a cura di Massimo Gezzi
[Ottava apparizione per “Visite allo zoo”, la rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco Targhetta, Marco Balzano, Marilena Renda, Gian Mario Villalta, Paolo Febbraro e Tommaso Di Dio, oggi risponde Gianluca D’Andrea].
1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?
Ho un contratto a tempo indeterminato dal 2014, dopo l’iter, per la mia generazione tristemente convenzionale, del precariato, durato 10 anni in giro per la penisola (nello specifico Sicilia e Lombardia, con una tappa intermedia a Firenze). Ho sempre lavorato alle scuole medie alternando Lettere e Sostegno. Adesso insegno stabilmente Lettere in una scuola media a Treviglio in provincia di Bergamo.
2) Ho intitolato un contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?
Inizio dalla fine: l’immagine dello zoo per me è “limitante”, fa pensare a gabbie, recinti, zone di clausura. Vero, esiste la questione dell’obbligo, della burocrazia, delle programmazioni, eppure ho sempre percepito la scuola come un passaggio, un attraversamento. Mantenendo una certa aderenza con la tua metafora, allora penserei a un safari, in cui ognuno di noi, senza troppe distinzioni tra alunni e docenti, può accumulare istantanee e provare a elaborare un percorso di crescita. Io, poi, parto da esperienze diverse rispetto alla maggior parte degli autori che hanno già risposto a queste domande (solo Marilena Renda, ha avuto esperienze simili durante gli anni di precariato). Insegnando alle medie, la poesia non ha un ruolo preponderante come nelle programmazioni liceali, anche se in prima con l’Epica e in seconda e terza con i primi approcci alla Letteratura, chiaramente affrontiamo la questione. La dominante con i ragazzini dai 10-11 ai 13-14 anni che si avvicinano alla poesia dopo le esperienze per lo più mnemoniche delle filastrocche elementari, è quella emozionale e questa, per quanto mi riguarda, è una fortuna. In prima media, siamo ancora abbastanza liberi dai pregiudizi sul genere, quindi è relativamente facile impostare il lavoro sulla poesia partendo dalle sensazioni prodotte dal testo nudo e crudo e solo dopo arrivare anche agli aspetti tecnici e alla storia dell’autore che l’ha composto. Quando parlo di emozione, parto da ciò che vedo, le reazioni dei ragazzi, che vivono l’esperienza come un movimento che li porta verso l’esterno, un’alterità inesplorata che la prosa non riesce a suscitare, perché, a detta loro, li “immedesima” nella storia, in qualcosa che riconoscono. In poche parole, la poesia li disorienta e li sorprende (solo due generi che affrontiamo in Antologia hanno questa capacità estraniante e “tensiva”: l’horror e la fantascienza). Chiaramente è una constatazione di massima, è ovvio, infatti, che non tutti possono avere la stessa attenzione o sensibilità, per motivi che esulano la didattica e spesso sono dettati da disagio sociale, psicologico, ecc. La maggior parte del mio precariato l’ho vissuto in scuole di “frontiera”, in periferie urbane dissestate, al sud e al nord del paese senza distinzione, probabilmente ho imparato in questi ambienti la grande necessità di relazione e trasmissione che condiziona ogni linguaggio, poesia compresa.
Forse ho un po’ travisato il senso della tua domanda, credo però che la custodia cui ti riferisci non sia sufficiente, non salvaguardiamo semplicemente una tradizione ma la rimettiamo in circolo, provando a indirizzarne il flusso. Mi sembra necessario correre questo rischio.
3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?
No, goffo no, o meglio, non ritengo la mia goffaggine strettamente legata all’insegnamento della poesia. Inefficace, sì e indifeso semmai (ma questo, forse, è positivo). Controproducente, neanche, per le ragioni espresse nella risposta precedente e perché, concordo con quanto dice al riguardo Paolo Febbraro, ci sono alcune strategie “ludiche” che permettono di incuriosire e fare in modo che i ragazzi “attivino” il testo. Se sei tu a provare a risolvere il mistero, in questo caso a cercare gli indizi dentro il mistero sempre vivo della poesia, difficilmente ti annoi.
4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?
Anch’io sposto l’asse della tua domanda, come altri, sulla lettura. Il piacere dello studio si è affermato in me solo nel periodo universitario, quando alle materie specifiche del corso di laurea affiancavo letture disordinate (i classici dell’otto/novecento li avevo letti in parte durante gli anni delle medie e della prima adolescenza), che svariavano dalla filosofia alla scienza divulgativa, dal cinema al fumetto, ecc., con molta attenzione ovviamente alla poesia. La mia voglia di ricerca “tardiva”, se così posso dire, continua, sono infatti un lettore ancora abbastanza vorace (per quello che permettono gli impegni quotidiani e le due figlie) e, chiaramente, in classe si nota. Quello che mi preme è rendere le mie materie il più possibile trasversali, accompagnarle con informazioni provenienti da altri campi del sapere. Credo nell’interdisciplinarità e ritengo asfissiante la settorializzazione, capisco anche che questo approccio richiede impegno e può risultare difficile ma, se non sbaglio, era Pasolini a dire che l’educatore deve suscitare la curiosità degli studenti rivolgendosi alla loro intelligenza, alla loro voglia di conoscere il mondo, anche con proposte impegnative, appunto. E spesso le cose difficili sono nuove, sono quelle che ancora non sono state rimasticate da un canone, sono quelle che non pretendono di dire come pensare, ma che aiutano a farlo.
