di Lorenzo Renzi
“Puntiamo semplicemente alle anime, dicesi egemonia”. Questo scrive Mario Isnenghi a un certo punto del suo piacevolissimo, ma anche qualche volta urticante, Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria (Il Mulino, 2020). E lo dice a proposito del suo programma di scrivere testi scolastici, classici commentati, di cui per intanto racconta di avere pubblicato un’edizione delle amate Confessioni di Nievo. La frase ricordata sopra sembra sproporzionata allo scopo, anche dando per scontata che nell’ enfasi c’è una certa autoironia. Ma Isnenghi avrebbe potuto ripeterla per moltissime delle cose che ha fatto e scritto in una vita lunga e laboriosissima (ora ha 84 anni). Avrebbe potuto dirlo dalle sue prime note nella rivista di Vladimiro Dorigo “Questitalia” fino alla direzione delle ultime tesi di laurea a Ca’ Foscari prima del pensionamento. Avrebbe potuto scriverlo della sua partecipazione giovanissimo a tanti circoli politici e culturali, dalla FUCI veneziana (associazione degli studenti universitari cattolici) all’Unione goliardica italiana (UGI, di sinistra laica) da studente di Lettere a Padova, o quando ha cominciato a insegnare nelle scuole o quando diventa professore universitario e storico contemporaneo riconosciuto tra i primi. Isnenghi combina in modo sorprendente un orgoglioso individualismo e lo spirito di gruppo. In tutte queste iniziative e attività Isnenghi ha portato il suo spirito di apostolo del progresso, di animatore, ha parlato “alle anime”.Viene da pensare a Mazzini: “pensiero e azione”. Pensa con la sua testa e non si lascia irreggimentare, ma sa ascoltare gli altri e li cerca. È al tempo stesso guida e compagno di strada. Il suo egotismo mira a inserirsi in un noi. Nella storia della sua vita di animatore e iniziatore troverete molto raramente l’espressione “il Presidente Isnenghi, il Direttore Isnenghi”. Eppure queste cariche pullulavano e pullulano nel mondo istituzionale e anche con quello anti-istituzionale, al quale l’ultimo Isnenghi, uomo della Sinistra pre- e postsessantottina, ha appartenuto prevalentemente. Semmai Isnenghi è più spesso “Vicepresidente”, “Condirettore”, lui, il leader nato! Questa dialettica tra io e noi è chiara nelle pagine del racconto del suo insegnamento a Chioggia (1962-66), in cui il suo entusiasmo e quello della scuola di nuova formazione, primo istituto superiore della città, si rispondono armoniosamente: “Chioggia è un specie di idillio scolastico e collettivo. Siamo un noi”. A capo della scuola c’è un Preside PCI e ex-partigiano, Giuliano Lucchetta, che condivide i suoi metodi di insegnamento. Tutto ormai è maturo perché il giovane professore si accasi, e i compagni lo incoraggiano: “spòsite!”, gli dicono in veneziano, è per il bene della causa. E Mario si sposa con la moglie Sandra. Se ne vanno in viaggio di nozze in Tunisia, non da soli ma con il preside pronubo e sua moglie (sono cose che si facevano attorno al Sessantotto). Quando prendono casa, il collega di disegno va a cantare la notte canti nuziali (in dialetto) sotto la finestra della giovane coppia. Sandra e Mario hanno due figli. Lei da poco se n’è andata, e adesso lui è solo.
Questo è l’Isnenghi rappresentato da se stesso che appare nelle pagine di Vite vissute e no, e che il lettore è invitato a far coincidere con lo storico importante che ha scritto decine di libri (manca finora, purtroppo, una bibliografia in rete). Quelli dedicati alla Grande Guerra e a Caporetto hanno contribuito in modo importante, dagli anni Sessanta in poi, a rinnovare la prospettive storiche su quegli avvenimenti, centrali nella nostra storia e nella psicologia della nazione.
