di Andrea Sartori

 

Il governo di Boris Johnson affronta il tema delicato della libertà di parola nelle università inglesi, per evitare che anche il Regno Unito incorra in quella che ad alcuni osservatori pare una vera e propria deriva in atto nei campus americani. L’iniziativa annunciata da Johnson è infatti orientata a contrastare la censura, da parte dell’accademia, del pensiero non per forza di cose allineato ai principi – nominalmente inclusivi e tolleranti – della cosiddetta sinistra liberal. In Italia, su di un piano in apparenza diverso e sul versante filoeuropeo, Mario Draghi chiama Paola Ansuini alla direzione della comunicazione di Palazzo Chigi, promettendo di dare un taglio all’uso smodato di annunci via Twitter e Facebook a cui ci avevano abituato, tra gli altri, sia Rocco Casalino sia Matteo Renzi. La linea per Draghi sembra ora essere quella del comunichiamo qualcosa se c’è qualcosa da dire.

 

Si tratta di due propositi provenienti da due versanti politici opposti rispetto alla questione dell’Europa, ma entrambi sembrano presagire una svolta culturale nell’accidentato rapporto che il linguaggio intrattiene con la politica, perlomeno in anni in cui i social media e la comunicazione che essi facilitano, sembrano aver perso qualunque salutare attrito con la realtà. Di tale possibile svolta bisogna cogliere a fondo l’inedita opportunità, ben al di là – sia chiaro – di quel che Johnson e Draghi rappresentano come personalità politiche. Fake news e ansia da connessione sono infatti qualcosa che ciascuno di noi vive sulla propria pelle, anche senza che l’interessante docufilm in onda su Netflix, dal titolo The Social Dilemma, ce lo ricordi con le parole preoccupate dei manager e degli analisti che proprio per i social network hanno lavorato negli ultimi dieci e passa anni.

 

Quanto ai campus americani, oltreoceano si parla spesso del trattamento riservato al popolare psicologo canadese Jordan Peterson, che nei suoi feeds su YouTube critica – da una prospettiva peraltro piuttosto conservatrice e di destra, nostalgica d’un ordine patriarcale – una serie di capisaldi del pensiero liberal. Peterson contesta, tra le altre cose, che il governo canadese sia giunto per legge a sanzionare come offensivo e discriminatorio l’uso d’un pronome personale che non corrisponda all’identità di genere (non quella biologica, assegnata alla nascita) in cui la persona si riconosce. Se qualcuno si rivolge a me utilizzando il pronome he anziché she o they – o viceversa – io ho il diritto di chiedere l’allontanamento dal lavoro di chi, attraverso il linguaggio, bistratta la mia identità di genere (la professione, evidentemente, è sempre il punto vivo che fa più male). Mentre masse di americani – cis o queer o trans non importa – si stanno proletarizzando, nei campus più evoluti i dibattiti s’infiammano su temi come questo, sino a togliere pubblicamente la parola a speaker non allineati, magari portatori di qualche dubbio o riflessione critica, senza che per tale motivo quegli speaker si riconoscano nel patriarcato nostalgico d’un Peterson o in posizioni politiche pericolosamente reazionarie.

 

L’accademia liberal, in altre parole, adotta l’intersectionality come metodo di ricerca ma pure come esempio di condotta civile, e in questo modo porta allo scoperto la sua anima profondamente identitaria (il che è un bel paradosso, se si pensa che anche il sovranismo è identitario). Ciascuna minoranza, in nome d’un ideale di giustizia sociale, ha il diritto – e questo di per sé è ovviamente sacrosanto – di far sentire la propria voce. La discriminazione, infatti, colpisce l’appartenenza di genere ma anche quella etnica, la disabilità ma anche l’identità religiosa, lo status socio-economico ma anche l’età anagrafica (soprattutto in un’epoca di pandemie globali, nella quale la vita degli anziani e dei malati sembra contare di meno). Il problema è che se si dogmatizza questa sorta di relativismo identitario della giustizia, e se il ‘frammentismo’ dell’intersezionalità diviene a sua volta un’astrazione della political correctness, chi o che cosa possono mettere concretamente in comunicazione tra loro le opposte e disaggregate minoranze di genere, le diverse e conflittuali comunità etniche, religiose, culturali e così via?

