di Luigi Socci

 

[Dieci anni fa, il 23 febbraio 2011, moriva a Oslo Luigi Di Ruscio, nato a Fermo nel 1930. Lo ricordiamo con due post. Il secondo è una recensione di Luigi Socci di Poesie scelte (1953-2010), uscito nel 2019 per Marcos y Marcos, a cura di Massimo Gezzi. La recensione è uscita su «Semicerchio», LXII (2020/1)].

 

È passata ormai una ventina d’anni (lustro più, lustro meno) da quando alcuni dei maggiori editori italiani tentarono, con furore millenarista (ed alterne vicende e fortune), di fare il punto sul “canone” del nostro secondo ‘900 poetico. Pur nella diversità di prospettiva critica e di criteri adottati (oltre che di inevitabili logiche di scuderia e d’altrettanto ineludibili pregiudizi ideologici), le tre maggiori imprese, e cioè l’einaudiana “Dopo la lirica” (2005) a cura di Enrico Testa, “La poesia italiana dal 1960 ad oggi” a cura di Daniele Piccini (Rizzoli, 2005) e persino la più ampia e ambiziosa (due volumi per quasi 1500 pagine) “Poeti italiani del secondo Novecento” a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (Mondadori, I Meridiani, 1996 poi Oscar, 2004) concordano, quasi in un’involontaria conventio ad excludendum, nel rimuovere dal proprio orizzonte ricognitivo il ben poco canonico e canonizzabile Luigi Di Ruscio. Eppure, dopo vent’anni, e forse proprio in virtù di questo stigma d’irregolarità per eccellenza, la figura del poeta marchigiano (Fermo, 1930-Oslo, 2011) riemerge con costante regolarità, fuori dai giochi fatti delle classificazioni e delle tendenze presunte, conquistando nuove generazioni di lettori scarsamente interessati alle validazioni accademiche ma affascinati, invece, dalla personalità anomala e non conforme, più vicina al culto (se non addirittura al mito) che al programma d’esame.

 

Un certo ruolo, in tale percezione, deve aver certamente giocato l’interessamento di un fan d’eccezione come Ascanio Celestini che in più di un’occasione ha prestato la propria voce, dal vivo e in video, ai versi del poeta fermano, oltre che almeno tre ragioni di natura extra-letteraria: il fascino esercitato dalla sua condizione di autodidatta (con il solo diploma di quinta elementare in tasca, ma dalle infinite letture successive), di militante comunista (con venature anarchiche) e di poeta-operaio (definizione che il recensore varierebbe volentieri in “poeta e operaio”) impiegato per quarant’anni in una fabbrica metallurgica norvegese o, come affermava egli stesso con evidenti finalità d’accrescimento espressivo, in una “fabbrica di chiodi”. Dopo Firmum (Pequod, 1999), sua prima storica e magmatica antologia e dopo le Poesie operaie curate dal concittadino Angelo Ferracuti e pubblicate, non a caso, per le edizioni Ediesse della Cgil, questo terzo sforzo antologico, curato da Massimo Gezzi e introdotto da Massimo Raffaeli (uno dei massimi esegeti del nostro) è il più completo tentato finora e, probabilmente, quello destinato a maggior successo editoriale, vista la buona distribuzione che l’editore Marcos y Marcos sta garantendo alla collana Ali, diretta da Fabio Pusterla, nella quale il volume vede la luce.

 

Diciamo subito, come già il curatore nella nota esplicativa, che i diruscisti di stretta osservanza in attesa dell’opera omnia (difficilmente contenibile dal migliaio di pagine) dovranno accontentarsi di un’agile (si fa per dire) selezione di non più di un terzo. La responsabilità della scelta, condivisa con l’autore fino a un certo punto (cioè fino alla sua scomparsa) è stata poi assunta in proprio da Gezzi stesso, che ha dovuto ridurre ulteriormente il campionamento iniziale seguendo criteri via via diversi. Rilevante la presenza di testi estratti dalla prima seminale plaquette, quella Non possiamo abituarci a morire (Schwarz, 1953) nella quale il giovane prefatore Franco Fortini riconosceva già, oltre all’influenza del Pavese di Lavorare stanca (ammessa peraltro da Di Ruscio stesso, insieme a quella del primo Ungaretti), un’autenticità in grado di elevarla rispetto al contenutismo informe e ricattatorio di tanto neorealismo di maniera. Autenticità dovuta a precise risorse espressive consistenti in gergalismi regionali, anacoluti, calchi dall’oralità, mutamenti di genere e lapsus neologistici, più o meno volontari, che lo distanziano da altre esperienze del neorealismo (come quelle di uno Scotellaro, di un Matacotta o di un Majorino) di cui rappresenta però, allo stesso tempo, uno dei massimi risultati. A patto naturalmente che si condivida l’idea che il miglior neorealismo contenga (come già nel cinema) i germi del suo stesso superamento. A tale “superamento” (o potenziamento che dir si voglia) contribuiscono, in una direzione che si può definire tranquillamente espressionistica, una serie di marchi di fabbrica che la cinquantennale produzione successiva del poeta (dal secondo libro già norvegese d’adozione) non farà altro che riconfermare. Come se il distacco dall’Italia degli anni ’50 (e dalla sua lingua parlata) ne avesse cristallizzato alcuni aspetti donandogli una coerenza singolarmente duratura. Una scarsa propensione all’astrazione metaforica, ad esempio, o la rinuncia alla metrica tradizionale in favore di un verso libero, più ritmico e percussivo che “melodico”, quasi sempre autosufficiente a livello semantico. Così come l’economia della punteggiatura, ridotta (quasi) esclusivamente al punto a fine testo. O ancora il rifiuto della complessità sintattica in favore di un accumulo di semplici coordinate che favoriscono i toni dell’invettiva, dell’epica (anche eroicomica) e addirittura di una sentenziosità di sapore biblico e oracolare.

