di Orsetta Innocenti

 

Ho ricevuto da mio padre un’educazione marxista. Per questo, le parole “tutto è economia” hanno risuonato nella mia testa da che ero molto piccola. E sono stata abituata a legare questo concetto alla necessità di dare a ciascuno secondo dei bisogni (economici e sociali) che dovrebbero farsi diritti.

Vorrei provare, da questo osservatorio, a riflettere su che cosa ha significato questo anno di distanza per gli indirizzi tecnici, professionali e di istruzione e formazione professionale delle scuole di secondo grado, in termini di diritti affievoliti e di doveri contrattuali (economici, educativi e dunque sociali) non garantiti pienamente dallo Stato, per una categoria molto precisa di studentesse e studenti. Spero in questo modo di poter offrire alcuni spunti al dibattito sul “tempo perso” con la didattica a distanza e sulla conseguente opportunità o meno di strutturare forme (debitamente contrattualizzate, tra tutti i soggetti) di recupero.

 

L’appello di Condorcet, fatto proprio e rilanciato, oppure contrariamente argomentato, da novembre 2020 a oggi, da associazioni, docenti, forze politiche, sindacati, ha posto l’accento su una questione a mio avviso inequivocabile e che, sempre a mio avviso, sarebbe molto opportuno evitare di affrontare attraverso la seduzione (comprensibile e a suo modo anche paradossalmente ineludibile, tanto più nella situazione di malattia, fragilità psicologica e convalescenza permanente in cui si trova imprigionata da 12 mesi la società tutta) dell’individualismo emotivo. In questo, terzoviista per natura prima ancora che per metodo (e pur consapevole dei rischi di nicodemismo che la terza via sempre comporta), confesso di non essermi riuscita a riconoscere in nessuno dei due schieramenti che hanno dibattuto con una veemenza che mi pare comunque di per sé un dato positivo (mai si è parlato così tanto e in maniera così urgente della rilevanza della scuola nelle nostre vite). Che il tempo impiegato nella didattica a distanza, su richiesta del datore di lavoro (il Ministero), non possa in alcun modo definirsi “perso” mi pare lapalissiano, così come lapalissiano è, del resto, che questo tempo non perso abbia contribuito a rafforzare, talora aprendole, voragini di disagi a ogni livello.

 

Mi pare allora che una analisi della situazione sub specie di diritto e economia possa aiutare a depurare la questione da alcune delle sue sovrastrutture.

Partiamo dal dato di base. Di fronte a uno stato di emergenza sanitaria cogente, a partire dal 5 marzo 2020 un altro diritto di rango costituzionale ha subito delle modifiche di fruizione strutturali e rilevanti. Attraverso una serie di decreti legge, ordinanze e note (a partire dal DL 22/2020) prima, e con una disciplina contrattuale in seguito (tardiva e imparaticcia, ma che tuttavia adesso esiste: contratto DDI 06/11/2020), lo Stato, nella declinazione del MI, prima unilateralmente, poi con un accordo (monco) con le parti sociali, ha ridefinito i mezzi con i quali erogare una prestazione contrattuale (educazione e istruzione dei discenti) secondo un contratto (appunto) che disciplina prestazione lavorativa, orario, conseguenti emolumenti. Se questa prestazione è stata erogata secondo i vincoli del contratto, nulla deve il lavoratore, e nulla spetta a chi ha fruito della prestazione, in termini di restituzione del servizio. Qualora questo non fosse accaduto (di qui la necessità di depurare il dibattito dall’emotività individuale), la parte lesa procederà nel chiedere il proprio giusto diritto al risarcimento, con inchieste relative alle singole inadempienze che faranno il loro corso.

 

Se questa ricostruzione dei fatti è veritiera, nello stesso tempo il buon senso, e prima ancora il senso dell’umorismo, ci ricordano che questa verità non fotografa però il sistema per intero che, anzi, a uno sguardo più ampio, restituisce un quadro assai più problematico e sfumato. È per restaurare le tessere saltate da questo quadro – talora pezzi interi di dipinto – che è necessario allora integrare, pur senza sostituire, questo ragionamento con altre prospettive.

