di Adelelmo Ruggieri

 

[Dieci anni fa, il 23 febbraio 2011, moriva a Oslo Luigi Di Ruscio, nato a Fermo nel 1930. Lo ricordiamo con due post. Il primo, inedito, è di Adelelmo Ruggieri].

 

Fermo, Aprile 2020. Non ho mai avuto così poca percezione del posto in cui vivo come in questi giorni del confinamento. Il raggio d’ordinanza è diventato l’unità di misura del mio sentire, ma anziché in metri lo dico in passi, così mi pare più disteso, trecento passi, quasi niente, ma un conto è il raggio, un conto il cerchio di ordinanza che molto contiene; se poi nel centro del cerchio è la casa in cui si sta, quel molto può diventare moltissimo, quando non tutto, e nel mio caso il cerchio, a nord, a duecento e settanta passi, tiene una porta antica sulla città storica intitolata a Santa Caterina, e qui inizia la Salita del Brunforte, e a metà della costa, tra i vicoli a occidente, abitò la sua infanzia e la sua giovinezza Luigi di Ruscio. Dopo il Brunforte è un succedersi ancora di salite e spianate e a questo modo si giunge alla piazza della città, intestata al Popolo. Fu proprio qui, undici anni fa, a maggio, che rividi Luigi per l’ultima volta, in occasione della presentazione del suo romanzo “Cristi polverizzati”. Finita la presentazione si fece cena a un ristorante non distante, e circa a metà della cena Luigi si sporse verso di me e mi disse che si era fatto tardi, mi chiese se potevo accompagnarlo dove soggiornava in quei giorni. Gli dissi che ero a piedi e avevo la macchina giù a Porta Santa Caterina. Prese congedo dai suoi ospiti e ci avviammo. Camminava piano. A questo modo raggiungemmo l’inizio in alto della Salita del Brunforte, e qui si fermò. Da lì alla porta non sono nemmeno trecento passi. Prese un po’ di tempo, poi disse che mi avrebbe aspettato lassù. Va bene, è questione di quattro minuti. E dieci minuti dopo ero lì con l’auto ché ci vuole più tempo delle volte con l’auto che andare a piedi. Non gli chiesi, naturalmente, perché non avesse voluto rifare la costa della sua infanzia e della sua giovinezza, ma quel suo fermarsi lassù, in alto al Brunforte, mi sta ancora vivido nella mente. Fu la sola volta, durante quel tragitto notturno, in tutto sono settecento passi, che si fermò; non fece sosta nemmeno a tre decimi del percorso, dove c’è una piazzetta che in mezzo tiene una statua di Giacomo Leopardi – appoggiato a un tronco di colonna e in atto di leggere un libro – e di fronte, addossata a un muro alto, “enorme”, c’è l’antica fontana dell’arcivescovado che gli aveva suggerito una poesia del suo secondo libro, del Sessantasei, “Le streghe s’arrotano le dentiere”; si intitola “Sopra la fontana del palazzo arcivescovile”: «Poche cose ho gustato come bere quest’acqua di notte / sentire la materia che scioglie il torpore e pulisce la bocca / la lingua colpita dal freddo improvviso si dibatte tra i denti / e sapori di zolfi e d’inferni rimangono attaccati nella gola / negli anni dell’infanzia allo svegliarmi dopo furibondi sonni / le palpebre rimanevano attaccate incollate dalla materia gialla / mia nonna prendeva quell’acqua per sciogliere la cecità del risveglio / l’occhio ora s’alza limpido sarà perché dicono / chi beve quest’acqua vedrà sempre chiaro / lo sbruffone esce da una bocca di una testa di pietra / un muso d’assiro con occhi come uova d’oca / capelli simmetrici in boccoli donneschi / la faccia dell’enigma quando chino sotto quella faccia di pietra / faccio la mia bevuta notturna / tra le case patrizie silenziose come covi di ladri / fontana attaccata al muro enorme del palazzo / arcivescovile cogli archivi di tutti i peccati / e pene da scontare per tutti gli uomini / nel mio paese prima che muoia un vescovo crepano cinque papi / scaraventati governi lapidi fracassate / la notte ha lo stesso volto impassibile / e la fontana di vena butta col suo stesso calmo scorrere / i vecchi dicevano che era l’acqua dei diavoli / a gonfiare la fontana dell’occhio sano / in questa terra ogni pietra dice la sua storia / la fontana piscia la sua acqua / e la testa mia vi naviga / in questo agosto di ritorni feriali / d’aclassati come mendicanti / di leccatori di pietre illustri». Non rammento se Luigi volse lo sguardo alla fontana di vena, so che continuammo piano fin dove inizia il Brunforte, e li si fermò; in cinque minuti saremmo arrivati giù a Santa Caterina, ma decise di non proseguire, e era come se lì, in quel punto, in quel momento, stesse il centro del suo cerchio vitale il cui raggio a sud toccava l’antica porta e lui non volesse metterci più piede dentro quella superficie così lontana nel tempo.

 

Fermo, vicolo Borgia

 

Fermo, Gennaio 2021. Oggi il colore pandemico è arancione. Sto camminando. Ho raggiunto, da su in alto al Brunforte, sul fianco destro a scendere, via degli Andalò; il secondo a sinistra è vicolo Borgia, dove stava la casa di Luigi da piccolo e da ragazzo. Dovrebbe essere, sul fianco destro, la seconda a scendere, non ne ho certezza. È bassa, forse ha un piano sottostrada. I gradini per arrivare alla casa sono bassi, poi si fanno molto ripidi, a questo modo si raggiunge Monteverde sopra le antiche mura e di lì la porta intestata a Santa Caterina. Addossato alla casa c’è un sedile, da come è fatto si potrebbe risalire a quando venne fatto, se è metà Novecento o prima o dopo. Non so se raggiungere la casa e stare un poco su quel sedile. Rivedo Luigi dodici anni fa. Incamminarmi, ora, con questo ricordo tanto intenso nella mente, sarebbe un poco disattendere quel suo attendermi di allora, su in alto alla costa del Brunforte.

 

[Immagine: Luigi Di Ruscio, foto di Ennio Brilli].

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