva
l’argenteo allarme delle stelle
il cielo parla una lingua straniera
è il barbarico urlo del terrore
che il tuo latino non conosce
l’eterna paura la paura oscura
che già si frange sui fragili lidi
umani E vincerà Senti il muggito
la grande onda sale Distruggerà i tuoi libri
l’urto irrefrenabile degli elementi
le quattro pareti del mondo crolleranno
che ci resta – tremare al vento e ancora
soffiare nella cenere intorbidare l’etere
morderci le dita cercare vane parole
e trascinarci dietro le ombre dei caduti
allora è meglio Marco infrangi la tua pace
dammi la mano oltre questo buio
che tremi il cieco universo quando tocca
i cinque sensi come fragile lira
ci tradiranno universo e astronomia
calcolo delle stelle saggezza delle erbe
e la tua somma smisurata grandezza
e lo sterile o Marco mio pianto
traduzione di Valeria Rossella
*
(da Zbigniew Herbert)
Non voglio essere fiamma morta
dura fiamma piegata dentro il vento
immutabile di Dio né specchio
al fuoco che a stento alla vita mi stringeva
fammi essere pietra subito o fessura nel tronco dei tuoi anni
traversarmi in silenzio fino allo scricchiolio di un passo
alla mano sospesa sopra il collo, a ciò che freddamente
rivela il desiderio nella luce.
Aspetta fuori di me la morte
chiamala altrove con un grido di caccia.
Lasciami nelle cose misere del tempo
nella sfera più bassa di un destino
in un vetro di acqua e di materia, forte di solitudine
a solitudine schiuso.
Żeby tylko nie anioł
Zbigniew Herbert
Jeśli po śmierci zechcą nas przemienić w zeschły płomyk, który chodzi po ścieżkach wiatrów – należy zbuntować się. Na nic wiekuisty wypoczynek na łonie powietrza, w cieniu żółtej glorii, wśród mamrotania dwuwymiarowych chórów.
Trzeba wstąpić w kamień, w drzewo, w wodę, w szpary furty. Lepiej być skrzypieniem w podłodze, niż przeraźliwie przezroczysta doskonałością.
Purché non un angelo
Zbigniew Herbert
Se dopo che saremo morti vorranno trasformarci in una fiammella avvizzita che cammina lungo i sentieri del vento – occorre ribellarsi. Che farsene d’un eterno riposo nel grembo dell’aria, all’ombra di una aureola gialla, tra il borbottio di cori bidimensionali?
Bisogna entrare in una pietra, in un albero, nell’acqua, nelle fessure di un cancello. Meglio essere lo scricchiolio di un pavimento che una perfezione spaventosamente diafana.
traduzione di Pietro Marchesani
Milano, Adelphi, 1993
*
Andrea Cortellessa
Tradurre la distanza
Supremo artefice visivo, Stanley Kubrick era ossessionato dai suoni: dalle oblique illuminazioni che potevano gettare sulle immagini. E forse non c’è suo film più “lavorato”, acusticamente, di Shining. L’uso che vi viene fatto della musica di György Ligeti è quanto mai frammentario (persino tendenzioso, forse, nel ricondurla alla sua matrice “etnica”, prima che timbrica: il Bartók della Musica per archi, percussioni e celesta) ma il brano scelto da Kubrick, Lontano, ha un titolo per noi irresistibile: non tanto perché in italiano (a lungo lingua franca della musica) ma in quanto evoca una dimensione spaziale, e insieme temporale, che ogni spettatore già aveva associato alle Atmosphères di 2001: Odissea nello spazio.
La situazione appunto spaziale di Shining, in apparenza, è semplice: tagliata in due – è il caso di dire – con l’accetta. All’esterno infuria un Inverno metafisico, assoluto, trascendentale: esporsi alla cui Lontananza (come farà Jack Torrance inseguendo moglie e figlio, ascia in pugno, così restando assiderato) significa morire. Si ascolta la musica di Ligeti, infatti, quando la povera Wendy, già spaventata dal comportamento di suo marito, scopre che le linee telefoniche – unico contatto col resto del mondo dell’Overlook Hotel isolato – sono interrotte dalla tempesta di neve all’esterno. All’interno, di contro, il Riparo: la luce calda dell’intérieur e della Prossimità, il tepore affettuoso del Famigliare. Ha dichiarato infatti Ligeti che il movimento del suono, in Lontano, è quello dell’aprirsi e chiudersi di «una finestra nel mondo sognato, e a lungo perduto, dell’infanzia»: la Lontananza nel Tempo, cioè, per miracolo annullata dalla Prossimità nello Spazio.