Isnenghi rievoca la Grande Guerra attraverso gli scritti dei tanti intellettuali che vi hanno partecipato, i loro diari di guerra, le lettere, le memorie, tirandone una morale caso per caso. Ma lo sfondo della sua prospettiva è generale ed è gramsciana. Così nel disastro nazionale che è Caporetto vengono al pettine i nodi dell’autoritarismo della classe dirigente, del velleitarismo di quella parte della borghesia che aveva voluto la guerra, delle difficoltà di comunicazione tra comandi e truppa, cioè tra borghesia e popolo. La guerra eredita e moltiplica le difficoltà dei rapporti sociali del tempo di pace. A questo schema sottostante si sovrappone un panorama molto vario, in cui non mancano le linee divergenti, composto dalle voci degli intellettuali del tempo che discutono, polemizzano, incitano o, come Renato Serra, fanno il loro drammatico esame di coscienza. Quella di Isnenghi è storia della idee, e di come queste reagiscano coi fatti. Così, per quanto specialista della Grande Guerra, Isnenghi non si considera uno storico militare, ma uno “storico delle idee”. La guerra non riguarda solo i rapporti politici e militari tra Italia, Austria, Francia ecc., ma anche quelli dello stato maggiore italiano con gli ufficiali nei comandi e al fronte, degli ufficiali subalterni con i soldati. La gerarchia dell’esercito, ente gerarchico per eccellenza, riproduce ingigantendola quella delle classi sociali presente nella società civile. Ogni trincea è un grumo di rapporti sociali profondi, nascosti nel proprio interno. Nei Momenti di vita di guerra di Adolfo Omodeo (1934) non c’è quasi lettera di ufficiale ai parenti in cui non parli del suo incontro con il popolo e del suo amore per il popolo-soldato, ma temperata dalla constatazione che il soldato semplice italiano (“il migliore del mondo”!) rimane con tutti i suoi dubbi sugli scopi e la santità della guerra.
L’opera principale di Isnenghi giovane è il fondamentale Mito della Grande Guerra, pubblicata da Laterza nel 1970, e ripubblicata nel 1989 dal Mulino (oggi all’8.a edizione). In questo modo il Mito va a collocarsi vicino ai grandi autori stranieri che hanno scritto da innovatori sulla Grande Guerra: Eric Leed, Paul Fussell, Jay Winter (come nota Isnenghi stesso nella nuova Postfazione al Mito nel 1989). Seguiranno, arricchite da una nuova profondità antropologica, le opere di George Mosse e di Wofgang Natte. E presto arriva nella stessa collana anche l’altro libro di Isnenghi L’Italia in piazza. (Mondadori 1994, Mulino 2012), di cui parliamo subito.
Nel Mito Isnenghi ha saputo, come nessun altro, rievocare l’atmosfera dell’Italia in guerra, rappresentando gli individui e le loro idee, scritte e anche gridate in piazza: una folla di nazionalisti, di interventisti, di irredenti, di socialisti transfughi dal credo internazionalista. Se il periodo precedente alla guerra è popolato da élites vocianti e vociane, futuriste, nazionaliste, quello posteriore, nutrito di reducismo e dannunzianesimo, e ingrossato da elementi popolari, prepara il Fascismo. Il Mito è organizzato su due grossi capitoli. Il primo è dedicato agli ufficiali, dove è data voce agli scrittori di memorie, di romanzi e racconti, che sono stati ufficiali in guerra. Il secondo capitolo è dedicato ai soldati. Ma anche questo è composto in gran parte dagli scritti degli ufficiali scrittori, e mostra come questi si rapportano ai soldati, dai più paterni, come barba Piero Jahier, ai più alteri. Fonti popolari non ce n’erano al tempo, almeno in italiano, e l’unico modo era rappresentare i soldati per interposta persona. Ma quando apparirà in traduzione il libro di Spitzer sulle lettere dei prigionieri di guerra italiani in Austria (1976), Isnenghi disdegnerà quelle prime povere voci di soldati. Povere, ma che tutte insieme fanno una grande sinfonia. Isnenghi dirà che gli sembrano tutte uguali tra di loro, ma l’accoglienza di altri storici è stata diversa. Diversamente da Isnenghi, Giovanna Procacci, per esempio, raccoglierà lei stessa nuove lettere di soldati, documentando in particolare le voci del ribellismo e della diserzione (Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Editori Riuniti, Roma 1993, poi Bollati Boringhieri, Torino 2000). Parallelamente, con altra documentazione d’archivio, approfondirà le voci di dissenso dietro al fronte, nelle città e nelle campagne, sommovimenti politici e soprattutto apolitici. Nelle città e nei centri agricoli, dove avevano in gran parte sostituito gli uomini, protestano soprattutto le donne (Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Roma, Bulzoni, 1999).
