di Massimo Raffaeli
[I cani di fortini di Massimo Raffali è il quarto titolo della collana “Isola e Isole”, un arcipelago di piccoli saggi per il mondo che viene curato da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce per le Edizioni Volatili. Ogni libro è l’ipotesi di una nuova mappa, «il minimo necessario ad un ricominciare», come scrive Gilles Deleuze in L’isola deserta e altri scritti.
Pubblichiamo un estratto del saggio di Raffaeli e la nota che ne illustra la genesi].
Franco Fortini cresce nel tempo per il paradosso tipico dei classici, che parlano non al futuro semplice ma al futuro anteriore creando involontariamente un circolo virtuoso. C’è un rapporto dialettico e mai deterministico tra la biografia individuale di Fortini e quelli che egli chiama “i destini generali” ma ciò pertiene, sia pure indirettamente, non solo all’ambito della poesia ma anche a quello della solida prosa ed in particolare a un suo testo, il più rovente sotto il punto di vista autobiografico, I cani del Sinai, che esce nel ’67 da De Donato, in una collanina gialla che i giovani militanti della sinistra allora amavano molto. (Ora è in corso di traduzione in tedesco e da parte di uno scienziato sociale e fortiniano onorario, Peter Kammerer: dopo uno scambio epistolare con lui, mi è stato inevitabile rileggere questo piccolo libro che ha segnato la mia giovinezza e che ho ripreso in mano molte volte, a cadenza, nel corso del tempo).
Fortini scrive nella sua piena maturità, a cinquant’anni, e vi introduce una premessa paradossale secondo cui nel Sinai non ci sono cani nello stesso momento in cui esiste, però, un proverbio autoctono che traduce “fare il cane del Sinai” con la capacità di dissimulare o con il ricorso alla ipocrisia (e questo è un caso, diremmo, molto italiano) di chi è solito salire sul carro del vincitore. L’impressione è che si tratti, alla lettera, di un proverbio d’autore. Il suo testo autobiograficamente più arrischiato è redatto nel luglio del ’67, appena dopo la Guerra dei Sei Giorni che vede disfarsi l’esercito di Nasser e invece trionfare i carri con la stella di re Davide guidati da Moshe Dayan. Sembra che suoi parenti fiorentini lo avessero accusato di non avere detto una parola riguardo al conflitto che va ancora sotto il nome di Guerra dei sei giorni, del giugno del ’67 per l’appunto, la terza guerra combattuta da Israele, uno stato che esiste da appena diciannove anni. Dopo pochi giorni Fortini si decide a scrivere la memoria di ventisette brevi suites, più che veri e propri capitoli, perché si tratta di un testo così forte, così intenso da guadagnare il ritmo della poesia pur rimanendo in prosa.
Fortini, nato Franco Lattes, è figlio di un ebreo fiorentino e si è battezzato valdese dopo la promulgazione delle leggi razziste del 1938. La sua lunga e complessa evoluzione intellettuale, dove interagiscono e si integrano le Scritture e i portati di una asperrima sapienza mondana, in ispecie la tradizione marxista, e dove anche collidono l’istanza della poesia (quasi fosse una sua radice dissepolta, segno di elezione e di tragico privilegio) e il costante richiamo alle res durae di un mondo segnato in perpetuo dalla lotta di classe, tutto questo lo porta ad uno sguardo in cui presente e passato, autobiografia e storia, possono richiamarsi a specchio e tuttavia nei modi di una vicendevole allegoria. In altri termini, parlare di sé nei Cani del Sinai equivale a interrogare, con una parzialità del tutto consapevole, i “destini generali”; nello stesso tempo, scrutare il nero oroscopo di questi (come una cesura, uno sfregio agli automatismi e agli alibi della memoria) per lui significa spogliarsi di un riflesso ambiguamente stereotipo e denudare una realtà tanto più flagrante quanto più mistificata nel senso comune e nel consenso della pubblica opinione. E dunque: il disprezzo per gli arabi, l’esaltazione della superiorità militare israeliana, l’orgoglio di riconoscere nel vincitore finalmente i segni della civiltà occidentale e anzi gli emblemi della civiltà tout court. (E’ tutto quanto mezzo secolo dopo, oggi, il sussiego liberale ascrive all’onore di Israele quale “unica democrazia del Medio Oriente” e avamposto del mondo libero tacendo si tratti di uno stato etnocentrico, governato da quarant’anni quasi ininterrottamente dalla estrema destra nazionalista e oramai totalmente militarizzato che mantiene da decenni in condizione di cattività, perciò di segregazione e di sistematica persecuzione, il popolo dei palestinesi).