Eppure Shining ci mostra quanto sia ingannevole, e infatti perfettamente reversibile, questa dicotomia che affonda le radici nell’immaginario più remoto, in termini antropologici, della nostra specie. È proprio addentrandosi nelle viscere più riposte della casa-psiche (l’Anima, in termini junghiani), infatti, che Jack fa esperienza della Cattiva Infinità di un tempo ripiegato, ciclico (lo stesso che, in termini invece nietzscheani, poteva apparire salvifico, o comunque destinale, all’altezza di 2001): così ricondotto a un Passato come Enigma, a una misteriosa Strage originaria che non può far altro che (tentare di) replicare. Infatti Lontano lo si riascolta quando il figlio di Jack e Wendy, Danny – unico provvisto di Luccicanza, la chiaroveggenza del titolo –, ha la visione delle perturbanti gemelle Grady: prime vittime dell’Eccidio arcaico, e Ritornante monito del suo minacciato Ripetersi. Con dialettica stavolta perfettamente freudiana, è nell’Heimlich che si manifesta l’Unheimlich: è nell’apparente rifugio della Prossimità che appare, in tutta la sua aliena incomprensibilità, il Lontano. Solo Allontanandosene, fuggendo nella neve e nel ghiaccio come alla fine faranno Wendy e Danny, se ne potrà trovare scampo (forse).
A questa dialettica mi fa pensare l’immagine scelta da Antonella Anedda quando per la prima volta – nel 1998, presso Empirìa – pubblicò questo libro a sua volta enigmatico: che non a caso resta infatti, tuttora (a dispetto di una seconda edizione già sottilmente variata e pubblicata, dallo stesso benemerito editore romano, nel 2005: rispetto alla quale di nuovo l’autrice, in questa occasione, ha operato significativi micro-, e meno micro-, ritocchi), il suo Libro Segreto; forse la sua favola d’identità più obliqua, e dunque sottilmente rivelatoria. «Come accade in mare», scriveva dunque Anedda nel bellissimo testo anepigrafo che apre Nomi distanti, «quando ci si chiama da barche diverse, di notte, con lanterne nell’acqua buia, con volti e corpi nel buio. Chi risponde deve tener conto dell’aria e del fragore, del freddo, del tremore dell’onda, del tremore del fiato: per capire il richiamo, per remare verso l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile».
Sono sigle archetipiche, da trascrivere con ideali maiuscole, quelle del Buio, del Freddo, del Tremore. Su tutte, quella che nel titolo del libro le cuce fra loro: la Distanza. L’anno dopo, 1999, un titolo ben consonante con questo di Anedda venne dato a un libro da indicare fra i più belli, forse in assoluto il più suggestivo fra gli innumerevoli, in tempi recenti, dedicati alla traduzione: La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, di Antoine Berman (il saggio che intitola il libro era uscito nell’84; l’autore morì precocemente sette anni dopo). Un titolo a sua volta enigmatico, che si scioglie (nella nota all’edizione italiana, curata da Gino Giometti per Quodlibet nel 2003) col riferimento – di Giorgio Agamben – alla variante del verso-chiave della più celebre canzone del repertorio provenzale, Lanquan li jorn son lonc en may di Jaufré Rudel. Quello invalso nell’immaginario occidentale (per esempio nella dedica a Gianfranco Contini, da parte di Pier Paolo Pasolini, della Meglio gioventù; o nel titolo della raccolta poetica più emblematica di Jacqueline Risset) come «amor de lonh» è ivi altresì attestato, infatti, come «alberc de lonh». Spiega Agamben: «tutto ruota attorno a un gioco fra lontananza e vicinanza. La strofe in questione dice: “ben mi apparirà la gioia quando le chiederò / per amor di Dio, l’alloggio lontano (o da lontano); e a lei piacerà io albergherò / vicino a lei, benché io sia lontano (o da lontano)», ossia: «le chiederò di darmi alloggio da lontano (cioè di farmi stare, come dice subito dopo, insieme vicino e lontano, in una intima distanza […]. Quel che Berman fa […] è stabilire una corrispondenza fra l’alberc de lonh e la lingua traducente che accoglie l’estraneità della lingua straniera in una vicina lontananza».