È quello che hanno fatto in moltissimi, sin dal marzo 2020 scorso, a partire dall’esperienza comune che fa verificare a chiunque abiti la scuola come la didattica a distanza, così come questa scuola in presenza – quando anche sia messa in atto con ogni consapevolezza, rigore metodologico, passione, assenza di vincoli pratici, sociali ed economici, vocazione alla prossimità – rispetto a tutto ciò che siamo abituati a considerare “didattica”, presenti viceversa vincoli pedagogici invalicabili e oggettivi. Da questa stessa constatazione è del resto partito l’appello del gruppo di Condorcet che tanto ha fatto discutere: «La didattica a distanza di questi mesi è uno strumento di emergenza, che ha permesso, grazie all’impegno e alla professionalità di molti docenti e dirigenti, di alleviare la sofferenza del sistema di istruzione, ma non è adeguata per periodi prolungati»[1].

 

Sono considerazioni che, in linea argomentativa generale e teorica, molto difficilmente ci si può rifiutare di sottoscrivere. Prima di procedere nel mio ragionamento (e di tornare all’educazione marxista) vorrei dunque spiegare quali sono i punti dell’appello che non mi hanno convinto.

Partiamo dalla proposta di ampio respiro. Un calendario nuovo per la scuola italiana mi vede di principio assolutamente favorevole: l’approccio ‘alla francese’ ha in questo molti punti forti, e risulterebbe probabilmente idoneo a una organizzazione sociale che è cambiata molto, dal tempo in cui fu modulato il calendario italiano sull’estate libera. Si tratta però di un cambiamento strutturale sia per la scuola, sia per la società che – proprio per questo – non può essere ‘lanciato’ in emergenza, come sempre tutto a scuola, tre mesi prima per tre mesi dopo, ma introdotto in maniera armonica, annunciata, condivisa, coi suoi dovuti tempi lunghi di assimilazione e comprensione per tutti: diciamo oggi per il 1 settembre del 2022.

 

La seconda perplessità – strettamente connessa al primo punto – riguarda la mia diffidenza metodologica per i cambiamenti strutturali in corso motivati dall’urgenza. Si tratta di un modus operandi che, nel campo dell’istruzione e formazione pubblica, mi sono trovata a subire troppe volte prima da studentessa e poi da lavoratrice del settore, tutte percepite con una violenza pari solo alla inutilità di quella stessa emergenza urlata. In questo mi pare che l’appello rischi di trascurare altre situazioni altrettanto emergenti (fuori e dentro la scuola): settori interi di organizzazione scolastica e della società per i quali un cambiamento del genere ad anno in corso comporterebbe una rimodulazione onerosa e complessa di lungo e difficile respiro (considerando che nel mezzo restano la pandemia, la campagna vaccinale, la condizione della scuola pre e intra pandemia e molto altro ancora) per il quale non basta dire (come è scritto): «Ci sono mille problemi tecnici e organizzativi, ma dobbiamo farlo» a mo’ di soluzione.

Vi sarebbe poi un terzo punto sul quale mi soffermo solo di sponda, perché in realtà poco mi interessa, che potrei definire ‘di retorica e stilistica’. Per quanto dagli estensori sia stato chiarito abbondantemente che non fosse questo l’intento (e io ne sia, per quel che vale, convinta), iniziare un appello sul recupero della presenza con le parole «non perdiamo altro tempo» e poi di nuovo, in neretto, dopo una ventina di righe «recupero del tempo scuola perso» non si è (prevedibilmente) rivelata una strategia retorica vincente a evitare le polemiche.

 

Infine, in ultima e più vincolante analisi, l’appello di Condorcet non mi convince perché è a costo zero; proponendo di rimodulare l’esistente, avalla per l’ennesima volta il principio che a scuola si possa fare sempre pazientemente tutto come nei romanzi di Louisa May Alcott: mettendo toppe tra le cuciture, usando, mezzo per uno, l’unico paio di guanti buoni, rivoltando vestiti vecchi. E invece, specie in tempo di Next Generation EU, mi pare sia proprio questa, e non un’altra, la stagione di dire che, se si parla di fichi secchi, la scuola italiana tutta ha finito la pazienza residua per farseli bastare.