 

Che cosa abbiamo tutti in comune, indipendentemente dalle nostre variegate identità? Il discredito di cui gode oggi il marxismo impedisce di sostenere, in molti campus americani, che in fondo l’avere un lavoro gratificante e retribuito decentemente è – per una persona adulta grossomodo ‘middle’ o decisamente ‘low’ – la cosa più socializzante che ci sia, al netto delle trasformazioni del capitale, della digitalizzazione dell’economia, della crisi della centralità della fabbrica fordista. Grazie al lavoro infatti, si può accrescere la propria autostima, si possono avere i mezzi per sostenere concretamente la propria vita affettiva, si può entrare a far parte d’una cerchia di colleghi e amici.

 

Parlare di lavoro, però, suscita in certi campus una malcelata diffidenza rispetto al rapporto tra struttura e sovrastruttura, come se ancor oggi si credesse che la prima determina in maniera meccanica la configurazione dei rapporti sociali, e come se soffermarsi sulla trasversalità del lavoro comportasse l’incaponirsi sul dilemma dell’uovo e della gallina (è più determinante lo status socio-economico o l’identità di genere?). È vero, l’intersezionalità ha messo correttamente in luce che, quanto alla giustizia, i fattori da prendere in considerazione sono molteplici e stratificati, ma sbaglia a considerare la sfera dei rapporti di produzione come una variante tra le altre, anche se le togliamo quell’aura metafisica di causa esclusiva e assoluta delle distorsioni dei rapporti sociali, che essa aveva per Marx nella fase ottocentesca di ascesa del capitalismo.

 

Il diritto al lavoro, insomma, è estremamente empowering per tutti, vale a dire permette di negoziare – da una pur circoscritta posizione di potere – il diritto di far valere la propria voce anche in altri ambiti, afferenti al corpo e all’identità culturale e/o religiosa. Da qui la necessità, negli anni che vengono, d’accompagnare le battaglie identitarie e culturali con delle battaglie – trasversali e omnicomprensive – per il lavoro, a livello nazionale ma anche sovranazionale, come nel caso dell’Europa (su questo tema si può leggere il saggio di Sandro Mezzadra, Un mondo da guadagnare, Meltemi, Milano, 2020, che parla non a caso di un’Europa costruita dal basso, anche dai migranti, ben diversa quindi dall’Europa ‘delle banche’ e dell’austerity).

 

Nulla a che vedere, come è facile notare, con le prediche del Jordan Peterson di turno, che per altro accusa immotivatamente gli attivisti queer e trans d’essere dei vetero-marxisti attaccati a un’ideologia soprassata, a cui però i campus liberal, difendendoli, darebbero secondo lui di nuovo fiato. Niente di più sbagliato. Questa sinistra liberal non è di sinistra, perché minimizza l’impatto del lavoro sulle politiche identitarie ed è cieca di fronte al rovesciamento dialettico del proprio relativismo intersezionale in dogmatismo e settarismo.

 

La relativizzazione delle disuguaglianze economico-sociali (o di classe, come si diceva una volta), ma anche del ruolo del lavoro nelle rivendicazioni identitarie, sembra appiattire le preoccupazioni d’una società complessa come quella americana sul controllo poliziesco del linguaggio con cui quelle rivendicazioni vengono espresse. Al di là di come percepiamo certi costrutti linguistici, però, v’è un mondo materiale di sfruttamento e violenza. Proprio questo mondo reale – non un mondo percepito in un modo o nell’altro a seconda di chi lo percepisce – è trascurato dall’apparato dell’esasperata comunicazione mediatica a cui siamo sottoposti.

 

Qui entra in gioco Draghi e, a quanto pare, il suo proposito di farla finita con una comunicazione politica che tanto ricorda la propaganda corporate delle ditte di provincia. Secondo questa propaganda, non importa quel che si dice, l’importante è che se ne parli, ovvero che si suonino in maniera convincente e magari fotogenica le trombe del parlare a vanvera, ammesso che queste trombe determinino le giuste vibrazioni nelle viscere di chi ha la smania di mettere un like da qualche parte. E quest’ultima è la malattia sempre in agguato del populismo, di destra e di sinistra, ovvero d’una politica della percezione e non della realtà.