Una vicina lontananza: a un paradosso simile a questo pensava d’intitolare Paul Celan – massimo poeta-traduttore del suo secolo, e di sempre – una sua raccolta di versioni poetiche dal francese, poi mai realizzata: Fremde Nähe, ossia appunto «Vicinanza estranea» (la notizia la dà Camilla Miglio nel suo bellissimo Vita a fronte, Quodlibet 2005; ma per Anedda, ivi ricordata nei ringraziamenti, avrà significato non poco già il sottotitolo di un libro precedente della stessa Miglio: Celan e Valéry. Poesia, traduzione di una distanza, Edizioni Scientifiche Italiane 1997). Nelle classiche pagine di Walter Benjamin su Baudelaire, dallo stesso Agamben tradotte, si ricorderà come una trascendentale lontananza, proprio, sia segno inconfondibile della poesia: «l’aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia» (citando Karl Kraus: «quanto più da vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa guarda a sua volta»).
L’albergo nella lontananza di Berman (e di Jaufré Rudel) non “rima” però solo con l’allucinante Overlook Hotel di Kubrick; ma anche, e soprattutto, con quella Locanda cinese che figura nell’opera di quello, fra i grandi poeti-traduttori della generazione precedente, cui agli esordi più ha guardato la giovane Anedda: Franco Fortini. Nello stesso componimento dell’Ospite ingrato secondo (1985) “rimano” fra loro, infatti, due “alberghi nella lontananza”; in effetti distanti in tutto: nel tempo e nello spazio, l’uno appartenente (se dobbiamo credergli) alla biografia “reale” del poeta, l’altro alla sua immaginazione più allegoricamente esotica. Il primo è l’Hotel Metropòl di Mosca, in una cui stanza Fortini dice d’aver trovato nel ’55, in fondo a un cassetto, gli auguri di Natale un anno prima indirizzati, dal poeta cubano Nicolas Guillén, allo sconosciuto ospite futuro di quella medesima stanza (allorché lui, sul foglio che ripone nel cassetto, aggiunge i propri); il secondo è emblema degli «anni polverosi che stiamo vivendo», ai quali «può accadere quel che si augura l’autore di una memorabile poesia cinese scritta sul muro della locanda: che un giorno un colto viaggiatore degni togliere la polvere con la sua manica di seta e riceva il messaggio».
In entrambi i casi il messaggio della poesia, miracolosamente, supera la distanza che separa il passato dal futuro: ma se può farlo è proprio perché rinvenuto nella distanza di una sede impropria, nella latenza di un luogo in cui risediamo per un tempo più o meno breve, ma che in nessun modo possiamo considerare un luogo proprio. La traduzione (in specie di quella che per definizione è intraducibile, cioè la poesia) non implica solo la dialettica fra Prossimo e Distante – sintetizzata da Agamben con l’ossimoro della vicina lontananza – ma anche quella, alla prima intrinsecamente connessa, fra Proprio ed Estraneo.
Commentando il (raccolto solo postumo, da Einaudi, nel ’98) Quaderno di traduzioni di Giorgio Caproni (e le Divagazioni sul tradurre, pubblicate nel ’73 dallo stesso poeta), Enrico Testa ha potuto parlare di una pratica che «scova in sé abitanti segreti, figure di ciò che ci è proprio senza esserci familiare o che, familiare, ci è stato espropriato». Dove non si fatica a ravvisare l’eco di celebri pagine una volta di più di Agamben, in Categorie italiane, sulla Disappropriata maniera di Caproni: sull’«appropriazione disappropriante» dello stile, sulla «disappropriazione appropriante» della maniera. Ma, si può aggiungere appunto con Testa, non c’è luogo più della traduzione dove si accampi tale dialettica senza sintesi (e per eccellenza in quella formazione di compromesso che è il “quaderno di traduzioni”: genere che appropria, nell’opera di un autore, una più o meno ampia collezione di testi impropri).
