di Marco Lapenna
[E’ uscito da qualche settimana per 66thand2nd Latitudine 0° di Marco Lapenna. Ne proponiamo un estratto].
Annientato come la prima volta nel matorral, si risvegliò sul pagliericcio umido. Usciva da un sonno vuoto di coscienza, con una fame atroce che gli strizzava l’addome. L’unica immagine stampata nella memoria era quella di un pozzo. Un pozzo visto dal fondo, con un piccolo anello di luce al posto del cielo.
L’ambiente in cui si trovava era freddo, ampio senza precisione. Sollevò gli occhi fino alla volta di pietra, ne ricavò l’impressione di trovarsi sottoterra. C’era movimento tutto intorno a lui. Il demone azzurro, il suo demone – aveva ancora un demone –, entrava in contatto con l’aura di altri suoi simili. Non si sentiva minacciato e tantomeno in grado di minacciarli. Puntò la mano tra i fili di paglia di cui era cosparso il pavimento, si mise seduto, lottò per mantenere aperte le palpebre. La puzza di cuoio conciato male veniva prima di tutto dal collare che gli avevano stretto intorno alla gola. Lo saggiò con le mani, era chiuso verso la nuca da un rivetto di metallo. Una nuova fitta gli attraversò lo stomaco, si riscosse almeno in parte. Lo stanzone era diviso in due spazi disuguali da un alto recinto di legno: da questa parte delle sbarre era rinchiuso lui insieme a molti altri, nudi – le bestie, gli veniva da chiamarli; dall’altra parte c’era solo uno stretto corridoio che costeggiava il muro fino a una scaletta di pietra, senza corrimano. Poi una porta sorvegliata da un uomo in uniforme di pelle.
Si tastò il petto per evitare lo sforzo di flettere il collo: era l’unico da questa parte delle sbarre a portare ancora i vestiti. Una differenza che non poteva durare. Attirati dai suoi movimenti, forse dal suo respiro affannoso, le bestie del porcile gli si fecero intorno. Come se avessero aspettato che si svegliasse. Si avvicinarono con delicatezza, gli poggiarono prima le mani addosso, perché si abituasse al contatto, poi cominciarono a sfilargli la maglietta.
Il pozzo, ripensava lui, le lunghe zampe del ragno. Il cerchio di luce in alto, eclissato dal corpo peloso di Circe.
Le bestie lo svestivano senza violenza, le bestie lo volevano simile a loro e con buona ragione. Perché oltre al terrore del pozzo, oltre alla loro più grande paura – il pozzo di notte, il cerchio di luce come una luna piena, il ventre peloso del demone ragno, l’eclissi –, potesse condividere con loro anche l’unica speranza. Mentre gli toglievano i vestiti, le bestie mormoravano. A mezza voce gli lodavano la dolcezza della custode. La bellezza della custode. Il tocco consolatore della sacerdotessa custode. Oppose solo una svogliata resistenza quando cominciarono a sfilargli i pantaloni. Mentre abbandonava la presa, la mano gli incappò in un pezzetto di carta che spuntava dalla tasca posteriore. Lo prese, lo spiegò, recitava soltanto: Gaspar Carvajal.
E così, sulla memoria del proprio nome, Carvajal cominciò a fondare la sua resistenza contro la realtà oppiacea del porcile.
Con le labbra protruse, senza badare alle pagliuzze che gli si incastravano tra i denti, Carvajal succhiava il pastone di mais dalla mangiatoia. Il mais dei tributi serve per alimentare le bestie del porcile. Glielo aveva detto Lagrange.
Carvajal aveva fame, fame fisica, adesso che il corpo sostentava sé stesso e il demone, e non viceversa. Adesso che il David Bowie azzurro mugolava per terra, piegato in due – quasi grufolava, a volte gli sembrava che mimasse un grugnito.
Carvajal succhiava e masticava. Doveva nutrirsi. Era l’unico modo che aveva per aiutare il demone, per restituirgli qualcosa di quello che il demone aveva fatto per lui.