 

Un po’ di storia relativa al capitolo più buio del ‘900 non guasta. All’indomani dell’apertura dei campi di sterminio, Leo Löwenthal scriveva un saggio intitolato “Individuo e terrore”, pubblicato per la prima volta nel 1946 sulla rivista Commentary. In questo breve saggio, l’autore sosteneva: “la disumanizzazione posta in opera dal terrore consiste innanzitutto nella totale integrazione della popolazione in entità collettive che paralizzano la comunicazione interumana – nonostante, o piuttosto come conseguenza, dello stesso enorme apparato di comunicazione a cui gli uomini sono ora esposti” (La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, a cura di E. Donaggio, Einaudi, Torino, 2005). Löwenthal aveva precocemente capito che l’esposizione a un enorme apparato di comunicazione, alla costante sollecitazione delle percezioni, non è garanzia di vera comunicazione tra gli esseri umani, anzi. Nel caso del terrore nazista, quell’apparato diluiva l’individuo nella massa, in un’entità collettiva conforme e de-differenziata, in cui non v’era spazio per l’individuo, men che meno per la sua riflessività.

 

Occorre quindi che la comunicazione – questo moloch della contemporaneità – sia circostanziata per essere efficace. Occorre che essa sia ancorata a contenuti e pensieri con un peso specifico, a individualità semantiche, per così dire, in modo che non si dissolva in inaffidabile chiacchiericcio pulviscolare, al riparo del quale le cose davvero importanti e reali (ad esempio le politiche per il lavoro) paiono scomparire, come esige ogni propaganda che si rispetti.

Certo, aspettarsi proprio da Johnson e da Draghi una svolta sul piano della libertà di parola e su quello della comunicazione politica può sembrare azzardato. Tuttavia è significativo che queste due ‘novità’ si manifestino oggi al di qua dell’Atlantico tanto dal lato della Brexit, quanto da quello dell’anti-Brexit.

 

Ci si chiederà: e se un eventuale provvedimento da parte del governo Johnson dovesse autorizzare un neonazista a parlare pubblicamente in un’università inglese? E se la meditata sobrietà linguistica dell’Ufficio Comunicazione di Palazzo Chigi ci tenesse all’oscuro delle presunte trame del governo, dell’Unione Europea e magari della Trilaterale?

Anche in questi casi occorrerebbe fare leva sulla lucidità, sulla fatica e sulla pazienza – magari poco cool e men che meno fashionable – della riflessività critica, la quale continua a essere – nonostante la propaganda d’ogni colore – uno strumento dignitoso al servizio della nostra dignità.

6 thoughts on “Sulla paura di parlare e sul parlare a vanvera

  1. “ Sabato 1 giugno 1996 – Una volta Calvino disse che bisogna imparare a mordersi la lingua. Perché chi parla come gli viene, a vànvera, senza pensare a quello che dice e a chi lo dice, fa una brutta impressione. E anche chi parla troppo. Sì, parlare troppo è un brutto vizio, da cui bisognerebbe guarire. (Anche non parlare mai) * A me parlare piace, lo riconosco. Non come il babbo che, secondo me, parlava un po’ tanto. A forza di sentirlo tutti i giorni – soprattutto la mattina presto – mi ero iscritto al partito del silenzio, a oltranza, per protesta. Poi il babbo è morto – senza fare parola, va detto – e io ho capito che ormai dovevo parlare io. Però il silenzio mi piace sempre. Ci sono certe cose che vanno fatte in silenzio. Per esempio toccare, annusare, leggere o ricordare. In silenzio si può anche ascoltare, che è sempre utile, e qualche volta anche molto gradevole. Però soprattutto mi piace parlare, più invecchio e più mi piace. Ho paura che mi piaccia troppo: dico parlare, non invecchiare. Mi piace parlare anche a vànvera, ogni tanto, che ho letto viene da « fànfera » come « fanfarone » e forse anche « fànfano », che è anche un pesce pilota, non perché guida qualcosa ma perché va insieme ai pesci più grossi, squali compresi, non si sa bene perché, io penso per paura. Mi piace anche scrivere, per esempio un diario, non come Anaïs Nin che ne ha scritto uno di cinque volumi e pare che sia solo una parte, il resto è in una banca, ma ancora non si può dire. “.