Veniamo all’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri (Mondadori 1994, Mulino 2012). Il libro si apre con un vivace preambolo “antropologico” e sincronico, in cui appaiono a contrasto tra di loro le magiche piazze immobili di De Chirico e la scazzottatura nella Galleria di Milano di Boccioni. Sono così evocate le folle in tumulto prima, e anche dopo, la guerra mondiale, con il loro sfociare fatale nelle piazze d’Italia. I capitoli che seguono tracciano questa storia dal 1848 “ai giorni nostri”. Cioè fino al 7 giugno 1984, quando il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer viene colpito da un ictus durante un comizio in Piazza della Frutta a Padova. La piazza è ora tricolore, ora sovversiva, ora clericale. L’animano a turno la sinistra, la destra, i cattolici, le categorie professionali. In attesa, scrive Isnenghi, della piazza virtuale. Come già nel Mito, Isnenghi procede di nuovo di citazione in citazione attingendo alla stampa (anche a quella diocesana, che aveva studiato a lungo fin dagli inizi veneziani) e alle fonti letterarie.
All’interno della Prima Guerra Mondiale, il tema dei temi, il soggetto principale per Isnenghi, è stato Caporetto. Già presenta nella tesi di laurea nel 1962, è il soggetto del libro I vinti di Caporetto, (Marsilio, 1967) che l’autore stesso definirà opera “protosessantottina” e del maturo Mito di Caporetto (1970). Isnenghi è ritornato più volte, e anche recentemente, su questo tema. smentendo autorevolmente le tante tesi unilaterali, che sono state affacciate nel tempo su quella tragedia, non prima e non ultima della storia nazionale: viltà dell’esercito (Cadorna), sciopero militare (Malaparte), semplice sconfitta militare (la battaglia, ma la rotta?) … Come in altri avvenimenti importanti, hanno collaborato tra di loro diversi fattori, con maggiore o minore efficacia, e Isnenghi li esamina e riesamina a fondo, assieme alle conseguenze ideali, politiche che hanno provocato nel tempo. Ma le tesi dello “sciopero” militare e quella, collegata, dell’azione sotterranea dei Socialisti, vengono escluse.
Una segnalazione obbligatoria spetta alla direzione, introduzione e cura dei tre volumi dei Luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita (Laterza 1996), pendant italiano ai francesi Les Lieux de mémoire, a cura di Pierre Nora, Paris, Gallimard, 3 voll. 1997. Scritti da diversi autori, i vari capitoli sono dedicati alle istituzioni, figure simboliche, ricorrenze che condizionano l’idea che gli Italiani si fanno di se stessi e del loro paese in base alla loro storia. In attesa delle trasformazioni che sta portando il presente, e che infine l’oblio ne ricopra delle parti o le deformi.
In proporzione alla grande quantità di libri di cui dicevamo, ci sono gli articoli accademici e quelli giornalistici, i documenti, le dichiarazioni, le note che Isnenghi ha scritto per l’università e per la scuola, per enti, circoli, movimenti, correnti, infine anche per grandi giornali come “La Repubblica”. Recentemente ha partecipato a Rai Storia, come consulente del ciclo di 20 puntate sulla Grande Guerra.
Ma qui stiamo ormai passando dalla sua opera di storico e di poligrafo all’azione politica, ideale e pratica. Diciamo quindi ancora qualcosa che sia attinente alla sua autobiografia Vite vissute e no, dove i suoi libri, gli articoli, le ricerche e perfino le idee-forza passano in secondo piano, e dove l’uomo Isnenghi è il soggetto del libro.