Quella che Berman chiama l’«Etica della traduzione» consiste «nel riconoscere e nel ricevere l’Altro in quanto Altro»; e non, come per lo più nella tradizione, nell’eliminare tale perturbante Alterità mercé la sua assimilazione nella cosiddetta “lingua d’arrivo”: la quale viceversa – predicava Walter Benjamin, citando Rudolf Pannwitz, nel celebre saggio di giusto un secolo fa sul Compito del traduttore – viene «potentemente scossa e sommossa dalla lingua straniera» (estremizza questo concetto – dall’evidente, non solo oggi, valenza politica – un saggio recente di Typhaine Samoyault, Violence et traduction, Seuil 2020). La lingua straniera è dunque una Vaga lingua strana (così suona il titolo del quaderno di traduzioni che più appare vicino, se non altro per repertorio d’elezione, a questo di Anedda: autore ne è Giovanni Giudici, una cui prima silloge di versioni s’era infatti intitolata A una casa non sua): e quella della traduzione, insiste Berman, è «un’educazione alla stranezza». Quella di una poesia tradotta è dunque, in un certo senso, lettura all’ennesimo grado: se è vero almeno che sempre «si deve profittare di una poesia come di un incontro un po’ fuori dell’ordinario», come scriveva Alfredo Giuliani nell’introdurre ai Novissimi (secondo un’etica della lettura quanto mai inattuale, oggi: quando tutti parrebbero voler trarre – dagli incontri con ciò che leggono, guardano o ascoltano – solo conferme di quello che già conoscono).
Commentando un componimento di Celan (quello di Svolta del respiro che si conclude col verso «Il mondo non c’è più, io debbo reggerti»), nel 2003 Jacques Derrida commemorava a un anno dalla scomparsa (nella conferenza tradotta da Mimesis, nel 2019, col titolo Arieti) un filosofo ai suoi antipodi (dal quale infatti, in occasione di un incontro al Goethe Institut di Parigi nell’81, aveva potuto misurare la distanza): l’Hans-Georg Gadamer che in Verità e metodo, come si ricorderà, aveva teorizzato la «fusione degli orizzonti» fra testo e interprete. È invece proprio nella commessura, nell’ellisse, nella distanza fra questi due poli che si misura l’energia specifica del poetico. Non a caso Derrida ha intitolato la sua conferenza specificamente dedicata a Celan (tradotta da noi nel ’99, da Gallio, ma pronunciata tre anni dopo quella pubblica incomprensione con Gadamer…) alla mitica parola d’ordine degli Ebrei, Schibboleth: divisione che congiunge, separazione che accomuna, Distanza che Avvicina. E un altro lettore acuto di Celan come Andrea Zanzotto, elettromagneticamente rideclinando il proprio «principio resistenza», una volta ha messo in relazione l’energia della poesia alla distanza che è chiamata a percorrere: «pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo» (dove «il mezzo», si capisce, «è costituito dalla lingua»: da Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, Pratiche 1981).
La traduzione che più si è spinta, in questo territorio non giurisdizionale, è senz’altro quella di Sofocle da parte di Hölderlin (ampiamente commentata da un precedente saggio di Berman, La prova dell’estraneo, tradotto pure da Quodlibet nel ’98: il cui titolo, anzi, deriva proprio dalle note del poeta svevo a quelle sue versioni “estreme”). Episodio che ci mostra come sia un luogo ideale, questo territorio selvaggio, ma tutt’altro che ameno; e anzi massimamente pericoloso (si può ben dire, parafrasando lo stesso Hölderlin, che laddove si trova la salvezza è anche il pericolo…). È qui che – commenta Benjamin – «il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo». Lo spazio fra le barche diverse che si richiamano fra loro, nel buio del mare aperto, è un abisso che attira irresistibile.