Fortini scrive a muscoli tesi e scopre qualcosa che soltanto adesso realizza la sua etimologica perfezione nel momento in cui alla unanimità, in Occidente, l’opinione pubblica devolve un plauso preventivo a Israele e alle sue politiche. Si tratta di un dispositivo disarmante che ricorda, a termini rovesciati, “il socialismo degli imbecilli”, formula con cui il vecchio August Bebel definiva certo antisemitismo al tempo della II Internazionale: sappiamo invece che andrebbero sempre rigorosamente separate, cioè non disgiunte bensì articolate, le nozioni di “ebreo”, di “sionista” e di “israeliano” che anche oggi sono invece dal senso comune percepite alla maniera di sinonimi: e accade pertanto, se “ebreo” viene associato ipso facto al governo di Israele e alle sue politiche rovinose, che chiunque si attenti a discutere tali politiche viene ritenuto per ciò stesso un antisemita. Paradosso vuole che simile accusa oggi provenga, specialmente in Italia, da liberali conservatori ed esponenti della destra (talora persino antisemiti autentici e spesso allevati in ambienti antisemiti) i quali, aperti laudatori della estrema destra al governo in Israele, si vorrebbero perciò filosemiti e amici elettivi di quel paese. Un utile volumetto di Claudio Vercelli, Breve storia dello Stato d’Israele, ci ricorda come nella Palestina del Mandamento inglese, quella dei pionieri Ben Gurion e Golda Meir o in generale dei kibbutzim socialisti, oggi ignorati nella stessa Israele (l’unica a parlarne con ostinazione, ad alta voce, è giusto l’opera un reduce dal kibbutz, Amos Oz), venivano male accolti i reduci dal Lager perché ritenuti dei vinti senza mercè o insomma dei colpevoli di inerzia e silenzio di fronte agli aguzzini: è noto infatti che le vittime scampate prenderanno la parola per la prima volta solo nel corso del processo ad Adolf Eichmann. Lì si avvia la mutazione di cui parla espressamente una storica israeliana, Idith Zertal nel suo Israele e la Shoah, cioè il trapasso metafisico che nella pubblica opinione stringe il sabra (il guerriero pioniere prometeico, il fondatore dello Stato) al suo rovescio taciuto che è il reduce, per l’appunto la vittima: l’attuale tabù, un vero e proprio dispositivo biopolitico, scredita come attentatore alla memoria della Shoah chiunque osi criticare o avversare le politiche vigenti nel paese. Simile dispositivo non soltanto nomina invano e di fatto bestemmia la memoria della stessa Shoah, degradandola a strumento di propaganda politica, ma confonde ancora una volta, e artatamente, le nozioni di “ebreo”, di “sionista” e di “israeliano” proprio come usavano, a segno rovesciato, i fautori del “socialismo degli imbecilli”. Fortini allora intuisce che anche in Italia molti improvvisati partigiani di Israele utilizzano, più o meno consciamente dissimulandola, la reductio ad unum che è tipica degli antisemiti tradizionali.
Fortini, mentre scrive emozionato e a muscoli tesi, interroga la coppia diametrale dell’ebreo umiliato e del milite di Tsahal. Piangere l’uno ed esaltare l’altro, o viceversa, è perdere in essenza la più elementare verità, al presente tabuizzata e innominabile, perché ciò che li oppone fino a renderli entrambi fantasmatici, mitologici, è la violenza della lotta di classe, tanto più lacerante e pervasiva quanto più capace di continua mediazione e di trasfigurazione. Fortini distingue, criticamente, le nozioni di ebreo e di israeliano, di Stato di Israele e di classi dominanti/dirigenti di Israele, e intanto chiede a sé stesso che cos’è, nel Novecento, un “ebreo” e che cosa significhi anche la sua vicenda giovanile di entità umiliata, ferita, annientata.