  2. La comunicazione non è al servizio della dignità altrui. Ci si renda conto delle bestialità che si dicono! Seguendo questo modo di concepire i rapporti umani ogni uomo potrebbe ritenere di essere chissà chi per l’altro… Con il politically correct ci si compromette.

  3. Sulla prima parte. La political correctness è diventata un problema nei campus Usa perché la loro Costituzione non sancisce espressamente la libertà di insegnamento come diritto. Infatti il Primo Emendamento, a prescindere dal fatto che venisse invocato sistematicamente da soggetti come il compianto Rush Limbaugh o i nazisti dell’Illinois, si limita a stipulare che non possono darsi leggi limitative della libertà di parola: “Congress shall make no law […] abridging the freedom of speech”. Da cui il moltiplicarsi di regolamenti e codici di condotta interni alle Università, i quali non hanno forza di legge ma per allontanare qualcuno, o eventualmente licenziarlo, vanno comunque benissimo. (Altro problema come funzioni il Giudice del Lavoro negli Stati Uniti, onestamente non lo so, ma altrettanto sicuramente non vorrei mai saperlo.) Resta il fatto che l’equivalente del nostro articolo 33 Cost, comma 1, non si trova né nella Costituzione americana, né in quella della Quinta Repubblica (nel 1958 De Gaulle era ancora lucido), e neppure, a rigore, nel Grundgesetz della Repubblica Federale, dove si legge bensì “Kunst und Wissenschaft, Forschung und Lehre sind frei”, ma all’interno dell’articolo 5 sulla libertà di espressione (equivalente al nostro art. 21 Cost), mentre all’istruzione scolastica è riservato il passabilmente farraginoso art. 7, dedicato principalmente alle libertà delle scuole non statali, senza che sia individuato un diritto soggettivo dell’insegnante all’esercizio della libertà didattica: da cui costante giurisprudenza costituzionale che riconosce la piena libertà solo alla “Forschung und Lehre” ex art. 5, cioè ai docenti universitari. Che poi molti insegnanti nostrani non apprezzino granché questa tutela costituzionale privilegiata, e continuino a scrutare i cieli in attesa che piovano griglie di valutazione, descrittori delle competenze e degli obiettivi di apprendimento e altre manna ministeriale, prego credere, non ricade assolutamente nelle responsabilità di chi scrive. Molto più interessante, per quanto riguarda l’insegnamento specifico della letteratura, la proposta di Emanuele Zinato, che vede nella pratica di “explication de texte” in classe la possibilità di sviluppare almeno “per frammenti o per schegge”, o persino “nei modi di una guerriglia”, una condotta educativa ” controcorrente rispetto alle disposizioni e ai linguaggi delle istituzioni formative medesime”. https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/737-pro-o-contro-il-libro-di-claudio-giunta-buone-e-cattive-battaglie-per-la-didattica-della-letteratura.html Il che si può davvero sperimentare, e probabilmente si deve, solo a partire dal peculiare statuto giuridico dell’insegnante italiano. Naturalmente occorre anche un presupposto materiale: verifiche in entrata severe, sulle conoscenze e non sulle acquiescenze.