Sic stantibus rebus, il problema resta però aperto. Abbiamo un corpo docente che, mediamente, ha recepito i cambiamenti contrattuali imposti dal proprio datore di lavoro (lo Stato) e si è adoperato per fornire il servizio alle nuove condizioni previste; abbiamo un corpo studentesco provato e privato, da un anno di scuola ‘altra’, da e di tante cose. Come mettere insieme due istanze apparentemente concorrenti?

 

La risposta si può trovare, a mio avviso e di nuovo, ripartendo dal quadro contrattuale. Vi sono infatti in realtà categorie intere di studenti e studentesse per i/le quali lo Stato si trova, a prescindere da ogni altra considerazione, in una condizione di positiva inadempienza. Mi riferisco agli/alle alunni/e degli indirizzi tecnici, di quelli professionali, agli indirizzi di formazione e istruzione professionale: a tutti quei casi, insomma, per i quali il quadro orario dei servizi offerti dall’istruzione pubblica prevede un cospicuo numero di ore laboratoriali molto specifiche e ordinamentali – in alcuni casi (penso all’istruzione e formazione professionale regionale) talmente specifiche che il percorso non prevede nemmeno un diploma di Stato, in uscita, ma appunto, ed esclusivamente, una qualifica professionale. Non si tratta di poche ore: nei trienni di questi indirizzi si tratta di circa 1/3 delle ore complessive, ore che si insegnano dentro luoghi e con l’ausilio di strumenti complessi (officine meccaniche, laboratori chimici di alto livello, gabinetti estetici e di massaggio, cucine professionali, piani bar, serre agricole – tutti elementi che, non è questione di collegamenti, devices, provenienza sociale, a distanza semplicemente non esistono), erogate, peraltro, da insegnanti tecnico-pratici esplicitamente dedicati.

 

Queste ore, dal 5 marzo 2020, hanno subito, per tutti/e questi/e studenti/esse, un rallentamento prima totale, poi parziale, poi randomico (penso alla «possibilità» di effettuare per non più del 25% complessivo attività laboratoriali ordinamentali giudicate essenziali prevista a partire dal DPCM del 03/11/2020, che ha rovesciato sull’autonomia scolastica una decisione che non poteva che essere sistemica, mettendo in dubbio, tra l’altro, il valore vincolante dei laboratori di indirizzo per tipologie di scuole che vedono nelle attività pratiche specifiche la loro carta di identità peculiare). E pertanto di queste ore, previste e promesse chiaramente a questi/e stessi/e studenti/esse al momento della loro iscrizione, lo Stato, se non sono state erogate, è formalmente debitore, un debito che si concretizza in maniera tanto più pesante quanto più si considera che gli indirizzi dei tecnici e dei professionali prevedono, al termine, con il titolo di studio, una perizia, vale a dire la possibilità di lavorare nel settore per il quale si è studiato direttamente dopo la scuola, grazie al proprio diploma professionalizzante, senza un completamento di formazione universitaria.

 

È per loro innanzi tutto, dunque – prima e a prescindere da ogni considerazione sul tempo della ‘socialità scolastica’ o di discorsi generali su manchevoli “apprendimenti” – che la pubblica istruzione deve modulare un sistema di risarcimento per la formazione non ricevuta, tenendo sempre presente che questo difetto di formazione non è avvenuto per mancanze del lavoratore, ma per condizioni avverse che, in quanto tali, necessitano di un prolungamento/rimodulazione dei contratti. È necessario dunque prevedere, là dove si individuino casi specifici di positiva mancata erogazione di un servizio educativo specifico, non corsi straordinari a pagamento secondo la prassi consueta di un ‘normale’ recupero, ma vere e proprie partite stipendiarie, per le ore stabilite, per la restituzione del tempo sottratto alle materie di indirizzo laboratoriale. Partite stipendiarie significa, appunto, una prosecuzione/rimodulazione integrale di contratto, che come tale prevede acquisizione extra (sia per il tempo indeterminato, sia per quello determinato) di anzianità, contributi, ferie, malattie, diritti: tutto quello che è necessario per incardinare una professionalità a tutto campo e l’erogazione di un servizio completo.