La mangiatoia era posta a pochi centimetri dal suolo, subito oltre le sbarre del recinto. Il guardiano l’aveva riempita all’alba di quel pastone liquidissimo, ancora tiepido. All’inizio Carvajal aveva provato a raccoglierlo con le mani. Ma gli scappava tra le dita: era un metodo troppo lento per l’appetito di una bestia. E così si era inginocchiato come gli altri, aveva sporto la testa tra le sbarre, si era nutrito. Solo dopo, ritratto il collo dalla fenditura, aveva notato l’ometto che a pochi passi da lui si puliva la bocca con il dorso della mano. Aveva una scimmietta gialla e spelacchiata aggrappata alle spalle.
L’Indio Bruto si passò la lingua tra i denti, poi il dorso della mano sulle labbra per rimuovere gli ultimi resti del pastone.
Quell’uomo magro lo stava fissando. Il suo demone era azzurro e longilineo, con una bocca affilata di cui riusciva quasi a intuire le zanne. Che cosa voleva da lui? La coscienza appannata da una fame inestinguibile, non riusciva a interpretarne i tratti oltre la prima soglia della semantica. Gli occhi, la bocca, il mento… dunque un volto come tutti gli altri.
Finché l’uomo non lo chiamò per nome.
«Indio Bruto».
Indio Bruto, così lo chiamavano i suoi.
«Tu sei l’Indio Bruto» ripeté l’uomo.
La preda nel matorral… la fuga fino alle paludi di Circe, la colonna di Columbus… Columbus, il capitano… Tutto tornava vorticosamente.
«Prima del confine. Stanno ancora lì, si sono fermati e stanno aspettando».
«Che cosa aspettano?» chiese Carvajal.
«Non so,» piagnucolò l’Indio «come faccio a sapere? A me hanno detto solo: Indio Bruto, perché non ci vai tu? Sulla sierra ci puoi andare tu. L’idea è stata dell’Indio Feo, ha detto: Mandateci l’Indio Bruto che con i naturali ci sa fare, perché è un indio selvaggio. E io ho detto: Manco morto. E perché? Perché ho paura. Ma poi è arrivato il Guerriero giaguaro dell’Inglese, e ho avuto ancora più paura. La scimmia mi è scappata su un albero, dovevi vederlo il Guerriero giaguaro, grande, tutto verde, con la mazza in mano. L’Inglese mi ha detto: Perché non ci vai tu? Qualcuno ci deve andare, dai naturali…».
L’Indio Bruto scoppiava di gratitudine: non gli sembrava vero che Carvajal non gli serbasse rancore, che gli permettesse di restargli vicino e anzi cercasse la sua compagnia. Camminandogli accanto, ma mezzo passo indietro, l’aveva accompagnato fino a un angolo appartato del recinto. Lì si erano messi seduti per parlare, seduti a gambe distese come fanno le bestie quando formano i loro capannelli. E l’Indio Bruto gli aveva raccontato tutto. Confusamente, disordinatamente. Gli aveva raccontato della colonna di percorritori che li aveva raggiunti poco dopo la loro separazione. Di come fossero stati inquadrati nei loro ranghi, in cambio dell’incolumità. Del capitano che guidava la colonna, un certo Columbus, il cui demone aveva l’aspetto di un Orbo rosso – la sua presenza era insostenibile per l’Indio Bruto. Ma quello che più di tutti lo spaventava era il luogotenente di Columbus, l’Inglese, con il suo Guerriero giaguaro…
Poi si era interrotto così come aveva iniziato. Lo sguardo inebetito dalla riconoscenza, le braccia penzoloni lungo il busto grassoccio. Carvajal fu certo, e non ebbe mai a ricredersi, di aver guadagnato la sua lealtà.
«Quando chiudo gli occhi» gli disse dopo «continuo a rivedere la bocca di un pozzo. Io sono sul fondo, al buio. Vedo solo il cerchio luminoso dell’apertura, in alto».