5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.
Sì, poesia, narrativa ma anche saggistica. Negli anni precedenti avevamo un blog di classe in cui raccogliere i testi letti e discussi, l’anno scorso abbiamo spostato tutto su Google Classroom (la piattaforma didattica adottata dalla mia scuola durante il lockdown).
In particolare ricordo la lettura e il commento fatto da alcuni alunni di seconda sul testo New Gravity di Robin Robertson e mi è rimasta impressa la grande sensibilità dei ragazzi nel rielaborare e rendere proprio il messaggio etico che caratterizza quella poesia. Sentono molto pressante la responsabilità generazionale, temono che le “ombre” presenti alla fine del componimento possano (cito letteralmente da uno dei commenti) “oscurare le nostre capacità creative”.
6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?
Rientra nei nostri compiti riconoscere e gratificare le inclinazioni, indicare una direzione. Certo, come dice giustamente Fabio Pusterla nel suo intervento, è ogni giorno più difficile incontrare nell’«insieme-scuola» le motivazioni per accompagnare i ragazzi nei territori della lettura e, conseguentemente, della scrittura, ma è allo stesso tempo più necessario ritrovarle proprio oggi che infosfera e iconosfera, teorizzate e approfondite dalle visual cultures, stanno trasformando il mondo nella sua immagine, come aveva preconizzato Heidegger alla fine degli anni ’30. La perdita d’esperienza che ne potrebbe conseguire è veramente preoccupante senza il supporto di un sapere che ci guidi a re-interpretare il mondo che viene. In poche parole, se perdiamo di vista le capacità evocative e immaginifiche del linguaggio senza distinzioni di categoria, potremmo dimenticare la centralità dello scambio, la dialettica relazionale; senza lettura e scrittura (anche delle immagini), intese nel senso ampio di orientamento critico e scarto creativo, allora, la preponderanza iconica che tanto intriga e tormenta le nuove generazioni rischia di spegnere l’immaginario che l’ha sprigionata in residuo sepolcrale, in un mondo perennemente in rovina, anzi, e questo è anche peggio, nello spettacolo della rovina. Il rischio effettivo è la perdita di memoria collettiva e ogni linguaggio, anche quello delle immagini, si diceva, dovrebbe essere attivato affinché questo non si realizzi.
7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innescano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:
Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.
Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?
Sì, mi sembra impraticabile, almeno in maniera così totalizzante. Occorrerebbe rivedere il concetto di esame e anche di interrogazione. Insegnando alle medie, mi accorgo che è difficile far capire ai ragazzi che la valutazione dovrebbe fare da sfondo al dialogo, anzi al discorso che si realizza in classe, alla conversazione che sempre si svolge tra noi e che fa crescere tutti, insegnante compreso. Tuttavia ci provo e devo dire che molte volte arrivano ottimi feedback. L’esperimento della classe capovolta, ad esempio, se ben accolto (anche dai genitori), aiuta i ragazzi a svincolarsi dalla competitività, poiché diventa centrale la collaborazione e passa in secondo piano il voto. Certo, serve combattere le nostre resistenze al cambiamento, trasformare il modo di fare lezione, mi pare fosse Targhetta a sottolinearlo. I libri di testo in senso tradizionale, è vero, non occorrono più, quelli digitali, però, hanno funzionalità interattive e integrative (penso ai materiali utili per i bisogni educativi speciali) che possono stimolare i ragazzi.
8) Ultima curiosità: fai l’insegnante di lettere (o di altro) anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante di lettere (o di altro), da qualche parte nel tuo percorso?
No. La mia migliore insegnante è stata Enza Lombardo, la mia maestra elementare, perché mi ha istruito sul metodo e la costanza nello studio (la passione, dicevo, l’ho scoperta molto più tardi), ma non posso certo dire di aver scelto Lettere a causa sua. Diciamo che la letteratura, la poesia le ho interiorizzate sin dall’infanzia, perché mia madre è una grande lettrice (si dilettava anche con la poesia), così come la sua famiglia d’origine con cui sono cresciuto. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’insegnamento, non in modo diretto almeno, ho scelto questa strada solo verso la fine del percorso universitario, mi sembrava uno sbocco possibile, anche perché per indole (e una certa incapacità nell’accettare determinate regole) non avrei potuto affrontare la carriera accademica, avevo imparato ad allontanarmene già negli anni in cui la frequentavo.