[E’ morto ieri Lawrence Ferlinghetti (1919-2021). Per ricordarlo, riproponiamo questo articolo uscito il 24 marzo 2019, giorno in cui Ferlinghetti aveva compiuto cento anni.

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Oggi Lawrence Ferlinghetti compie cento anni. Per omaggiarlo, pubblichiamo la nota che Marco Cassini ha scritto per Scoppi urla risate, la raccolta di poesie di Ferlinghetti appena pubblicata da Sur per la traduzione di Damiano Abeni, da cui sono tratte le due poesie in coda. In questo post compaiono anche alcune bellissime foto di Eric Toccaceli, che ringraziamo molto, amico e fotografo di Ferlinghetti e curatore di Un’avventura d’amore, appena pubblicato da Pulcinoelefante, e di Ferlinghetti cento, viaggio in Italia, in uscita per Stampa Alternativa a fine marzo. In copertina, qui sopra, un’opera offerta a Ferlinghetti per i suoi cento anni da Luciano Ragozzino e inclusa in One Hundred Years, un libretto edito da Il ragazzo innocuo, sempre a cura di Eric Toccaceli].

 

Ferlinghetti nel 2010. Foto e copyright di Eric Toccaceli

 

 

Nota a Scoppi urla risate (Edizioni Sur 2019)

di Marco Cassini

 

Scorrendo la bibliografia italiana di Lawrence Ferlinghetti si potrebbe dire che l’andamento della sua fortuna editoriale assomigli alla silhouette del Cyclone, le iconiche montagne russe di Coney Island a Brooklyn, un luogo letterariamente caro al poeta di origini bresciane.

 

Tra l’esordio del 1955 (Pictures of the Gone World) e la prima traduzione nel nostro paese, del 1968, passarono tredici anni di silenzio assoluto, nonostante fossero quelli della grande notorietà internazionale dell’autore, al centro del fenomeno della Beat Generation.

 

Nei tredici successivi, arrivarono da noi sei titoli: un romanzo (Lei, Einaudi), un diario (Notte messicana, Newton Compton) e, per Guanda, una raccolta di testi teatrali (Tremila formiche rosse) e due libri di poesie dai contenuti in parte coincidenti (Coney Island della mente e Poesie), oltre a Smoking Grass Reverie, una plaquette in tiratura limitata per le Edizioni East 128, fondate da Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass.

 

Passarono altri tredici anni e quando, nel 1994, lo incontrai per intervistarlo per il manifesto, in occasione di un suo viaggio a Roma per un premio letterario, l’editoria italiana si era già dimenticata di lui. Nessuno di quei titoli era più disponibile, non c’erano state altre traduzioni, e Lawrence Ferlinghetti era di fatto assente dai cataloghi dei nostri editori e dagli scaffali delle nostre librerie.

 

Quell’incontro, dettato principalmente da una curiosità personale (avevo iniziato a leggere le sue poesie all’inizio degli anni Novanta, e partendo dalla sua opera mi ero interessato successivamente a Ginsberg e Kerouac, alla controcultura americana, alla Summer of Love di San Francisco del 1967, e soprattutto alla sua figura di intellettuale, editore, catalizzatore di idee e persone), in qualche modo cambiò la mia vita. Sembra un’esagerazione? Potrebbe esserlo, ma nelle prossime righe proverò a spiegarvi perché non lo è affatto.

 

Ferlinghetti con Mario Verdone, 1996. Foto e copyright di Eric Toccaceli.

 

All’epoca Ferlinghetti aveva settantacinque anni, io meno di un terzo della sua età e avevo appena fondato una strana rivista letteraria. Nel presentarmi gli raccontai della particolarità di aver creato una piccola pubblicazione che mensilmente mandava poesie via fax (sul numero zero, del febbraio 1993, ero riuscito a pubblicare testi inediti di Maria Luisa Spaziani e Amelia Rosselli) oltre a recensioni, interviste e brevi racconti: se ne interessò subito, mi chiese curioso da dove arrivava l’idea, come facevo a spedirla ai lettori, di quante pagine era composto ogni numero. Terminata l’intervista, superata a stento l’emozione di essere al cospetto di una leggenda vivente e trovato il coraggio di chiedergli una poesia per uno dei numeri successivi di minimum fax, lui mi promise divertito che me l’avrebbe mandata al suo rientro a San Francisco, ovviamente via fax.