Fortini tiene sempre davanti a sé, in un nesso dialettico, quella duplice allegoria: l’una è dell’ebreo perseguitato (come suo padre, un modesto legale della cerchia dei Rosselli e di Salvemini, durante il fascismo incarcerato nella Firenze ghiaccia e buia di cui dicono i romanzi di Vasco Pratolini), l’altra è del soldato di Tsahal vincitore di cui legge sui giornali e che in quel ‘67 vede in tv, forte, iattante e felice di esserlo. Sulla pagina de I cani del Sinai, si alternano infatti le immagini dell’esercito egiziano disfatto, i cadaveri abbandonati nel deserto (immagini ormai divenute ovvie e persino normali, salvo sparire dagli schermi dopo le aberrazioni orgiastiche e tanatologiche di Abu Ghraib, nel 2004). Fortini si chiede in chi mai riconoscersi, lui l’ex ragazzo fiorentino a nome Franco Lattes che un giorno venne preso a pugni da un caporione della Milizia e si chiede al presente la ragione di simili immagini, di tanta morte sovresposta o, per etimologia, di tanta oscenità: e si risponde che al presente, e ora più di allora, è la cosa orrenda e innominabile che governa la storia, è la lotta di classe. (Quando oggi si parla di conflitti religiosi, identitari, quando addirittura ci viene detto di essere in presenza del Clash of civilizations, lo scontro fra la civiltà giudaico-cristiana e l’islamica, tutto viene evocato ma non quello che, per il tramite della cremagliera economica, da sempre governa questo mondo, giusto la cosa la cosa orrenda e impronunciabile che è la lotta perpetua fra le classi sociali).
Fortini conosce tuttavia la vecchia lettura marxista ed economicistica che riduce genericamente e stoltamente l’Olocausto a un mero prodotto del capitalismo e la rifiuta così come rigetta la lettura che si limita a mostrificare il sistema concentrazionario di fatto esonerandolo da responsabilità d’ordine storico, morale e politico. Quanto ai soldati di Dayan e al nazionalismo in armi benedetto, allora come ora, da tutte le cancellerie occidentali, ne è sgomento e forse ha in mente le parole di Isaac Deutscher che in una celebre conferenza del ’54, L’ebreo non ebreo, affermava essere un’ulteriore tragedia degli ebrei “il fatto che il mondo li abbia costretti a cercare la sicurezza di uno stato nazionale proprio nel mezzo di un secolo come quello attuale, quando cioè il concetto di stato nazionale sta pian piano imputridendo”. Sono verità tuttora minoritarie ma che i cinquant’anni successivi hanno conclamate, entro e fuori di Israele, e sono verità che Franco Fortini non ha mai smesso di ribadire, talora di gridare, perché il tempo le ha come levigate e intanto rovinosamente ingigantite. Nello stupendo lungometraggio di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Fortini/Cani, del 1976, il poeta legge le sue pagine di dieci anni avanti con un ritmo scandito e persino implacabile, è seduto in un patio inondato di sole, la natura intorno a lui fiorisce indifferente, estranea alla violenza delle cose dette e ricordate. Egli è ripreso costantemente di profilo, non alza mai gli occhi dal libretto sgualcito dove un filo di tenace fedeltà lo lega alle parole incise a futura memoria.
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Nota
Questa è l’elaborazione di un intervento alla “Giornata di studio sul poeta e saggista Franco Fortini” tenutasi a Roma il 9 maggio del 2017 nel Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre.
Le citazioni fortiniane provengono dall’ultima edizione de I cani del Sinai, a cura del Centro di ricerca Franco Fortini, Macerata, Quodlibet 2020, pp. 63 e 78-79. Una puntuale contestualizzazione è nel saggio di Luca Lenzini, I cani del Sinai, oggi, “Altraparola, n. 2, 2019.
Nel testo sono citati o richiamati Claudio Vercelli, Breve storia dello Stato d’Israele, Roma, Carocci 2008; Idith Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Torino, Einaudi 2007; Isaac Deutscher, L’ebreo non ebreo, Milano, Mondadori 1969; Zigmunt Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino 1992; Theodor W. Adorno-Max Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi 1966; Georges Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, Torino, Einaudi 2007; Cesare Cases, Cosa fai in giro?, Roma, Edizioni dell’asino 2019;Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 1986.
[Immagine: particolare della copertina].
«la natura intorno a lui fiorisce indifferente, estranea alla violenza delle cose dette e ricordate» (Raffaeli)
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E fosse soltanto la natura!