Dev’essere stato per salvarsi da quest’oscura attrazione, allora, che nella pratica traduttoria della giovane Anedda (nella sua «vita a fronte», cioè: per parafrasare il già incontrato titolo, di un’amica, non solo a lei caro) si è fatta strada una soluzione inedita come quella testimoniata da Nomi distanti. La risposta da lei data, alle distanze dai «nomi stranieri», è «un altro respiro, un altro destino: una terza voce in un terzo spazio». Nell’impaginazione del libro – come si vede alla sua mera apertura –, a precedere la tradizionale alternanza di “testi a fronte” e “versioni d’autore”, si aggiunge infatti il cambio di ritmo di una terza voce: rispetto all’originale, ora più ora meno distante (in effetti il solo accostamento al testo-fonte, certe volte, consente al lettore di riconoscere la derivazione dal testo-foce). E non meno distante quando la traduzione “vera e propria”, che le tiene dietro, è della stessa Anedda – come nella Semaison di Philippe Jaccottet. (L’espressione terzo spazio, per inciso, coincide alla lettera con quella usata da Homi Bhabha, il filosofo indiano-americano maggior esponente del pensiero postcoloniale, per designare quel luogo in cui identità e alterità si confrontano e si ibridano sino al punto, quasi, di scambiarsi di ruolo; e in cui si sottolinea il ruolo ambivalente giocato, sempre, dalla «traduzione»: «imitazione, sì, ma in senso malandrino e spiazzante».)
La soluzione delle «risposte da lontano» – variazioni o imitazioni, come le chiamò una volta Leopardi, con parola poi fatta sua da Attilio Bertolucci – non è, appunto, in sé nuova (e avrà, dopo l’exploit di Anedda, nuove e interessanti occorrenze presso autori più giovani che senz’altro a lei avranno guardato). È anzi, «l’imitazione» o pastiche, una strada alternativa consueta: che, stando al sempre drastico Berman, rispetto alla traduzione tradizionale corrisponde alla «differenza fra il copista e il falsario in pittura». Nuova invece, e molto, è la composizione del libro che ne deriva. È proprio il gesto di accostare l’imitazione alla “traduzione vera e propria” (anziché considerare l’una alternativa all’altra, e all’altra sostituirla: come appunto di norma si faceva) a esaltare il «margine bianco» che si accampa, così, fra le pagine del libro: il terzo spazio che misura la distanza colmata dal «tragitto di suoni», dal «tragitto di ragioni», dal «pellegrinaggio» verbale compiuto dall’autore di dopo.
Anziché far risaltare per contrasto la “fedeltà” – come per tradizione viene definita la vicinanza all’“originale” della traduzione “vera e propria” – l’imitazione vi retroagisce facendo più risaltare le forzature e gli arbitrî, le patenti o sottili distanze che ogni traduzione mantiene, insomma, dai testi cui si riferisce. Non solo: ci fa notare come, a dispetto di tutta questa energia di appropriazione, i testi tradotti restino collocati, a loro volta, in una sorta di spazio neutro. Non è un caso che proprio Caproni sostenesse, in un intervento tardo, come quello risultante dall’atto del tradurre sia sempre «un testo che, pur rassomigliando alla personalità del tradotto e a quella del traduttore, non è precisamente né l’uno né l’altro».