 

Una impostazione di tal genere consentirebbe, a mio avviso, di uscire dall’ottica dell’’anno scolastico da buttare’, così come dalla retorica del ‘io e i miei studenti non abbiamo perso tempo’, sottraendo il dibattito sul diritto alla formazione da un abuso di aggettivi possessivi (i ‘miei’ alunni, la ‘mia’ classe) che proietta il discorso sulla scuola in una totalmente comprensibile, ma defatigante, ottica ego-emotiva. Proprio per questo, per motivi di praticità e semplicità organizzativa, dovrebbe essere possibile prevedere che gli insegnanti (supplenti o di ruolo) assegnati alle classi per questo anno scolastico delle materie da integrare possano esprimere un diritto di opzione a essere i primi destinatari della offerta di contratto; se costoro non dovessero avvalersi dell’opzione, il contratto sarà semplicemente offerto a altri professionisti dell’istruzione: una disposizione integrativa disposta non da me insegnante per le mie classi, ma dallo Stato per gli studenti e per le studentesse italiani/e. Questo consentirebbe anche di superare, almeno in parte, le considerazioni sul tempo scuola estivo, così come sull’impiego dei docenti per gli esami, perché andrebbe a delimitare un quadro orario più breve, e dunque più gestibile quanto a luoghi didattici, tempistiche, esigenze organizzative.

 

In questa mia riflessione, ho scelto chiaramente i modelli più facili, per argomentare la mia visione su un recupero che sento insieme, per alcuni casi ben specifici, come necessario, ma non dovuto, e da maneggiare con cautela: è su questo sguardo che è possibile, sempre partendo da oggettive inadempienze statali in termini di erogazione del servizio, allargare la proposta anche ad altri ordini o gradi. È lo stesso motivo per il quale, l’ho già detto all’inizio, sono viceversa molto scettica su contro-argomentazioni all’idea del tempo perso che passino attraverso l’evocazione della perdita della socialità, dello stare insieme, di tutto quello cui rinuncia, oggi, anche la scuola in presenza. Non perché non siano cose vere, anzi. Non perché non siano elementi strutturali del tempo scolastico, anzi. Ma perché, nonostante tutto, ritengo che ne siano non lo scopo primario, ma una condizione di apprendimento. Non ho mai creduto ai compiti delle vacanze sul modello “accoccolati ad ascoltare il mare”: se ho ritenuto, alcune volte, di non assegnare lavori nelle pause didattiche, semplicemente, non li ho assegnati, lasciando i miei studenti e le mie studentesse liberi/e di guardare o non guardare il tramonto. Proprio per questo, non ho alcuna intenzione – dopo che sono stati/e costretti/e a trascorrere in mia compagnia il tempo a casa e a scuola, mattino, pomeriggio e sera, dallo scorso 5 marzo – di costringerli/e, a meno di una oggettiva esigenza di restituzione di un servizio, a vivere insieme a me, pure d’estate, oltre la scadenza stabilita dal calendario regionale debitamente approvato lo scorso anno, la brutta parodia di una canzone di Claudio Baglioni.

 

[1] Cfr. l’appello Non perdiamo altro tempo proposto dal gruppo Condocet: http://condorcet.altervista.org/non-perdiamo-altro-tempo-salviamo-il-futuro-dei-nostri-studenti/ (u.c. 21/02/2021).

4 thoughts on “Figli di una scuola minore: la “distanza” nei tecnici e nei professionali

  1. Agostino Casu: credo che, come scrivevo, una ottica ego-emotiva sia inevitabile, non vi è giudizio, anzi, nella mia descrizione. Solo la consapevolezza che proprio per questo per affrontare alcune questioni sia opportuno cercare di adottare una prospettiva che contenga in sé dei correttivi.

    Simona Micali: innanzi tutto grazie. Che poi, io ho parlato di diritti di formazione non ricevuti da parte di studenti e studentesse, ma va da sé che questo poi si riverbera su una limitazione per la società tutta, perché che escano periti meno formati dalle scuole tecniche, professionali e di istruzione e formazione professionale è un danno per tutti e tutte, indistintamente, non solo una lesione formativa per chi aveva diritto di ricevere quella formazione.

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