Scrivendo questo libro, Isnenghi ottantenne fa i conti con il suo sé, con la sua vita e le sue opere, agite e scritte. Ci offre così un veduta dall’alto, ma senza nessuna nostalgia o pretesa di raggiunta saggezza o pacificazione, come avrebbe del resto previsto chi lo conosce. Si compiace delle riuscite, riflette sulle sconfitte, di cui vede peraltro spesso l’utilità successiva, una specie di provvidenzialità. Registra con precisione le sue attività, che sono state vulcaniche, prima di studente politicizzato antesessantottino, poi di professore, di organizzatore della cultura, di agitatore politico senza partito, poi di docente universitario e di storico di punta. E queste sono le “vite vissute” di cui dice il titolo. Il plurale “vite” è a proposito, perché Isnenghi, come ho già detto e di più dirò, è stato ed ha fatto molte cose. Perfino il paroliere di canzoni politiche (era il tempo di Sergio Liberovici, del Nuovo Canzoniere italiano, e anche di Franco Fortini e Italo Calvino autori di testi di canzoni). Isnenghi ha scritto testi per Gualtiero Bertelli, che era stato per un po’ suo scolaro alle Magistrali. Ora Isnenghi è uno studioso ammirato (non da tutti, ed è bene così), e spesso temuto. L’uomo, a conoscerlo da vicino, è gentile e delicato, ma la sua penna vola spesso ironica, caustica, non conosce compromessi o dissimulazioni nemmeno oneste. Può trafiggere (da Karl Krauss italiano), come fa spesso nei suoi interventi dal 1994 al 2012 nelle “Noterelle e schermaglie” in “Belfagor” (ora in volume in Diario di un arcidiavolo nell’Italia della democrazia liquida (1994-2013), Roma, Donzelli, 2013).
Nonostante questo, dopo gli incarichi, arriva anche per lui la cattedra universitaria. Il percorso della sua carriera è meno avventuroso che per altri: da Padova passa a Venezia via Torino. Niente anabasi al Sud o nelle isole e catabasi a casa, e a Isnenghi sarà dispiaciuto. Adesso il suo nome è ormai affermato, e i suoi libri, come abbiamo già detto, appaiono dai migliori editori. Non è più il tempo quando, ventiseienne, aveva fondato a Padova con pochi amici (c’ero anch’io) una piccola casa editrice, il Rinoceronte, dove assieme a un suo pamphlet, l’Impegno incivile (storia dei suoi primi mesi di insegnamento, contrastato e infine saltato, a Feltre), aveva pubblicato anche un’antologia dei giornali diretti da Piero Jahier, un pezzo tra i più significativi della stampa della Grande Guerra e dell’immediato dopoguerra (Piero Jahier, 1918 L’Astico: giornale della trincea; 1919 Il Nuovo contadino; antologia e saggio introduttivo di Mario Isnenghi, Padova, Il Rinoceronte, 1964). Un gioiello ripescato da lui, che l’aveva commentato magnificamente scrivendone l’introduzione già nella prospettiva dei Vinti e del Mito.
In questo racconto di “vite vissute”, si inseriscono quelle “non vissute”. Il titolo del libro, Vite vissute e no, è bello, ma non mi pare del tutto evidente. Quali sono le vite “non vissute” da Isnenghi? Si tratta di questo. Benché sia chiaramente un precursore del ’68, la strada di Isnenghi non è segnata una volta per tutte. Così rivendica nel libro di essersela scelta volta per volta. Come agli altri della sua generazione, dopo l’opzione iniziale per la Sinistra, gli si sono aperti più volte dei bivi. Da leader dell’UGI padovano (la formazione politica degli studenti di sinistra), è stato per un certo tempo compagno inseparabile di Gianni De Michelis, e come lui socialista (anche se senza tessera), ma non entra, anzi, più precisamente, racconta che non vuole entrare nella grande politica. Eviterà così di prendere parte all’avventura socialista con Craxi, che porterà l’amico Gianni, diventato ministro, in galera. Poi, benché sempre come socialista e poi come professore a Scienze Politiche a Padova, collega e amico di Toni Negri, si tiene lontano dalla sanguinosa deriva, degna dei Demoni di Dostoevskij, dell’Autonomia operaia, e così anche qui potrà guardare da uomo libero il collega e maestro più