Dopo Nomi distanti la vita a fronte dell’Anedda matura, e sempre più sicura dei propri mezzi, non ha più dovuto ritagliarsi uno spazio testuale distinto e separato per praticare, traducendo, questo terzo spazio. In un notevolissimo intervento (pubblicato nel volume Transito libero. Sulla traduzione in poesia, a cura di Caterina Graziadei e Duccio Colombo, Artemide 2011), sin dal titolo Una Mesopotamia interiore, presenta quello della traduzione come uno spazio intermedio, una «terra di nessuno». Emblematico il lavoro nella Parola Russia, di nuovo di Jaccottet (Donzelli 2004): ma su uno Jaccottet che traduce quell’altro poeta-traduttore per antonomasia che era Osip Mandel’štam (il quale per esempio rifà suo, e si sa quanto tragicamente, l’Ovidio dei Tristia: testo di riferimento anche per Anne Carson, altra autrice risolutamente “fuoriformato” da Anedda tradotta con assiduità negli ultimi anni). Le Tre poesie, da lei ri-tradotte in appendice a questo breve saggio del poeta svizzero (e da lui incluse, nel ’97, in D’une lyre à cinq cordes), sono forse in assoluto (in particolare quelli dei Tristia, di Mandel’štam, che cominciano «Mi sono lavato, di notte, nel cortile») i versi più folgoranti mai “scritti” da Anedda: proprio perché disegnano – come scrive, in coda al magnifico volumetto – «uno spazio mobile, umano, capace di memoria e di futuro»: a dispetto della sorte tragica dell’uomo che in origine li scrisse. «Ri-leggere», continua Anedda, «ha significato seguire le sfumature, le inversioni, le omissioni in tre lingue diverse per suoni e per alfabeto, ma anche scoprire come quelle tre versioni portassero a uno spalancamento, forse a quel luogo sonante di cui parla Marina Cvetaeva, in cui si azzerano distanza e separazione».
Proprio un passo di Cvetaeva cita Antoine Berman, nell’Albergo nella lontananza: «Oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune, questo si chiama tradurre […]. Ma la traduzione significa anche altro. Non si fa soltanto passare una lingua in un’altra lingua (il russo per esempio), si passa anche il fiume. Io faccio passare Rilke nella lingua russa, proprio come lui mi farà un giorno passare nell’altro mondo». Al di là del cortocircuito eloquente fra quei grandi testi a fronte che sono la vita e la morte, come vedremo destinati a incontrarsi nelle riflessioni della stessa Anedda, colpisce la metafora spaziale di Cvetaeva, così vicina a quella della Mesopotamia interiore: tradurre, si legge qui, equivale a «sterrare un nuovo spazio»; mentre, aggiunge Cvetaeva, «seguendo la traccia di un poeta, aprire ancora una volta la strada che egli ha già aperto». Un terzo spazio è dunque già quello delle “traduzioni vere e proprie”, come quelle che sempre più frequenti, negli ultimi anni, ha composto Anedda: da Anne Carson s’è detto (non solo in Antropologia dell’acqua, curato assieme a Elisa Biagini ed Emmanuela Tandello, Donzelli 2010), ma anche da Jamie McKendrick (non solo in Chiodi di cielo, Donzelli 2003); e da poeti ancora più giovani.
Perché appunto ogni volta tocca aprire ancora una volta la strada, sterrare lo spazio che ciascuno di questi autori ha, per suo conto, già aperto. Ogni traduzione, non solo quelle dei classici («doppiamente seconde», queste: «in rapporto all’originale, in rapporto alla prima traduzione»), sono infatti per Berman «ri-traduzioni»: «tutto avviene come se, di fronte all’originale e alla sua lingua, il primo movimento fosse di annessione, e il secondo (la ri-traduzione) di investimento della lingua materna da parte della lingua straniera» (ci si ricorda allora di un esperimento editoriale straordinario, ancorché di breve durata: la «serie trilingue» diretta da Valerio Magrelli entro la collana einaudiana «Scrittori tradotti da scrittori», in cui nel ’96 uscì anche l’Antigone tradotta da Hölderlin e ri-tradotta da Giuseppina Lombardo Radice).