  4. Vorrei aggiungere una puntualizzazione e una riflessione.

    Quanto alla prima, in questo pezzo sostengo che la lotta contro la discriminazione di genere (ma anche contro altri tipi di discriminazione), per essere veramente efficace, dovrebbe essere sempre intrecciata a una lotta per il diritto al lavoro. La radice ultima della disuguaglianza – per tutti – si trova ancora lì, nel rapporto tra capitale e lavoro (posto comunque che entrambi sono cambiati di parecchio negli ultimi decenni). Se si mette tutta l’energia sul problema linguistico, si perde di vista il vero problema. Un esempio (certamente non del tutto appropriato): un anno fa mi sono trovato alla CGIL per una piccola vertenza sindacale. Ero un lavoratore temporaneo, co. co. co. o co. co. pro., e l’ufficio per quelli come me, alla CGIL, si chiamava “Nuove Identità del Lavoro”, non si chiamava “Commercio”, “Chimici”, “Metalmeccanici”… . Il fatto che non esistesse una parola per definire il tipo di contratto mio e dei miei colleghi, mi urtava non poco, non mi faceva sentire riconosciuto neppure dal sindacato. Tuttavia i miei colleghi e io ci siamo messi d’impegno, con il consulente delle “Nuove Identità del Lavoro”, a finire la nostra pratica, per avere indietro quel che era nostro da un datore di lavoro che s’era volatilizzato. Questo paragone ha dei limiti, ovviamente, ma sempre d’identità e di riconoscimento di qualcosa che è proprio e intimo si tratta.

    La riflessione riguarda quella che secondo me è la carenza epistemologica della “intersectionality”. Quest’ultima appare infatti qualcosa di simile al “Nebeneinander” di cui parla Magris quando analizza la “Lettera di Lord Chandos” di Hofmannsthal (“L’anello di Clarisse”, Einaudi, Torino, p. 45, ma si veda anche tutto il brano di p. 26, sul “delirio di molti” diagnosticato da Musil). Nel nostro contesto – un contesto di crisi come quello della Finis Austriae – “Nebeneinander” vuol dire che le diverse identità culturali, religiose, di genere… stanno le une accanto alle altre in un rapporto di sostanziale indifferenza reciproca, se non di ostilità (pensiamo a come, ad esempio, alcune studiose di Women Studies hanno accolto lo spostamento dell’attenzione sulla nozione di “queerness”). In una condizione di tale disgregatezza, in cui ciascuna minoranza – ciascuna identità – va per la sua strada, si perde un potenziale critico comune. La mia idea, argomentata meglio da altri, è che questo elemento comune andrebbe trovato nel lavoro e nel diritto a esso.

    Aggiungo infine che, da studioso di Hegel, il pronome, qualunque esso sia, non riesce veramente a dire l’identità individuale, al pari del deittico “questo” in apertura della “Fenomenologia”. Il linguaggio di per sé procede per delle generalizzazioni, per approssimazioni. Judith Butler è nota per la tesi che il genere è una performance, e non è inscritto in una visione normativa e rigidamente binaria della natura e dei sessi biologici. Alla luce di questo, come può un pronome, un elemento grammaticale della lingua, rendere conto di identità così sfuggenti, legate al gesto e all’estro, come sostiene Butler?

    Quindi, di nuovo, le riflessioni critiche del mio pezzo non ‘attaccano’ la diversità, ci mancherebbe. Mi permetto solo di far notare che il linguaggio e la grammatica mediano solo fino a un certo punto il nostro rapporto con il mondo e con il nostro corpo. Che è cosa ben complicata, come ben sa Butler.

    Da qui la necessità di allargare oltre il linguaggio l’orizzonte della critica e dell’attivismo.

    Grazie,

    Andrea.

  5. Anche in Francia si è cominciato a interrogarsi -e ad agire- per evitare che le università prendano la strada americana. Si parla molto d’islamo-gauchisme ma sospetto che gli obiettivi siano altri (studi gender e post-coloniali), data la fondamentale inesistenza dell’islamo-gauchisme nella società francese. Da una parte questo intervento dello stato nell’università è piuttosto inquietante (specie visto il crescente autoritarismo della società francese), dall’altra parte il clima di censura per ogni pensiero “incorrect” nelle università non è meno preoccupante. In ogni caso il tacito patto tra Macron e certa classe intellettuale sembra essere stato rotto una volta per tutte.

  6. @alcuino Sull’inesistenza dell’islamo-gauchisme forse Alain Finkielkraut troverebbe da ridire: intellettuale dal quale personalmente mi sento abbastanza lontano, ma la cronaca è cronaca. Per tacere di Houellebecq, n’est-ce pas.
    Sull’autoritarismo in generale: quando mai la Quinta Repubblica si è fatta mancare la sua dose di mantenimento? Sotto Pompidou? Sotto Mitterrand?

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