anziano in galera. Nei giorni cruciali del 7 aprile 1979, quando Negri e diversi docenti e altri suoi seguaci vengono arrestati, Isnenghi c’è, ma non si muove: “sono e mi sento spettatore, non c’entro”, scrive. Ma riconosce anche di appartenere, come aveva scritto Rossana Rossanda, all’“album di famiglia” di chi aveva militato per anni in quella sinistra da cui era venuto fuori Negri. Passati molti anni, sarà lui a pubblicare in una sua collana il memoriale del giudice Palombarini, che, concludendo il processo, ridimensionò le accuse rilevando le differenze tra l’azione di Negri e di “Autonomia operaia” e quella brigatista, riducendo così le responsabilità di Negri (Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore, di Giovanni Palombarini, Padova, Il Poligrafo, 2014, collana Ottonovecento a Padova. Profili, ambienti, istituzioni, diretta da Mario Isnenghi). Quella di Negri non era la sua linea, ma Isnenghi non se ne distacca più di quanto faccia con il Socialismo di De Michelis. Per chi non ricordi questi fatti, dirò che si trattava niente meno che dello sbocco degli anni di piombo e che l’accusa originaria contro Negri era quella di “insurrezione contro lo stato”, e che fu comunque condannato in un altro processo. Nel suo libro Isnenghi non ci sembra comunque prendere abbastanza le distanze dal vecchio amico, che, come De Michelis, in seguito non rivedrà più.
Dire qual era allora la linea politica (o ideologica, se vogliamo) di Mario Isnenghi non è certo facile, e forse Insenghi stesso non pretenderebbe di averne avuta e di averne una di sua. E io non proverò a ricavarla dai tanti episodi che si susseguono nelle sue memorie. Per la vita che ha vissuto e anche per non aver voluto vivere le altre, Isnenghi non è stato un referente politico ma un punto di riferimento ideale, nonostante certi momenti, come abbiamo visto, di perplessità.
La parte più bella del libro per me, e allo stesso tempo il suo nucleo più intimo, è nel racconto della sua infanzia veneziana, e in parte trentina e genovese, i luoghi d’origine dei genitori. Isnenghi ne dà una delicata ricostruzione, da vero scrittore qual è. È interessante che anche questo sguardo retrospettivo è già tutto in chiave, se non politica, sociale. Le sue pagine possono ricordare così quelle iniziali della Recherche di Proust, anche se Isnenghi per evocare quell’antico mondo veneziano di nonne e di zie, sullo sfondo del fascismo che sta morendo, non ha bisogno della madeleine immersa nella tazza di tè. Ma già Proust precursore di Isnenghi, aveva notato nella sua Combray, evocata appunto dal profumo del biscotto inzuppato, un mondo tutto diviso in comparti sociali, chiusi in sé, scriveva, come “caste indiane”. E così appare Venezia a Isnenghi bambino e poi adulto che la ricorda. Il classismo è già presente nella sua stessa famiglia, che è un piccolo pezzo di quel conglomerato sociale cittadino, e si ripresenta nelle scuole che già Mario bambino, e poi ragazzo, attraversa. Nessuno si accorge dell’attenzione con cui l’allievo modello osserva la spietata selezione sociale all’opera. Il meccanismo dell’esclusione è presente già alla fine delle scuole elementari, quando gli “esami di ammissione” separavano i figli della borghesia che andranno alla Scuola Media e di lì avanti verso l’Università, da quelli del popolo, che andranno all’Avviamento al lavoro e basta. La Scuola Media Unica, comune a tutti, eliminerà questa biforcazione nel 1962. Ma se ne presenta un’altra tra i Licei e le altre scuole superiori, come gli Istituti Tecnici, che non davano accesso all’Università (fino al 1969). Certo il bambino vedeva gli effetti e non le cause di questi fatti, ma da grande scoprirà anche queste. Lo farà nelle sue letture di pedagogia e nella storia della scuola italiana, letture che lo impegnano già da studente universitario, quando a poco più di vent’anni andrà a Roma a proporre una riforma delle Facoltà di Lettere assieme a un gruppetto di altri ardimentosi studenti.