Nella scrittura più recente di Anedda questo terzo spazio si apre anche senza l’intervento di quell’intruso che è il testo altrui: alludo al “risveglio” della limba sarda a partire dalla (splendida) sezione omonima di Dal balcone del corpo (Mondadori 2007). Quella del risveglio non è solo una metafora nell’autrice nata e formatasi a Roma, ma dall’origine appunto sarda da lei sempre più spesso rivendicata. Che ricorda infatti, in una nota rapida quanto rivelatoria (Limba. Una nota sull’autotraduzione, in La soglia dell’altro. I nuovi compiti del traduttore, in «Materiali», dicembre 2007): «ho cominciato a scrivere in limba […] dopo un’operazione: due testi, isolati, improvvisi. Forse l’anestesia ha scosso qualcosa di sedimentato» (in quest’ultimo termine si avverte l’eco di un maestro sempre più presente, lo Zanzotto dell’anepigrafa, scintillante nota a Filò: suo personale “risveglio” dialettale datato 1976). Un risveglio che riguarda pure, si diceva, il lavoro del lutto: «tempo fa ho perso a distanza ravvicinata due persone a me molto care. Mi sembrava di non avere più voce: muda. Poi, come seguendo un mormorio a bocca chiusa ho scritto otto poesie sulla memoria degli Attittos» (in logudorese cioè, recita la nota relativa di Dal balcone del corpo, «i lamenti funebri»): «quei due linguaggi paralleli non confondevano, ma chiarivano: una lingua ragionava con l’altra e costruiva di volta in volta un’architettura. Ancora una volta attraversavo una terra straniera con una lingua non completamente mia, ma cosa c’è di più straniero e di più lontano dal possesso della morte?».
Di nuovo la metafora dello spazio (la terra straniera, il suo attraversamento) incontra quella dello spossessamento (nella sua forma estrema: quella della lingua morta richiamata in vita per dar voce a un lutto altrimenti inudibile). Ma qui si inserisce poi, come si vede, un ulteriore terzo spazio – quello dell’arte (un’architettura). In Una Mesopotamia interiore racconta Anedda – sprofondando à rebours nella propria favolosa giovinezza di storica dell’arte – come proprio questo fosse stato il primo dei suoi terzi spazi: «la storia dell’arte è stato il mio primo maestro di traduzione: il testo traduceva un’immagine che a mia volta traducevo in me stessa, mediava tra il mio sguardo e quello di chi aveva descritto, studiato, meditato, parlava tra il mio qui e il tempo di allora». Anche l’ekphrasis infatti (come quella, negli esempi da lei addotti, di William Carlos Williams che rifà Bruegel o, ancor meglio, di Elizabeth Bishop che “inventa” un Hopper inesistente, e nondimeno puro Hopper…) è per Anedda «una traduzione dello sguardo, “una traduzione della distanza”»: «descrivere un quadro è anche portarlo di nuovo verso di noi, verso chi legge, distaccarlo dal suo spazio».
In quella Vita dei dettagli (Donzelli 2009) che al momento va forse indicato come il suo capolavoro, Anedda non solo si esercita (magistralmente) nell’ekphrasis; soprattutto compie quell’atto, pietoso quanto crudele, che è appunto distaccare l’immagine dal suo spazio: fisicamente ritagliandone dettagli che, suona il sottotitolo del mirifico libretto, consentono alla sua autrice, e a noi con lei, di «immaginare mondi». Ed è infatti questo, fra i versi mirabili di Historiae (Einaudi 2018) e le prose ancora più straordinarie di Geografie (di prossima pubblicazione presso Garzanti), il terzo spazio oggi praticato da Antonella Anedda. Diceva Cvetaeva, e la seguiva Celan, che «tutti i poeti sono ebrei». Ma se ogni traduzione (come la metafora, retoricamente, nella partizione interna della lingua) è una figura di spostamento, cioè di movimento, ogni poeta è un traduttore. Cioè – si legge ancora in Una Mesopotamia interiore – uno «straniero viaggiatore», una «bestia da soma»: qualcuno che si faccia carico di quanto portato da qualcun altro prima di lui (viene in mente la figura etimologica impiegata una volta – in Pellegrinaggio, nel Porto Sepolto – da un altro poeta-traduttore, il più illustre del nostro canone novecentesco, l’Ungaretti che si definiva «uomo di pena»: “lavoratore”, cioè, con eloquente calco da quel francese che era toccato imparare, emigrando, a sua madre e suo padre; il quale, homme de peine nei lavori del Canale di Suez, vi era letteralmente morto di fatica).
È per questa via che si può passare il fiume; che si può capire il richiamo al di là del fragore del mare, e del tremore del fiato. È seguendo questa strada che si può sterrare la prosa: in una geografia trasportata al morale.
Vivo in Brasile e cerco i libri di Anedda, alcuni purtroppo esauriti, come Salva con Nome.
Vi ringrazio molto questo materiale su Nomi Distanti!
Auguri!