 

Quando, mesi dopo, decisi di ricontattarlo, la mia rivista era diventata qualcosa di più: organizzando dei corsi di scrittura e di traduzione, avevo allargato la cerchia di collaboratori, e insieme si era deciso di provare la pubblicazione di qualche libricino dedicato alla critica letteraria: interviste con autori e saggi sul mestiere di scrivere. A inizio 1995 si preparava la partecipazione al Salone del Libro di Torino, il cui tema era «95%», una ricognizione antologica di cosa era stato il Novecento fino a quel momento. Proposi a Paolo Verri e Beniamino Placido, che allora dirigevano il Salone, di organizzare un evento sulla Beat Generation: aderirono Fernanda Pivano (che per motivi di salute non appariva in pubblico ormai da diversi anni) ed Emanuele Bevilacqua (che aveva da poco pubblicato per Theoria una Guida alla Beat Generation). Tentai il colpaccio e telefonai alla City Lights, la libreria fondata e diretta da Ferlinghetti a San Francisco; me lo passarono e lo invitai. Rispose: «Sono vecchio e, da editore, di fiere del libro ne ho fatte a centinaia, ormai ci vado solo se devo presentare un mio libro». Colsi l’assist al volo: «E se lo pubblicassi io? Sai che di tuo non si trova più niente in italiano?» Detto fatto, due giorni dopo mi arrivò un lunghissimo fax, una trentina di poesie tutte dedicate all’Italia, ai nostri luoghi e ai poeti che aveva frequentato. Il titolo lo decidemmo al telefono, sarebbe stato Scene italiane. Gli chiesi del contratto, del compenso, e lui: «Ma che compenso, ma che contratto! Mandami cinquanta copie del libro così lo vendo qui a City Lights, e siamo a posto». A Torino, prevedibilmente, non venne, ma allo stand di minimum fax ecco il tascabile che inaugurava la collana «Sotterranei» (titolo dal sapore beat scelto in una serata all’enoteca Cavour 313 di Roma con Bevilacqua) e che decretò finalmente il ritorno di Lawrence Ferlinghetti nelle librerie italiane.

 

Ferlinghetti con Damiano Abeni. Roma, 1997. Foto e copyright di Eric Toccaceli

 

Quanto a me, in che modo una piccola raccolta può aver cambiato la mia vita? Quello fu il primo libro di letteratura americana che scelsi di pubblicare. Senza che fosse programmato, la mia specializzazione di editore, e la mia passione di lettore, per un moto quasi naturale, divennero proprio la letteratura dagli Stati Uniti, e a partire proprio da quel libro.

 

