di Simone Giorgio

 

Parlando della scrittura di Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Remo Rapino ha sottolineato in più interviste come per lui la dimensione principale attraverso cui leggere il libro è quella linguistica: «inventare una storia è molto meno complicato che inventare una lingua», ha dichiarato in varie occasioni, ripetendo ogni volta la stessa formula. In effetti, nel romanzo troviamo una lingua del tutto peculiare, capace di trasmettere vivezza senza risultare di comprensione troppo difficile, le deviazioni dalla norma assomigliano quasi a una coloritura locale in un italiano generalmente poco controllato sotto il profilo grammaticale. Non è certo quella che si direbbe una “lettura impossibile”: ci sono termini presi a prestito da diversi gerghi, ma la lingua individuata da Rapino non raggiunge mai i livelli di complessità sintattico-semantica di Gadda; per quanto riguarda il versante del dialetto, la sua presenza non è mai invasiva, quanto giustapposta; non si ha mai l’impressione di leggere in un’altra lingua, come avviene – ad esempio – in D’Arrigo, ma piuttosto sembra di avere di fronte un italiano claudicante, che si appoggia in più occasioni al dialetto. Non è quindi tanto dalla mescolanza di questi elementi linguistici che nasce l’interesse per questo romanzo, quanto dal sistema di ridondanze e rispondenze strutturali che soggiace al testo, sistema messo in piedi proprio grazie a questa partitura linguistica. Leggendo il libro, infatti, si rimane colpiti da una rete di tematiche e di motivi stilistici che si ripetono, ed evidenziano come il lavoro di Rapino sia frutto di una riflessione profonda sulle capacità della forma-romanzo di trattare temi universali attraverso una lingua personale e, così, di riallacciare il privato alla Storia. Per questo, mi pare interessante provare ad analizzare l’opera non solo a partire dai contenuti narrati dal protagonista, ma anche esaminando la struttura stessa del testo.

 

Il romanzo è narrato in prima persona da Liborio Bonfiglio, il «cocciamatte» (ossia il pazzo) del suo paese, che racconta la storia della propria vita. Nato nel 1926, Liborio ha modo di assistere ai principali eventi storici del Novecento: gli ultimi anni del fascismo e la guerra partigiana, l’età della ricostruzione e poi il boom economico, le lotte operaie e la stagione terrorista, il crollo del blocco sovietico e l’avvento del terzo millennio, aperto dall’attentato dell’11 settembre. Rapino non è certo il primo autore a dare la parola a un personaggio caratterizzato dalla follia. Il gesto stesso di sceglierlo come voce narrante rivendica il libro a una tradizione letteraria sui matti che nel XX secolo ha avuto molta fortuna e che è superfluo ripercorrere in questa sede. Ciò che caratterizza il romanzo è la modalità con cui si mette in scena questa pazzia: non si appalesa nelle azioni che Liborio compie nelle varie fasi della sua vita, bensì nel modo in cui il personaggio interagisce col mondo circostante. Liborio è una sorta di animale linguistico: mostra una istintiva e acuta sensibilità al linguaggio altrui, che però non è in grado di possedere con la stessa destrezza dei personaggi con cui ha a che fare; al tempo stesso, ha “orecchio” per i refrain, i motivetti, presta attenzione alle varie fraseologie con cui viene a contatto. Lo dimostra l’abbondanza di leitmotiv con cui Liborio decodifica ciò che gli succede, ripetuti quasi come se fossero cantilene o formule magiche. Se ne possono individuare almeno due tipi. Il primo è di natura quasi sonora: Liborio è in grado di registrare ogni segno acustico delle varie esperienze cui va incontro, dai ribelli partigiani che si dicono l’un l’altro «occhei occhei» durante una sommossa antitedesca al rumore dei macchinari della fabbrica milanese in cui lavora. Questa rete di rimandi, che di volta in volta crea una sorta di contesto sonoro alla vicenda narrata, sembra servire essenzialmente per garantire ritmo e musicalità al racconto di Liborio. Infatti, sebbene consista nella stesura delle sue memorie su di un quaderno, la narrazione ha un chiarissimo impianto orale, e perciò deve poggiarsi anche e soprattutto su artifici tipici delle performance orali: il monologo di Liborio è caratterizzato da un abbondante uso di deittici, ripetizioni, riprese, dislocazioni a sinistra. E non solo: il racconto orale della vita di Liborio è tematizzato nel libro stesso, dal momento che il protagonista è più volte costretto a ripercorrere la sua vita per esporla a un altro personaggio. Anche in questi momenti è spesso sottolineata l’importanza della memoria, e il ruolo dei dettagli ritmici – il ripetersi delle frasi e delle parole, i gesti che li accompagnano – nella costruzione e conservazione della stessa.