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« Riepilogando: a vent’anni dalla morte di Franco Fortini stiamo assistendo ad un ripensamento della sua figura e della sua opera che ricolloca entrambe, com’è giusto che avvenga, nel “nuovo tempo” che si va profilando o le rilancia «oltre il presente, che è quello che è» (Lenzini) oppure, come scrisse lo stesso Fortini in Lisiàt (Questioni di frontiera, p. 50), stanno prevalendo anche nei suoi confronti «la stanchezza e le distrazioni, le urgenze e le negligenze [che] ci fanno avvertiti che non possiamo più portare da soli, e nemmeno in gruppo, un nome e una memoria» e, dunque, una parte sostanziale di lui e della sua opera sta per entrare nel cono d’ombra della dimenticanza assieme allo sfondo storico-ideologico marxista e novecentesco?
Lascio aperta la questione. Ma in tutta sincerità credo di non far torto a nessuno degli amici che hanno contribuito a questo libro, se anche in questa prefazione, confermo pacatamente le preoccupazioni che avevo manifestato in un mio scritto del 2012 a proposito del convegno senese nel decennale della morte dello scrittore. [1] Tra gli intellettuali, alcuni sono già tornati a preferirgli Montale, non a caso avversato vigorosamente dal Fortini “maturo”. Lo fece per primo già in quel convegno del 2004 Guido Mazzoni, autore di una “revisione” dell’opera fortiniana che parve l’inizio di una liquidazione proprio della «alterità irriducibile», condivisa in Italia e nel secondo Novecento non solo da Fortini ma da tanti (e non solo intellettuali)».
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(da E.A. Prefazione a «Come ci siamo allontanati», Arcipelago Edizioni, Milano 2016)
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[1]
E. A., Ripensando al convegno «Dieci anni senza Fortini (1994-2004), in Poliscritture n.9, gennaio 2013 ma anche al seguente link: http://www.poliscritture.it/2012/09/04/ripensando-al-convegno-dieci-anni-senza-fortini-1994-2004/
“ Sabato 15 maggio 1999 – Poi mi viene in mente un vecchio testo di diario e, senza ulteriori commenti, lo ricopio: « 11 dicembre 1995 – “ Mese di luglio stupendo, una fortuna per chi può andare in vacanze. L’aria del mattino brucia ogni pensiero che si arrischi al di là del presente. La gente conversa nelle belle serate a proposito degli avvenimenti del Medio Oriente – con cortesi e non rovinose differenze di opinione, perché siamo tutti persone civili – ma chi può avvertire una reale differenza fra queste e le sere di luglio degli anni scorsi? Un modesto conflitto senza conseguenze. Certo, il Vietnam – ma da quanti anni non durano guerre lontane, altrove. Trent’anni fa, un mese di luglio, mi pare: davanti al medesimo mare, in una pensione per famiglie, il Corriere della Sera di mio padre. Qualcosa era cominciato dove tramontava il sole, in Spagna. Quand’è che hanno ammazzato quei negri in America? L’estate scorsa o quella innanzi? La memoria serve a livellare tutto. Sulle terrazze delle ville che si scaldano al sole del tramonto, mentre gli ospiti arrivano tra i vialetti, ti senti fra voci di trenta, quarant’anni fa. Sull’asfalto delle strade il sangue fresco torna ad aggrumarsi dove già schizzò negli anni passati. Gli agenti della Stradale tendono le loro misurazioni tra le briciole dei cristalli. Il contadino che ebbe portata via la gamba da un’auto estiva anni fa, seduto sulla soglia della casupola che s’è costruita col risarcimento, guarda il proprio ragazzo pedalare sbandando nel buio lungo i tornanti che le macchine attaccano. Nulla deve mutare. La radio parla dell’esodo estivo, le musichette delle sigle ballonzolano nelle osterie. È l’estate dei rospi e dei cani nei campi, dei piccoli congegni notturni degli insetti; che hanno solo questa estate da vivere e sono al lavoro dappertutto. “ (Franco Fortini, I cani del Sinai, 1967) ». Non deve sembrare strano che abbia scritto in neretto la parola « estate »: secondo me ciò di cui parla questo testo è l’estate. « Nel senso di Dieci inverni? » Oppure di Ventiquattro voci, non è un problema di quantità». “.
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