Il lettore tutto questo lo ricaverà dalle belle pagine descrittive che rappresentano le vecchie scuole veneziane, le loro aule annerite, i vivaci ritratti dei professori delle Medie, di cui il ragazzo precoce osserva con acume le inclinazioni politiche: c’è l’ex partigiano, silenzioso, e quello che è stato invece, e qualche volta è ancora, fascista, già un po’ più loquace (dopo il ’45 le posizioni si erano rapidamente rovesciate, e era al partigiano che si chiedeva di più di stare zitto). C’è il politico attivo nella Democrazia Cristiana. A quei tempi (solo allora?), come diceva don Milani, l’orgoglio del professore consisteva nel trattare come uguali quei ragazzi che avevano avuto dalla sorte ogni possibilità fin dalla nascita, e quelli che, a causa della loro povertà, non avevano ricevuto niente, e pretendeva, il professore, che questa si chiamasse giustizia, mentre è il massimo dell’ingiustizia. Di Don Milani il giovane Isnenghi aveva letto e recensito le Esperienze pastorali. In queste pagine così “partigiane”, l’austero Isnenghi evita ogni sentimentalismo, ma il lettore attento si accorgerà che c’è in lui, ben nascosta, una vena di dolcezza. Così qua e là, ogni cinquanta pagine, affiora la figura del padre, e il lettore capisce che è la persona che Isnenghi nella sua vita ha amato di più. Il papà era partito allo scoppio della guerra e il piccolo Mario si ricorda di averlo visto la prima volta a un suo ritorno a casa in licenza, non sa più se in divisa o no. Una foto lo ritrae sorridente in compagnia di altri due compagni ufficiali. Il figlio si domanderà tutta la vita come un padre così dolce poteva essere stato, e rimanere tutta la vita, seppure in silenzio, fascista.
Isnenghi rievoca l’aria del tempo con acuta sensibilità lessicale. Così per esempio quando, professore “incaricato stabilizzato” all’Università, decide di tentare un concorso a cattedra, il suo Preside di Facoltà lo approva e lo incalza con interessamento: “Chi ti porta? chi ti porta?”. “Portare” nel gergo accademico si dice di chi fa funzione di protettore e padrino, candidandoti prima, e seguendoti poi in tutte le fasi del concorso fino alla vittoria finale (se c’è, se no sei “trombato”). Arriverà anche per Isnenghi la cattedra, nonostante le sue idee non ortodosse (per diventare professori universitari conviene in genere averne poche, di idee, e ortodosse), anche se non lo “portava” nessuno.
Il professore Isnenghi con il tempo invecchia, anche se meno di altri mortali, e invecchiando capita anche a lui di rimpiangere il buon tempo antico, che aveva giudicato prima con tanta severità. L’Università di prima della riforma del 3+2 (del 1999) gli sembra migliore di quella che segue (credo che si sbagli, e lo prova il fatto che dice si aver avuto tanti ottimi allievi dopo e non prima della riforma, e non si chiede come mai). Commissario ai corsi-concorsi per insegnanti, si rassegna malvolentieri al Diktat sindacale dell’avanzamento collettivo (“mobilità verticale”, secondo i sindacati che la promuovevano, aggiungo io). Isnenghi si dice convinto tuttora che il concorso all’antica era meglio. Questa volta gli do ragione, e dico che gliela avrebbe data anche Don Milani, che aveva predicato che la professoressa non doveva selezionare i ragazzi, ma certo non avrebbe mai detto che non si dovevano selezionare i professori.
Il passato di Isnenghi (e anche il mio, che sono stato suo compagno di studi e di esperienze in molti momenti) è stato un impasto di cose buone e cattive, certamente più spesso mediocri e minime che buone, mai sublimi. Nelle situazioni in cui si è ritrovato, si è inserito spesso con ingenuità (da “fesso” e non da “furbo”, scrive), ma sempre con forza morale condita di ironia, e di autoironia. Ha agito da calamita come ogni maestro vero.
Mi scuso di usare il passato: tutto questo è vero ancora per l’Isnenghi che ha passato gli ottanta anni da un po’. Vivat.
[Immagine: particolare della copertina di Vite vissute e no].