 

 Il secondo tipo di leitmotiv è invece quello con cui Liborio sente di fondare la propria identità, sia fisica che psicologica: ripete, come dice che gli ripeteva sua madre, di avere gli occhi uguali a quelli di suo padre; ogni volta che cita il suo maestro elementare Cianfarra Romeo, lo loda e afferma che era solito elogiarlo per la sua bravura a scuola; del dottor Mattolini, direttore del manicomio in cui viene internato, ricorda che a ogni colloquio era solito dirgli: «però, non sei mica tanto matto» (e altre variazioni sul tema). Le ripetizioni di queste indicazioni, oltre a fornire al testo una rete di rimandi ossessivi, servono a Liborio per identificare sé stesso: è come se avvertisse il bisogno di ripetere continuamente a sé stesso le cifre più importanti della sua identità, per fissarle nella memoria e non perdere la coscienza di sé. In effetti, non si ha mai l’impressione che Liborio difetti in lucidità, o esca davvero fuor di sé stesso: nonostante siano affrontati temi come l’alienazione, Liborio conserva sempre una chiara coscienza di sé, sebbene essa sia costruita a partire dal giudizio altrui.

 

La questione è appunto questa: la pazzia di Liborio non è la condizione di partenza del personaggio, bensì il punto d’approdo della sua vita. A essere ancora più precisi, non è nemmeno la storia di come Liborio sia impazzito, ma piuttosto la storia di come gli altri abbiano cominciato a ritenerlo pazzo. A ben vedere, nelle prime pagine del romanzo Liborio più che un matto, sembra ottuso: è incapace di acquisire un’esperienza completa e personale di ciò che gli accade nella vita; il padre lo ha abbandonato, la madre e il nonno sono morti quando lui era un bambino. Rimasto senza alcuna guida, non fa altro che affidarsi al giudizio altrui, ma per una serie di vicende, i giudizi altrui sono giudizi superficiali. A nessuno interessa aiutare Liborio a riscattarsi: le valutazioni di Liborio non fanno che depositarsi pigramente una sull’altra, nell’indifferenza generale, emarginandolo dal consesso sociale e ritagliandogli, infine, il ruolo di «cocciamatte». Proprio per questo, i giudizi che gli rimangono più impressi sono quelli delle autorità che lo giudicano positivamente, quelli che abbiamo già citato: il maestro Cianfarra e il dottor Mattolini. Non è un caso che Liborio li ponga come fondamenti della sua personalità: significativamente, costituiscono l’uno un riferimento a ciò che avrebbe potuto essere se avesse studiato e l’altro una constatazione, sia pur resa ironicamente tra le righe, di quanto chi lo ritiene un matto si sbagli.

 