L’anno successivo feci il mio primo viaggio a New York (grazie a un’agendina ricchissima messa insieme con l’aiuto di Ferlinghetti e Pivano, incontrai Paul Auster, Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, Bret Easton Ellis, Jay McInerney, Susan Sontag…); da allora ci sono tornato così tante volte da aver poi deciso di affittare un appartamento a Brooklyn, meta di amici italiani in visita. Quando ho aperto una nuova casa editrice, SUR, specializzata in letteratura latinoamericana, e successivamente si è deciso di inaugurare una collana angloamericana, il nome non poteva che essere nuovamente beat: BIG SUR, tratto selvaggio della costa della California e destinazione di un indimenticabile viaggio che feci in macchina con Lawrence e la sua socia Nancy Peters: qui infatti, presso il Bixby Canyon, nel cuore di una riserva naturale, il poeta ha un piccolo bungalow senza luce e senza corrente, dove Jack Kerouac si rifugiò dopo lo sconquassante successo di On the Road e scrisse il suo romanzo di ambientazione californiana. Quel giorno Ferlinghetti mi raccontò di come, e perché, ­Kerouac durante quel periodo non riuscì mai a incontrarsi con Henry Miller (altro assiduo frequentatore di Big Sur); mi fece assaggiare le ostriche gratinate che non avevo nemmeno idea esistessero; mi parlò di quella volta che, in macchina sulla strada costiera a pochi passi da lì, pensò di morire, perché alla guida c’era quel pilota folle di Neal Cassady; e snocciolò una serie di storie che ascoltavo tra il rapito e l’incredulo: dalla sua partecipazione allo sbarco in Normandia al momento in cui, mettendo piede a Nagasaki venti giorni dopo la bomba e vedendone di persona gli effetti devastanti, divenne «istantaneamente» un convinto pacifista. Poi passò agli aneddoti di cui probabilmente sapeva che la mia immaginazione era più ghiotta, quelli letterari: dal processo per oscenità che dovette subire per aver pubblicato Howl di Allen Ginsberg allo stato rovinoso in cui trovò l’appartamento in cui era ospite Charles Bukowski il giorno del suo reading alla libreria City Lights per la pubblicazione del libro dal titolo lunghissimo Erections, Ejaculations, Exhibitions, and General Tales of Ordinary Madness (in italiano accorciato e «normalizzato» in Storie di ordinaria follia) al furto che Gregory Corso, sempre spiantato e senza soldi, fece proprio ai danni del suo editore irrompendo di notte alla City Lights e portandosi via i soldi della cassa (che si andò prontamente a spendere in vino all’adiacente Vesuvio Café). Quel giorno mangiammo panini e commentammo come per entrambi fosse stato strano crescere senza mai aver conosciuto nostro padre; gli espressi stupore divertito per il messaggio che il giorno prima mi aveva lasciato nella cucina del suo appartamento di Francisco Street a North Beach (mi diceva di fare come se fossi a casa mia mentre lui andava prima un’ora in piscina e poi a fare jogging; il tutto a quasi ottant’anni). Lui mi disse di essere onorato che il sindaco di San Francisco gli avesse dedicato una strada mentre era ancora in vita, ma confessò che non era un onore paragonabile alla creazione da parte del programma televisivo Sesame Street del personaggio Ferlinghetti Donizetti (di cui mi mostrò poi a casa il pupazzetto). E, infine, come succede ogni volta che due editori parlano del proprio mestiere, ci chiedemmo quanto sarebbe durata la nostra impresa (concordando che non avremmo smesso mai).

 

Ferlinghetti presso la Libreria Rinascita, Roma (1997). Foto e copyright di Eric Toccaceli

 

Tornando alla questione bibliografica, a Scene italiane seguirono parecchie pubblicazioni per la mia casa editrice: con sette titoli, la sola minimum fax tra il 1995 e il 2000 tradusse Ferlinghetti più di quanto aveva fatto tutta l’editoria italiana nei quarant’anni precedenti. Grazie anche a questa riscoperta e alle frequenti visite dell’autore in Italia per promuovere le nuove uscite, si ridestò l’interesse nei suoi confronti da parte dei lettori, e del nostro mercato editoriale; e così i suoi libri entrarono o ritornarono nei cataloghi di Mondadori, Guanda, Newton Compton, Interlinea, L’obliquo e il Saggiatore.

 

Questo piccolo libro è l’ultima raccolta del poeta pubblicata dal suo storico editore statunitense, New Directions, nel cui catalogo compare nella collana dei «poetry pamphlet». Il titolo, oltre a riassumere i temi delle poesie qui incluse, estensivamente potrebbe sintetizzare i temi accolti in tutta la produzione poetica di Ferlinghetti: l’amore per la cultura europea, per i movimenti e le correnti artistiche del Novecento come Dada e surrealismo, per i grandi scrittori del passato (da Dante a Williams, da Pound a Beckett), la passione ecologista, antimilitarista, pacifista, sono sempre espressi con un tono ironico e complice, ma talvolta assumono la forma dell’invettiva. E così, nell’alternanza di urla e risate di tanto in tanto s’intromette uno scoppio (termine usato in omaggio a blast, la rivista pubblicata negli anni Dieci del Novecento da Wyndham Lewis ed Ezra Pound): nel presentarlo, il suo editore americano dice che in questo libro l’autore «parla per i poveri e i dimenticati, gli ultimi e i bombardati».