«È il pozzo del ragno,» rispose l’Indio strizzando le palpebre e le narici «il pozzo della duquesa. Ti portano lì, per il pasto della duquesa».
Le bestie, intorno, camminavano quasi sempre a quattro zampe. Le più sane e forti andavano e venivano sulla paglia, annusavano, cacavano contro il muro in un angolo del recinto. Quelle più estenuate si limitavano a sopravvivere. Poco prima Carvajal aveva rivisto l’uomo dal montone nero. L’aveva riconosciuto dalle ciocche ormai inestricabili che gli coprivano la fronte. L’uomo era disteso su un fianco, gli colava la bava dalla bocca. L’Indio Bruto l’aveva guardato e aveva scosso la testa.
«Non dura più di due giorni».
Carvajal non si sentiva colpevole. Era più che probabile che di lì a poco lo stesso destino toccasse a lui. E del resto proprio in quel momento sedeva spalla a spalla con quello che poco tempo prima era stato uno dei suoi tre aguzzini…
La calma ottusa del porcile fu turbata all’improvviso dal rumore della porta che si apriva in cima alle scale. Tutte le bestie alzarono lo sguardo.
«È ancora presto per la custode. La custode arriva più tardi» commentò l’Indio Bruto sconsolato.
I tre guardiani entrarono vociando, armati di verghe e guinzagli. Sbatterono la porta del recinto, separarono una decina di bestie tra le più vivaci, le trascinarono via per il collare.
«Sulla sommità della collina, il Giardino: immagine terrena della perfezione» gli aveva detto il dottor Lagrange, ormai diversi giorni prima. «La purezza della sacerdotessa custode. Il potere magico di Circe. Sono elementi fondamentali per distogliere i coloni dalla terribile verità che soggiace alla vita nella foresta: la sopraffazione è reale, la colonia non è che un debole baluardo di fronte alla violenza caotica di queste nostre esistenze.
«Il potere benefico, l’influenza ordinatrice della fortezza si basano in definitiva su un ossequio scrupolosissimo alle forme. Quando le forme vengono minacciate, la repressione deve seguire immediata e inflessibile.
«Pena l’instabilità dell’intero sistema».
Ma al cadere del tramonto, anziché le grida dei guardiani con i guinzagli, un mormorio tiepido si diffuse per la mandria. Carvajal intuiva che qualcosa di diverso si stava preparando.
Come in una scena di resurrezione, una folata di vento spalancò la porta in cima alle scale. Non sarà stato granché come scenografia, ma per le bestie del recinto bastava. Poi, con un frullio muto delle ali, sorvolò la stanza un cardellino dalla maschera rossa e luminosa. I prigionieri lo riconobbero immediatamente.
Al passaggio dell’uccello Carvajal sentì un calore corroborante, come se un nodo nella pancia del David Bowie azzurro fosse prossimo a sciogliersi. Gli ricordò Juanito. Si ricordò di Juanito. Sulla soglia del porcile comparve la sacerdotessa in abito cerimoniale.
Con quella coroncina di piume gualcite e fruste, la figura di Nina rasentava l’ironico. Ma era Nina, era la donna che stava cercando e la ragione per cui era entrato nel matorral, per cui aveva scoperto la foresta e risvegliato il demone. Di colpo Carvajal ricordò: non solo gli ultimi mesi nella casa nella palude, ma tutto quello che aveva preceduto la nascita del David Bowie azzurro. Si ricordò del Russo e di Città del Messico, di Yona il Topo, di Valencia, di Milano, e ancora indietro fino a Siviglia e a sua sorella Trinidad. Soprattutto si ricordò di Nina, e la nuova consapevolezza lo investì con tutto il peso che aveva sempre avuto. E di colpo Carvajal ritornò uomo, perché per sottrarsi al dominio di Circe basta ricordare di essere stati uomini. L’impero della duquesa si incrinò silenziosamente. Ma di questo, nemmeno Carvajal si rese conto. Era troppo concentrato sul tempo delle illusioni che gli si riapriva davanti, su quel sentimento invincibile di: ancora tu.