Nonostante la natura particolare della voce narrante, la ricostruzione che offre degli eventi raccontati sembra piuttosto affidabile. Certamente la velocità del ritmo narrativo è molto trascinante, in virtù del gran numero di peripezie cui Liborio va incontro; il romanzo è evidentemente pensato per rendere al meglio nella sua brevità, senza dilungarsi; Liborio rievoca i fatti più che esporli approfonditamente, e non potrebbe essere altrimenti viste le sue capacità mentali. Al tempo stesso, i dettagli con cui racconta le sue vicende si innestano su una trama di giustapposizioni (le ripetizioni e le ricorrenze di cui si parlava poche righe fa). Esse contribuiscono a dare al testo l’aspetto tipico del racconto popolare, che si gioca molto sulla capacità di affabulare e irretire l’ascoltatore: l’altro lato della medaglia della peculiare dimensione orale-performativa del libro. È proprio su questo impianto picaresco-popolare che si inseriscono i vari piccoli romanzi nel romanzo che compongono Bonfiglio Liborio: dal romanzo sulla questione meridionale a quello di fabbrica, fino a quello d’ambiente ospedaliero e infine al memoir, i generi cui Rapino ricorre per raccontare la storia sono i più disparati, anche se di fatto, ogni volta che la narrazione sembra assestarsi in una determinata ambientazione (con un certo immaginario e una serie precisa di personaggi) ecco che il banco salta di nuovo. È come se Rapino trovasse divertimento più a evocare ognuno dei generi appena citati che ad approfondirli. Il tutto è reso comunque omogeneo da alcune costanti, garantite dalla continua presenza scenica di Liborio. Ogni episodio, come ben si addice a un romanzo picaresco, termina col protagonista che, volontariamente o meno, abbandona il posto dove si trova: talvolta accade per scelta, perché sente il bisogno di cambiare aria; altre volte è costretto dagli eventi. Ogni volta che l’ambientazione muta, la prosa del romanzo, in maniera quasi camaleontica, si mimetizza nel nuovo contesto: il modo narrativo è sempre lo stesso, ma cambiano i leitmotiv; ciò che era centrale nel capitolo precedente degrada a ricordo, e Liborio può continuare a raccontare la sua storia senza troppi stravolgimenti stilistici. La plausibilità della narrazione è prodotta proprio dal particolare cortocircuito che si viene a creare tra la voce narrante e gli elementi con cui sceglie di raccontarla. Ciò lo si nota magistralmente, ad esempio, nella descrizione delle città: Liborio ovviamente si affida al cibo e agli stereotipi legati al posto che sta descrivendo per richiamarlo alla sua memoria (e a quella del lettore). Milano diventa così la caotica città del risotto e della cotoletta e del panettone; Bologna è la città dei lunghi portici e del buon vino e della mortadella. Cose senz’altro vere, ma banali: esse acquisiscono però una luce particolare perché ci vengono riportate da un soggetto verso cui, pur provando senz’altro empatia, riconosciamo come limitato nelle sue capacità di giudizio. È dalla contrapposizione tra ciò che Liborio dice di Milano e Bologna e ciò che sappiamo su Liborio che le descrizioni di queste due città acquistano una forza particolarmente viva.

 

I giudizi altrui, si diceva: il loro susseguirsi condanna Liborio all’emarginazione, eppure non si tratta solo di questioni private. Liborio viene internato in un manicomio perché aggredisce il cronometrista del suo reparto, che lo importunava mentre lui era ancora scosso dall’incidente di un suo collega e amico (braccio tranciato da una macchina). La scena in questione, e in generale tutte le parti del romanzo ambientate in fabbrica, oltre ad avere un vago sapore balestriniano, puntano a mettere in scena l’alienazione (termine che Liborio stesso incontra, grazie alla frequentazione dei sindacati, ma di cui non comprende il significato). Infatti, mentre picchia il cronometrista, Liborio chiede ossessivamente a cosa servono le centinaia di migliaia di pezzi che ha costruito da quando ha cominciato a lavorare per la Ducati. Questo è solo uno dei molti esempi di attrito tra le vicende storiche di cui Liborio è testimone ma spesso non partecipe e la sua sorte personale, la sua volontà, i suoi desideri. Del boom economico che si spegne a inizio anni Sessanta dirà: «il bum era finito e io non me n’ero accorto in tempo anche se non me n’ero accorto in tempo neanche quando era cominciato quel cazzo di bum che tutta quella ricchezza a me non mi aveva sfiorato manco per sbaglio». Ogni scelta, ogni azione di Liborio è calata nel contesto di un mondo dove si ribadisce l’importanza dei destini soggettivi, salvo poi assistere al loro soccombere di fronte all’ineluttabilità della storia generale: Liborio, privo di mezzi per identificare correttamente questo meccanismo, dà la colpa alla sfortuna, in modo quasi ancestrale parla di «segni neri» che lo accompagnano per tutta la sua vita. Il Male che lo affligge ha spesso un’origine storica, materiale, ma per lui è innanzitutto una condizione primigenia, che lo caratterizza quasi geneticamente. Se Liborio avverte che sono il Caso e il Male (oltre che il suo perenne nomadismo) a determinare la sua vita, i lettori, in controcanto, sono perfettamente in grado di riconoscere le dinamiche interne e attribuire la causa di ciò ai vari rivolgimenti storici del Novecento. Il punto di vista di Liborio, dunque, apre a un certo modo di vedere il secolo scorso, ma l’opera di rilettura dev’essere “completata” dal lettore: è proprio questa la chiave della straordinaria empatia che si viene a creare con Liborio.