 

Ferlinghetti a Firenze (1997). Foto e copyright di Eric Toccaceli

 

Quanto a me, sono così felice di tornare a essere l’editore italiano di Ferlinghetti proprio mentre il mondo letterario si prepara a festeggiare il suo centesimo compleanno, da essermi concesso questo inusuale spazio per dichiararlo, invadenza della quale spero il lettore mi perdonerà.

 

Scoppi urla risate è il biglietto d’auguri e insieme la festa a sorpresa che gli abbiamo preparato dall’Italia (la sorpresa l’ha fatta anche lui a noi o, per chi ci crede, il destino: solo dopo aver deciso il titolo italiano insieme al suo traduttore Damiano Abeni, ci siamo accorti che le tre parole compongono un acronimo che corrisponde al nome della casa editrice).

 

Ora tutti zitti, spegniamo le luci e acquattiamoci dietro il divano, la libreria e il vaso della monstera. La festicciola sta per cominciare. Buon compleanno, Lawrence, brindiamo ai tuoi primi, e ai prossimi, cento anni di beatitudine.

 

Ferlinghetti a Pescara (1998). Foto e copyright di Eric Toccaceli

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Due poesie

di Lawrence Ferlinghetti (trad. di Damiano Abeni)

 

L’ULTIMO PADRE NOSTRO

 

Padre nostro che fai arte in cielo
Sia scarnificato il tuo nome
A meno che non cambino le cose
Il tuo regno è venuto e sparito
Sia sfatta la tua volontà
Così in terra come non è in cielo
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Almeno tre volte al giorno
E non ci indurre in tentazione
troppo spesso nei giorni feriali
Ma liberaci dal male
La cui presenza rimane inspiegata
Nel tuo regno di gloria e potenza
E così zia!

 

 

THE LAST LORD’S PRAYER

 

Our father whose art’s in heaven
Hollow be thy name
Unless things change
Thy kingdom come and gone
Thy will will be undone
On earth as it isn’t heaven
Give us this day our daily bread
At least three times a day
And lead us not into temptation
too often on weekdays
But deliver us from evil
Whose presence remains unexplained
In thy kingdom of power and glory
Ah, Man!

*

CON BECKETT

 

Ho sognato di vedere Samuel Beckett stanotte
che attraversava il giardinetto
dietro la scura carcassa cupa
della cattedrale di Notre-Dame
dove le foglie dei marronniers
fremevano sotto la pioggia
Indossava un consunto cappotto di tweed
con il collo tirato su
E ho immaginato che fosse appena uscito
dal Théâtre de la Poche
dove avevano appena messo in scena in francese
la millesima replica di Aspettando Godot
E si è seduto su una panchina bagnata
e fingeva di piangere mentre rideva
e fingeva di ridere mentre piangeva
E io ero seduto lì con lui
sotto i castagni
mon semblable mon frère

 

WITH BECKETT

 

I dreamt I saw Samuel Beckett last night
walking through the little park
behind the dark brooding hulk
of the cathedral of Notre Dame
where the leaves of the marronniers
quivered in the rain
He was wearing a worn tweed coat
with collar turned up
And I imagined he had just come
from the Théâtre de la Poche
where they had just played in French
the thousandth performance of “Waiting for Godot”
And he sat down on a wet bench
and pretended to cry as he laughed
and pretended to laugh as he cried
And I was with him sitting there
under the chestnut trees
mon semblable mon frère!

 

[Immagine di testata: Opera di Luciano Ragozzino].

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