 

Così nel successivo Le streghe s’arrotano le dentiere, del 1966, qui generosamente antologizzato con ben 43 testi che spaziano da trasfigurati e apocalittici ricordi marchigiani ad alienazione da catena di montaggio. Questa volta l’illustrissimo prefatore è il Premio Nobel Salvatore Quasimodo, che parla di maledettismo da scapigliato tenue, di tracce di futurismo majakovskijano e specialmente di “avanguardia nel senso positivo (…) per la fede nell’attualità e per la violenza del discorso”. Di avanguardia discorre anche Di Ruscio all’interno del libro, in uno dei non rari esempi di riflessione metapoetica (che dimostrano un contatto continuo, ancorchè a distanza, con i fatti letterari nostri) dedicandole, però, sprezzanti versi come questi: “buttarsi nelle nuove avanguardie/a raccontare storielle confuse per far profondi incanti banali” (in Il significato di essere poeta). Saranno invece proprio le più accorte, tra le nuove avanguardie, ad interessarsi nel decennio successivo alla sua opera (Antonio Porta lo includerà, per Feltrinelli, in un’antologia dedicata alla poesia degli anni ‘70) e le sue due raccolte del periodo e cioè Apprendistati (1978) e Istruzioni per l’uso della repressione (1980), entrambe ben documentate dall’antologia in oggetto, risentono di quel clima, almeno a un livello visivamente formale. Come risulta, anche solo a una rapida occhiata, dalla soppressione completa della punteggiatura e delle maiuscole e dall’ulteriore allungamento dei versi a fisarmonica, che raggiungono dismisure sillabiche paragonabili a quelle di certi esperimenti coevi e successivi di Elio Pagliarani. Dismisure che solo la stampa in orizzontale permette di apprezzare al meglio del loro aspetto da blocco materico. Scrive a tal proposito Di Ruscio, in un altro frangente autobiografico e autoriflessivo: “non ho fatto che saldare fili di ferro da sei millimetri di diametro/non so neppure a che serviranno questi versi che diventano sempre più lunghi”.

 

L’antologia si conclude con le due raccolte uscite nel nuovo millennio e cioè L’ultima raccolta (Manni, 2002) dalla quale, però, l’autore decide di espungere completamente le parti in prosa deprivandola della sua natura di prosimetro e l’effettivamente ultima L’iddio ridente (Zona, 2008) in cui le super-stringhe verbali, come dopo un massimo di tensione elastica, si accorciano drasticamente contraendosi fino a “tornare” a ordinarie misure sillabiche, guadagnandone in tonalità sapienziali, epigrammatiche ed epigrafiche, quando non addirittura lapidarie (“e alla fine delle composizioni/come sbattendo il coperchio/di una cassa da morto/per chiudere tutto”). Una considerazione, infine, sul modo di operare di Di Ruscio in vista dell’allestimento dell’antologia. Considerando la propria opera, anche quella contenuta nei suoi libri più lontani nel tempo, come un cantiere atemporale perennemente aperto (o magma non ancora finito di freddarsi), il poeta ha compiuto scelte, ratificate dal curatore, che si profilano già come rompicapo da filologi. Al netto di tagli, micro-spostamenti, assestamenti degli a capo e riduzione di testi lunghi a più concisi e autonomi frammenti, due interventi risultano particolarmente eclatanti. Il primo è l’alterazione dell’ordine cronologico dell’originale sequenza di pubblicazione che dà, come risultato, l’anteposizione della (bellissima) raccolta Enunciati (del ’93, curata da Eugenio De Signoribus), situandola alle spalle dei libri degli anni ’50 e ’60 per ragioni di affinità tematica. Il secondo, intratestuale, riguarda un testo in particolare proveniente da Apprendistati del ’78 (e ancora lì, al n. 50 del nuovo volume) in cui si parla (probabilmente) della repressione poliziesca degli anni di piombo e al quale aggiunge ora, interpolando invasivamente, un chiaro riferimento a Carlo Giuliani e ai fatti di Genova del 2001: “invece di vedere la televisione ci fu un istante che fui visto da tutti/a Genova disteso e massacrato dalla polizia di stato”. In un bizzarro effetto di sincronia temporale da buco nero della storia. Bizzarrie che non pregiudicano l’eccellenza e l’utilità dell’operazione, rafforzata dal collocamento in una collana dedita a scommesse e riscoperte per un autore che le rappresenta entrambe, riscoperta e nuova scommessa insieme. Unico (piccolo) neo, dovuto più all’idiosincrasia personale del recensore che a un difetto effettivo: il formato. La mancata profondità della pagina (a fronte di un font un po’ grandino) impedisce, specialmente nelle raccolte degli anni ’70-’80, di godere di tutto lo slancio dei lunghissimi versi che, in questo caso, tendono a “rimbalzare” sul margine destro, dando più un’impressione di “matassa” che di fisarmonica aperta al massimo dell’estensione.

 

[Immagine: Luigi Di Ruscio, foto di Ennio Brilli].

1 thought on “Sulle “Poesie scelte (1953-2010)” di Luigi Di Ruscio

  1. se esiste una categoria di grandi poeti “esclusi”, del secondo Novecento italiano, direi Di Ruscio, Bordini, Mesa.

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