 

Si diceva che il romanzo di Rapino è figlio di una riflessione sulla forma-romanzo: tutte le strategie testuali fin qui evidenziate rimandano ad almeno due concezioni di essa. La prima è quella per cui nella forma-romanzo è possibile dare la parola a chiunque, e in qualunque modo. È proprio attraverso l’idea di “voce” intesa come combinazione tra punto di vista e stile che molti romanzi trovano la propria forza o per lo meno la loro ragion d’essere: è per questo che Siti può dare la parola a un pedofilo e Littell a un gerarca nazista; è per questo che Vasta può far parlare un bambino di dodici anni come un adulto. Rapino sceglie di dare la parola a un matto (o presunto tale): una scelta, come detto, non innovativa, anzi. Rapino stesso individua alcuni antecedenti (curiosamente, a ricorrere più frequentemente nelle sue dichiarazioni è un film, Forrest Gump). L’interesse verso il libro, di conseguenza, nasce da qualcosa in più: cioè da ciò che ci viene presentato attraverso questa voce. Bonfiglio Liborio ci offre non solo la possibilità di accedere in modo verosimile a una coscienza altra, ma ci consente di pervenire così a una conoscenza specifica e diversa della realtà (in particolare della realtà novecentesca): due cose che si chiedono ai libri che riteniamo classici, e che risvegliano la sensazione – che accompagna tutta la lettura del libro – di trovarsi di fronte a una dimostrazione di vitalità della forma-romanzo.

 

È questa la seconda concezione: il romanzo come modalità specifica di conoscenza della realtà. Bonfiglio Liborio ha l’aspetto di una formazione di compromesso tra queste due idee di romanzo: entrambi i poli della questione agiscono nel libro, giustificandosi a vicenda. Dare la parola a Liborio sarebbe un esercizio di stile, se Liborio non parlasse di cose che riguardano tutti; rivisitare ancora una volta la storia italiana sarebbe noioso, se non lo facessimo tramite il particolare punto di vista del personaggio. Rapino ci offre una visione del XX secolo italiano leggermente straniata, seppur ancora riconoscibile, ma in quanto tale nuova. Il profilo degli eventi del Novecento ripercorsi attraverso la vita di Liborio rimane familiare, ma è illuminato da una luce diversa, perché chi ne parla non è in grado di riconoscere la profondità o la gravità di ciò che sta accadendo. Liborio, animale linguistico, presenza narrativa, concede ai vari fatti di cui è testimone il solo status di storielle da raccontare, buone per presentarsi agli sconosciuti, per stringere amicizia: la serietà che caratterizza la narrazione degli anni Sessanta e Settanta è rovesciata, ridotta a cunto, trasfigurata in uno spettacolino di burattini. Rapino, attraverso Liborio, accorda la sua descrizione del Novecento sui temi del carnevale, della parata, della festa: il leitmotiv della festa percorre tutto il romanzo, dalle feste popolari che entusiasmavano il Liborio bambino a quelle civili (25 aprile e 1° maggio su tutte); altro fil rouge è quello della banda musicale, spesso rievocata da Liborio; ancora, un’altra metafora utilizzata per rappresentare la sua vita è quella della pellicola, del film. Il tema della festa infine conclude il romanzo, quando il protagonista immagina di tenere un banchetto a cui partecipano tutti i personaggi della sua vita. Possiamo considerare Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio come un modo per fare i conti con il Novecento, che attraverso l’ironia lo tiene a distanza, gli sottrae gravitas. Ecco, forse sta in questo il senso generale dell’opera di Rapino: togliere peso, liberare il Novecento dalle raffigurazioni che lo appesantiscono.

6 thoughts on “Il Novecento come una storiella: su “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” di Remo Rapino

  1. Per me il libro di Rapino e’ di gran lunga il migliore dell’anno tra i romanzi italiani. E’ bello perche’ semplice, immediato, intuitivo, triste, allegro, reale. Complimenti al Suo autore, dai piu’ sconosciuto e che nelle interviste mostra la stessa semplicita’ che si respira nel libro. Bravi anche alla Minimum fax per aver “scovato” questo “giovane” autore

  2. È una domanda sciocca, me ne rendo conto, ma siccome proprio ieri ne parlavo con un’amica… “Vita, morte e miracoli” è il titolo di questo libro. Il dire voglio sapere tutto di questa persona, cioè “vita, morte e miracoli”, è una “frase fatta”, una locuzione o una citazione d’altro e preesistente al titolo del libro, oppure nasce proprio da questa opera?

  3. Credo che si possa rispondere a Ma.Ma. con quest’altro detto che suona, “è nato prima l’uovo o la gallina?” Ma a parte gli scherzi nella domanda che a prima vista potrebbe parere ingenua, si palesa un grosso problema, a mio avviso, riguardante le fonti nel nostro attuale sistema di comunicazioni. Se da un lato c’è più libertà di immaginare i risvolti delle faccende letterarie e non, vedi giornalismo – giallistica – pubblicazioni scientifiche – aneddotica varia, da un altro manca totalmente il lavoro filologico che solo cinquant’anni fa ferveva in tutti gli ambiti della cultura. Ascoltavo stanotte ad esempio quanto interessanti erano i reportage culturali degli anni settanta e ottanta; certo non andavano con i guanti a trattare il beatnik ma la serietà imponeva allora e forse oggi non più di non andare troppo per il sottile con la beat generation. Ferlinghetti mise il dito proprio su questa “piaga” ma finì per rovinare la festa ai cosiddetti capoccioni, ai loro mattoni e alla logica del bene e del male, complici anche le droghe.

  4. Gentile Sisco-Francesco, non ho capito. È mia abitudine sminuire l’importanza che do a certe mie curiosità, magari anticipando la sciocchezza della stessa; sciocco per altri, non per questo, sciocco per me. La mia domanda ingenua non ha tuttavia ancora trovato una risposta. Alcune locuzioni che trovai nei Promessi sposi, son tornate per anni nel modo di dire comune. Nomi propri sono persino diventati nomi comuni (v. Perpetua). L’azzeccagarbugli ha fatto strada. E così molte altre espressioni “d’invenzione”. Se la risposta è “chi lo sa?”, mi vien solo da pensare che forse è ancora più interessante di quanto non immaginassi, la mia curiosità. “Sciocca” lo sarebbe stata se fosse noto a tutti. Un autore che riesce a “inventare formule” di scrittura, abbinamenti di parole, locuzioni che restano nel tempo con tanta persistenza e portato di significato, be’, per me è un grande scrittore (certo non solo per questo, ma…). Se invece il titolo di un libro si rifà a un modo di dire comune già all’epoca, be’, mi cadrebbe in basso.

  5. La locuzione “sapere (o) raccontare vita, morte e miracoli” per dire che si sa (o si racconta) tutto di una persona era nota e in uso ben da prima che Rapino pubblicasse il suo libro (l’origine è probabilmente dalle vite dei santi). Io la conoscevo, ma basta cercare un attimo su google.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *