di Sandro Abruzzese

 

Giorgio Bassani è uno dei maggiori scrittori del Secondo novecento italiano. La sua voce inconfondibile, lo stile classico dei suoi romanzi e le grandi tematiche affrontate, hanno trovato larga fortuna all’estero oltre a celebri trasposizioni cinematografiche. Alla lunga carriera va poi aggiunto, non ultimo, l’impegno civile con Italia nostra per la difesa del patrimonio culturale del paese, associazione che egli contribuì a fondare e che accompagnò fino all’ultima parte della sua vita.

 

Locale e localistico

 

Nel rileggere Bassani, oggi, credo sull’autore sovente prevalga un giudizio astratto, ovvero la tentazione, nel benevolo proposito di universalizzarne gli approdi attraverso percorsi magari suggestivi, o insistendo sull’accostamento a modelli pregressi (James, Proust), di sminuirne lo sfondo, non restituendo fino in fondo l’originalità dell’autore. È una sensazione che ritrovo nella restituzione critica di molte rappresentazioni della provincia, troppo spesso penalizzate da una vena di estraneità, forse ritenuta sempre uguale a se stessa, priva di connotazioni di rilievo nazionale. In altre parole il canone letterario, ora ancor più che in passato, tranne che in rare occasioni, appare spinto a conformare alcune realtà marginali, fino a considerarle tutto sommato intercambiabili. Forse con la provincia si teme il provinciale perché lo si confonde col localistico, oppure perché inconsciamente si è pervasi da modelli e schemi urbano-centrici e post-industriali, quindi ben disposti al limite verso le periferie, le Tor Bella Monaca, i Quarto Oggiaro, gli Zen e le Scampia, ma ignari del resto della composizione del paese. D’altra parte ho l’impressione che l’urbanocentrismo italiano abbia prodotto una contro risposta nei sempre più numerosi specialisti della provincia, della montagna, degli Appennini o delle isole: due facce di un unico problema: la cultura nazionale.

 

Il senso dei luoghi

 

Riguardo alla provincia, Bassani è profondamente convinto che l’Italia si possa raccontare, vista la sua storica frammentarietà, solo rispettandone e indagandone le peculiarità, individuando cioè nel rigoroso particolare il germe del molteplice e variegato universo nazionale. Non è l’ambiente di riferimento il discrimine, dunque, bensì la cultura, lo sguardo, a dover essere nazionale.

Egli in tal senso si definirà urbanista, oltre che poeta (interviste p 25), e nei suoi appunti sparsi, in cui tratteggia in poche righe l’anima di Buenos Aires, di Matera, di Napoli, dimostrerà una propensione simile a quella di Alvaro, Carlo Levi, Pasolini, fino a occuparsi a più riprese della Questione meridionale di cui per esempio dirà: “Sono attratto dal Sud, è vero (…) È ancora l’Italia di trenta, quaranta anni fa. La sua gente è delicata, sensibile. Ci sono grandi problemi umani, vivi (…)”.

 

Per tutto il corso della sua carriera, sul suo rapporto con la provincia, il ferrarese è costretto a puntualizzare e difendersi, come quando a Giulio Nascimbeni, nel ’64, risponde: “(…) anche le viscere sono un mondo (…) anche l’infinitamente piccolo ha tutte le caratteristiche del mondo più vasto che lo contiene”. Oppure quando a Piero Bianucci, nel ’69, dice: “(…) mi considero uno scrittore nazionale, non di provincia. E nazionale è il respiro dei miei libri. Certo, sono ambientati in una provincia ben precisa, ma questo succede anche per il Manzoni”.

Non si tratta qui di scrivere per i ferraresi, ma di comprendere il contesto locale, poiché senza questa profonda comprensione non è possibile produrre uno sguardo nazionale.

 

Nel caso specifico di Bassani, poi, ritengo che indagare lo sfondo non induca a un giudizio eccessivamente sociologico o storicistico dell’opera. È chiaro che la sua opera è intrisa dell’eco di altri scrittori e di un approccio visionario che va oltre le aspettative stesse dell’autore, e che forma e contenuto vi si compenetrano in una sorta di risultato classico e contemporaneo, fatto di una totalità organica, frutto di nevrotica, inesausta revisione testuale. Ed è chiaro, come abbiamo detto, che il risultato finale è molto più della storia dello scrittore o di Ferrara. Tuttavia l’opera di Bassani non è pienamente comprensibile se la separiamo dalle vicende sullo sfondo.

Ce lo conferma, per esempio, l’uso insistito della toponomastica che a tratti potrà sembrare davvero eccessivo. Ferrara però grazie a essa vi assurge a simbolo concreto, nevralgico, dove transita e si rinnova la vita. La sua forma pentagona, le mura, le piazze, i vicoli, le divisioni e il dialogo tra le varie città nella città, muovono le vite all’incontro e allo scontro, sono il teatro, il fondale attivo, pieno di risonanze, in cui l’umanità si aggira, come guidata dall’anima stessa del luogo.

 

Di essa infatti dichiarerà lo scrittore: “Ferrara è stupenda anche perché è divisa in due parti. C’è la parte più antica, quella nata per caso lungo il Po come città di pescatori, di trafficanti, di mercanti, ecc. tutta viscerale, contorta, interna, tutta legata alla vita e a ciò che la vita significa. E c’è l’altra parte, quella dedicata alla bellezza e alla morte, nata dopo che il Po, a metà del XV secolo, ha abbandonato per sempre la città”.

Ferrara, aggiungo, è geograficamente un avamposto, ultima città chiusa verso il Delta, tra Valli e canali di acquitrini. La sua fragilità idrogeologica, le bonifiche, come racconta Crainz in Padania, vedono storicamente la presenza nel contado di un bracciantato copioso, da cui il sindacalismo rivoluzionario, il primo socialismo e la conseguente risposta dello squadrismo agrario. Bassani stesso negli Ultimi anni di Clelia Trotti e altrove ricorderà quel mondo dove nascono le prime forme sindacali, quello di Molinella, di Sant’Alberto, di Massarenti e Costa.

 

Dal punto di vista urbanistico ed estetico, inoltre, siamo di fronte a una città dello sguardo, Merleau-Ponty direbbe che al suo interno è la città a scrutarti, e a provocare così il nostro sguardo, e questo rapporto apre a una condizione di estraneità aggiuntiva. Le sue prospettive rinascimentali spingono a desiderare rimandando continuamente a qualcos’altro, sicché il reale, al suo interno si attutisce fino a diventare secondario. È del geografo Turri, ma si presta bene alla condizione descritta, il concetto di paesaggio-teatro. Le geometrie medievali e rinascimentali, opponendo la città entro le mura alla vasta pianura circostante, segnano il rapporto tra finito e infinito, guidando lo sguardo di chi la percorre attraverso le sue numerose prospettive. Sono luoghi che hanno influenzato De Chirico, De Pisis, Antonioni, Vancini, Visconti, Celati, solo per fare dei nomi.

Beninteso, basta attingere a qualche sequenza per cogliere molto dell’approccio poetico bassaniano: nel prologo del Giardino dei Finzi-Contini il Tirreno viene definito un deserto, per poi soffermarsi sul colore dei pianori etruschi: “Qui l’erba è più verde, più fitta, più scura di quella del pianoro sottostante, fra l’Aurelia e il Tirreno: prova questa che l’eterno scirocco, che soffia di traverso dal mare, arriva quassù avendo perduto per via gran parte del salmastro, e che l’umidità delle montagne non lontane comincia a esercitare sulla vegetazione il suo influsso benefico”.

 

È una propensione percettiva e visiva, degna dell’allievo di Roberto Longhi, volta a decifrare qualsiasi elemento di antropizzazione: il paesaggio, il clima, i colori, le forme.

Lo sfondo stesso dell’Airone non fa altro che mostrare il rapporto estetico e etico tra la città e il contado delle Valli, per cui, del protagonista Limentani, la voce narrante dice: “soltanto dopo Codigoro, dopo Pomposa, quando nella luce incerta del crepuscolo avesse veduto delinearsi il paesaggio di terre basse, deserte, intervallate da estensioni di acque in apparenza stagnanti, eppure vive, in realtà, congiunte come erano al mare aperto, soltanto allora gli pareva che avrebbe cominciato a sentirsi a suo agio, a respirare”.

 

Limentani posa gli occhi sull’immenso paesaggio, Pomposa e Volano donano “energia e fiducia”, Volano invece era lì, adagiato “con le sue basse casupole allineate da entrambe le parti lungo la strada che attraversava da un capo all’altro il paese”.

Insomma il mondo di Bassani è in costante dialogo con il paesaggio, lo interpreta, lo scruta e ascolta. E non a caso, tempo dopo, quello stesso paesaggio avrebbe per altre vie ispirato le esplorazioni di fotografi attualmente di culto come Luigi Ghirri e di intellettuali originali come Gianni Celati.

 

Salvare l’Italia

 

Per trarre conferma di questa lettura basta incrociare alcuni dei tanti discorsi tenuti dal ferrarese in qualità di Presidente o associato di Italia nostra, da cui si evince che i luoghi sono il tramite di elevazione nazionale-popolare, di valori universali, di dignità e moralità: “Siamo dei conservatori perché siamo dei progressisti. (…) vogliamo conservare (…) questo Teatro compreso, così bello e poetico, (…) Per noi l’Italia, diciamolo pure, è sacra”.

Non si tratta di astratto compiacimento artistico, bensì di conoscenza profonda dei problemi sociali, politici della nazione, per cui egli aggiunge: “E parlo soprattutto per il sud, per aiutare a risolvere il problema del sud, che è un problema drammatico, tragico (…) so cosa sono i nostri emigrati fuori dall’Italia. Bisogna evitare che continui una tragedia di questo tipo, una tragedia che sicuramente si riflette anche sulla tutela del patrimonio architettonico, storico, artistico (…)”.

 

È l’assenza di una “nazione” italiana a produrre la diaspora degli italiani e dei meridionali, e lo scrittore si occupa di Ferrara perché è un tassello della cultura nazionale, cultura e visione di cui gli italiani sono deficitari perché “l’Italia è passata da una civiltà agricolo-pastorale, in venti, trent’anni, a una civiltà industriale”, e, aggiungiamo, peraltro non dappertutto.

Le mille patrie italiane sono la bellezza e la dannazione del suo popolo, così come il senso della famiglia non è mai divenuto senso dello stato.

 

Ecco perché in Bassani il paesaggio, urbano o rurale che sia, ha una densità profonda e vischiosa, perché egli è poeta, narratore e antropologo, che parla della sua vita, del suo passato. Se ne accorge Alfred Andersch quando definisce Ferrara classica e enigmatica, intuendone il rimando alla perfezione, il silenzio, l’erotismo. O Bruno Zevi che evidenzierà il dialogo tra le due anime della città. E non basta certo appoggiarsi alla celebre trasfigurazione visionaria dell’Addizione erculea, una delle rare invenzioni della sua opera, il luogo e la casa dei Finzi-Contini, per sostenere il contrario.

 

Spartiacque

 

Quando si affronta il rapporto di Bassani con Ferrara, di solito ci si attiene allo spartiacque che ha segnato la sua vita: la promulgazione delle leggi razziali del ’38. Tuttavia ci sono degli eventi antecedenti che cominciano intorno al ’36, i quali determinano una frattura non meno importante, ovvero il suo antifascismo militante. Più volte Bassani specifica che quel mondo morale – l’incontro con i normalisti Claudio Varese e Mario Pinna, con Croce e lo storicismo – lo ha plasmato e vaccinato contro tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito: “Non soffrii molto. A quel tempo ero già completamente politicizzato, ero nel Partito d’Azione e vedevo le persecuzioni come un fatto che non riguardava soltanto noi, ma coinvolgeva tutti gli antifascisti, e anche i contadini e gli operai”.

 

È la medesima prospettiva salvifica che, nel Giardino, la voce narrante attribuisce al comunista Malnate con la funzione di disegnare il quadro della città attraverso uno sguardo esterno: “(…) noi (ebrei) avevamo il torto di ritenerci membri dell’unica minoranza che in Italia fosse perseguitata. (…) Lui (Malnate) avrebbe potuto nominarcene parecchi che non soltanto non avevano mai preso la tessera, ma, socialisti o comunisti, e per questo motivo picchiati e oliati più volte, continuavano imperterriti a rimanere attaccati alle loro idee”.

Bassani scopre così gli alibi e le maschere di un’ideologia, quella borghese da cui proviene, che antepone volta a volta la religione, la natura, la scienza, per giustificare la difesa dei propri interessi e, con essi, il corso della storia. Egli vi oppone lo storicismo. Non ci sono solo le mura, sembra dire Bassani, ma la campagna circostante, fatta in maggioranza di contadini, artigiani e operai. Ed è ciò che l’autore aveva già scritto negli Ultimi anni di Clelia Trotti, quando, nell’incontro del giovane Bruno Lattes con l’onorevole Bottecchari, avvenuto per reperire notizie della maestra antifascista Clelia Trotti, la voce narrante puntualizza: “Eh già, dicevano intanto i suoi occhi azzurri, (…) per vent’anni mi avete guardato con sospetto, evitato e spregiato anche voi (ebrei) come antifascista, come sovversivo, come avversario del Regime, e ora che questo vostro Regime vi butta fuori, ora eccovi qua”.

 

Ecco che Bassani non è Amleto, o Oreste, e dunque non subisce lo strappo nel cielo di carta di cui parla Pirandello, come invece accadrà per esempio a suo padre e alla grande maggioranza degli ebrei ferraresi. Egli è già in una prospettiva azionista, per cui gli anni che vanno dal ’37 al ’43, egli dirà nel ’79, “furono tra i più belli e intensi dell’intera mia esistenza. Mi salvarono dalla disperazione a cui andarono incontro tanti ebrei italiani, mio padre compreso, col conforto che mi dettero d’essere totalmente dalla parte della giustizia e della verità, e persuadendomi soprattutto a non emigrare”.

 

Comunità e società

 

È una storia particolare, quella di Ferrara, che però a suo modo abbraccia l’intera Europa. Una stessa comunità italiana degli anni ’30, con tutt’altro spirito e piglio picaresco, verrà narrata nei primo anni ‘70 da Fellini in Amarcord, ma l’ironia, che pure è presente in Bassani, lascia il campo a vicende tragiche cittadine e alla sua concezione drammatica della vita.

A Ferrara gli ebrei borghesi sono parte integrante della città da secoli, sono ricchi, stimati e quasi interamente fascistizzati. Ferrara per 12 anni esprime un podestà ebreo nella figura di Renzo Ravenna, amico di Balbo. Le mura racchiudono quindi un microcosmo a cui Bassani in adolescenza ha aderito, per poi da azionista definirlo “un vuoto riempito dal fascismo”, così cinico, scettico, arido, provinciale, “come alcuni personaggi che pure non si dicono tali, ma sono relegati ai loro bisogni esistenziali”.

 

La prospettiva egoistica, in un crescendo di angoscia e stupore, alla fine per molti ebrei cittadini, lo sappiamo, si concluderà nei campi di sterminio. A nulla servirà nel Giardino l’opposizione silente e ritirata di Ermanno Finzi-Contini, studioso appartato, che rifiuta la tessera portatagli fin sull’uscio di casa da Geremia Tabet, che inaugura una nuova sinagoga per separarsi dagli ebrei fascisti ferraresi, e la apre, come il campo da tennis del Giardino, ai pochi ebrei non allineati.

Per questo motivo Bassani spesso investe la comunità del ruolo di coro. Così accade col perbenismo ipocrita degli Occhiali d’oro, dove la città è chiamata a giudicare l’omosessuale Fadigati, tollerato finché discreto e appartato, e ostracizzato dopo che si sarà reso colpevole dello scandalo nella relazione con il giovane profittatore senza scrupoli Deliliers.

 

Oppure in Una lapide in via Mazzini, dove del sopravvissuto Geo, ispirato al cugino dello scrittore Gegio Ravenna, è proprio la comunità a parlare: pettegola e prona alla rimozione, devota alla vita che vince su tutto, svetta il suo giudizio conformista.

Geo ricorda il ritorno del soldato dalla campagna di Russia in Napoli milionaria, un ritorno però armato dell’ostinazione cocciuta di un Bartleby. Egli, dopo aver vagato per Ferrara mutando costumi e pelle (dimagrisce, porta la barba lunga, diventa trasandato e molesto), decide infine di scomparire. Se Buchenwald è un inferno senza tempo, in via Mazzini, oltre ai Tupin, ai fascisti, con la primavera ricomparvero fiori e “schiere allacciate di belle ragazze che adagio pedalavano, reduci da gite suburbane, verso il centro della città”.

 

È la vita che, come in Resurrezione di Tolstoj, si rinnova eternamente, “indifferente alle passioni degli uomini”. E Geo la rifiuta perché lui è il mondo morale che ha subito il male radicale. La sua reazione è folle perché se “il tempo aggiusta tutte le cose”, come dice provocatoriamente Bassani, egli “preferisce di no!”.

All’opposto di Geo, quasi vent’anni dopo le Cinque storie ferraresi, troviamo il protagonista di Pasqualino Settebellezze, della Wertmüller, il quale, al ritorno dalla prigionia, in una Napoli prostrata, non dissimile da quella narrata in Napoli milionaria, ritrova la sua giovane spasimante e le dice che bisogna sposarsi e fare più figli possibile, che anzi occorrerà, se si vuole sopravvivere a questo mondo, essere in tanti. È la risposta biologica di Pasqualino-Giannini, il contraltare della scomparsa di Geo.

 

Nel corpo di Ferrara

 

Con le Cinque storie ferraresi, che nel ’56 gli valgono la notorietà e il Premio Strega, lo scrittore racconta una storia di rapporti di classe, senza per questo rinunciare al punto di vista del borghese illuminato, ma anche qui la città, il suo corpo, hanno un ruolo specifico. L’autore era ben consapevole che la campagna, e soprattutto le Valli e il Delta, vedevano braccianti e contadini vivere alla stregua del Terzo mondo, per cui la storia tra Lida e David, come pure quella tra l’infermiera Gemma Brondi e il medico Elia Corcos, sotto questo aspetto è esemplare.

Lida Mantovani viene abbandonata con il proprio bambino dal rampollo David dopo soli pochi mesi di convivenza, senza mai aver ricevuto il rispetto e l’affetto dovuto. Da via Mortara, Lida ritorna in via Salinguerra, dalla madre, anch’essa a suo tempo respinta dalla comunità di Massa Fiscaglia perché incinta di un fabbro partito per Feltre, e per questo approdata tutta sola in città. Il destino ineluttabile decretato dalla comunità si ripete e la necessità stringente che piega i sentimenti porta poi Lida, dopo la prematura scomparsa della madre, dallo squallido David al buon Oreste Bonetti, legatore. Sempre senza scegliere, lasciando che le cose prendano il loro verso, Lida andrà a vivere nel villino fuori San Benedetto, i due saranno felici a loro modo, anche se lei non riuscirà a dare a Oreste il figlio che avrebbe desiderato.

 

Qui i luoghi, come ha intuito Monica Pavani, non sono solo lo sfondo. La città sembra rispondere con la forma, tramite lo spartiacque della Giovecca tra parte medievale e rinascimentale, alla divisione di classe: il villino di Oreste e Lida è un salto di qualità, si trova nell’Addizione erculea, ampia, ariosa, visibile; Oreste Benetti stesso “ne parlava come di un luogo molto più lontano di quanto non fosse realmente: come se si trattasse di un quartiere di un’altra città (…) infinitamente più bella e amena e ospitale”.

Invece via Salinguerra, nel cuore del Castro bizantino, parte medievale, occulta, sordida, viene descritta come “(…) una via stretta serpeggiante che comincia da un piazzale terroso, frutto di un’antica demolizione, e termina ai piedi dei bastioni comunali. Percorretela anche oggi; e l’odore di letame, di terra arata, di stalla (…) tutto contribuirà a darvi l’impressione che vi troviate ben oltre la cinta di Mura, in piena campagna”.

 

Questa stessa divisione di classe viene confermata nella Passeggiata prima di cena, dove la casa di via della Ghiara è borghese, ma – puntualizza lo scrittore – da lì si vede la campagna da cui vengono Gemma Brondi e la sua famiglia.

La Ferrara viziosa, borghese e scettica, microcosmo dell’universo italiano, vile anche perché sfruttatrice di rapporti di classe, dove è lecito approfittare delle donne del popolo e vantarsene, era lì, ci dice l’autore, nessuno vi è passato indenne. Le Cinque storie ferraresi sono la presa d’atto di “tutta la gente tradita e dimenticata di città e di campagna”.

 

Cimiteri cittadini

 

Per l’autore ferrarese i cimiteri cittadini sono i luoghi che, con una funzione nodale e simbolica, ritornano continuamente.

Negli Occhiali d’oro resta indimenticata la sequenza in cui lo scrittore narra il rientro a Ferrara, dopo le vacanze estive, del giovane protagonista alter-ego: “Finii verso sera sulla Mura degli Angeli, dove avevo passato tanti pomeriggi dell’infanzia e dell’adolescenza e in breve, pedalando lungo il sentiero in cima al bastione, fui all’altezza del cimitero israelitico. (…) Guardavo al campo sottostante, in cui erano sepolti i nostri morti. (…) guardando a loro e al vasto paesaggio urbano (…) mi sentii d’un tratto penetrare da una gran dolcezza”.

 

In Altre notizie su Bruno Lattes egli dirà: “Delimitato torno torno da un vecchio muro perimetrale alto circa tre metri, il cimitero israelitico di Ferrara è una vasta superficie erbosa, così vasta che le lapidi, raccolte in gruppi separati e distinti, appaiono assai meno numerose di quanto non siano”. E nella poesia Dai bastioni orientali recita: “Approdando alla Mura degli Angeli con perse voci di campane / i grigi morti da est, si arenano i sarcofagi d’oro (…)”.

Altra protagonista indiscussa della città è la Certosa, il Camposanto comunale cattolico, che ritorna in descrizioni pittoriche, nitide e precise: “Era un posto bellissimo, assicurò, un posto da signori. Non aveva ancora visto, Lida, quel braccio di arcate, costruito di recente, che partendo dal fianco destro della chiesa di San Cristoforo e descrivendo una grande curva, era venuto a completare anche dalla parte della Mura degli Angeli l’antico porticato della Certosa?”, si chiede la voce del racconto di Lida Mantovani nelle Cinque storie.

 

Con Gli ultimi anni di Clelia Trotti ritorniamo alla Certosa, ed è ancora una volta un cimitero, la tomba dei Matuta, a Cerveteri, a consentire l’analogia di una civiltà sepolta dalle altre, gli etruschi dai romani, proprio come gli ebrei soccombono nell’Europa della guerra totale.

Le nostre seconde case sono i cimiteri, dirà lo scrittore, per chiosare poi: “riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo muri di cinta e di divisione, e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini”.

 

Una civiltà, sembra voler dire Bassani, può essere tale solo nella sua storia, nelle storie che diventano Storia, nella poesia, di ascendenza foscoliana, che salva dal tempo attraverso la memoria della giustizia e della verità.

 

Passato e presente

 

Ferrara come società colpevole, dunque, rappresenta lo scenario di una lotta tra identità, memoria e tempo. Il tempo, ancora una volta, “il quale non risparmia proprio nulla”, della notte del ‘43 ha cancellato i fori dei proiettili, l’angoscia, il dolore. La città dal canto suo non solo accettò la violenza, ma diede in seguito all’accaduto il maggior numero di iscritti alla Repubblica di Salò.

Nel rapporto col fascismo c’è quel morire e rinascere di cui il poeta parla nel Giardino: “Nella vita se uno vuole capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare… Capire da vecchi è brutto, molto più brutto”.

 

Morire per rinascere nel suo caso vuol dire acquisire una cultura democratica e antifascista, per essere liberi e contribuire a rendere liberi. Vuol dire avere pienezza morale al cospetto del genere umano, fiducia nella razionalità e nella conseguente possibilità di plasmare le vite secondo giustizia.

 

Ma se con Bassani non è possibile ignorare il passato, incrociando le date, altrettanto si potrebbe affermare del presente. La storia e la poesia, potremmo anzi dire parafrasando l’amato Croce, sono sempre contemporanee.

Se l’omosessualità di Fadigati, negli Occhiali d’oro (’58), è uno scavo che prende le mosse dal passato, che ha presente il Mann della Morte a Venezia, ma resta legato al presente, ispirato com’è alla grande amicizia con Pier Paolo Pasolini, basti ricordare per esempio quando, nel 1960, all’indomani dell’appoggio esterno del Msi alla Dc, nascerà il contestato Governo Tambroni. Ebbene, lo scrittore dichiarerà al quotidiano Le ore: “La Democrazia cristiana è responsabile politicamente e moralmente delle svastiche”, “(…) si decidano una buona volta gli ebrei italiani a essere, prima che borghesi ed ebrei, antifascisti”.

 

In seguito, col Giardino dei Finzi-Contini (’62) egli tratteggia le fattezze di un mondo al tramonto e, mentre assiste alla fine della civiltà contadina per la grande emigrazione nel triangolo industriale dovuta al boom economico dei primi anni ’60, fa altrettanto con L’airone (’68). Limentani, protagonista del libro, è uomo arido, la sua vicenda racconta come al solito di un sopravvissuto, ma non è il solo superstite, anche quello che egli vede nel Delta è un mondo superato. Un mondo in cui le macchine ridurranno gli esseri umani a spettatori privi di coscienza, dove il “domani sarà solo per i dirigenti di questi giganteschi organismi, coi loro clienti”. Per Bassani si tratta di un nuovo feudalesimo.

I luoghi dell’Airone, tra l’altro, sono in quegli anni preda di un’immensa speculazione edilizia volta alla creazione di un insediamento turistico sulla costa ferrarese: “Chi ricorda cosa erano, fino a venti anni fa le sublimi foreste costiere di Casal Borsetti (…) non può non sentirsi stringere il cuore”. Si riferisce ai “caotici, disumani insediamenti urbani che rispondono ai nomi inutilmente accattivanti di Lido degli Estensi, Lido degli Scacchi, Marina Romea, ecc.”.

 

Per Bassani il turismo di massa è una base deleteria per l’economia, il paesaggio non è per gli esteti ma per viverlo, la città stessa è di chi la vive, per questo ci vuole riverenza e sacralità, non turismo, ribadirà in numerosi interventi. La sua opera attinge al passato ma è in costante dialogo col presente.

 

Eredità bassaniana

 

Avendo incentrato la mia rilettura di Giorgio Bassani sui luoghi e sulla particolare comunità ferrarese, inevitabilmente vien fatto di pensare a cosa resta oggi a Ferrara del suo magistero.

A parte i tanti cultori singoli, la Fondazione Bassani, il Centro Studi Bassaniani, e un grande parco fuori mura che prende il nome dello scrittore, a giudicare dai recenti risultati amministrativi, nella memoria collettiva resta ben poco, verrebbe da dire. Ferrara non è mai diventata la città di Bassani. Anzi, ormai da due anni la città è amministrata dalla Lega, partito xenofobo che in città non ha esitato a rivolgersi in più occasioni contro le minoranze etniche, e che la sera stessa della vittoria delle elezioni municipali, provocatoriamente fece coprire lo striscione di Amnesty International in memoria Giulio Regeni con una bandiera di partito, per poi rimuoverlo definitivamente, senza alcuna spiegazione.

 

Tra tentativi discriminatori nella distribuzione dei beni alimentari durante la pandemia, slogan sovranisti anti immigrati, la regressione politica e istituzionale è stata forse senza precedenti. Tuttavia già da un ventennio Ferrara, come il resto d’Italia, vive un repentino e caotico cambiamento nella sua composizione sociale, frutto di immigrazione interna e straniera, insieme a una lenta gentrificazione all’insegna di ristoranti e plateatici che stravolgono i luoghi più significativi (non solo in tempi Covid) e fagocitano artigiani e piccole attività. Lentamente si formano quartieri alti e quartieri divenuti bassi, dove il turismo e le iniziative imprimono la loro nuova forma sul corpo della città pentagona. Nulla di diverso da ciò che è accaduto in precedenza altrove. Nemmeno il linguaggio è esente da questa deriva, il lessico destrorso, la triade risanamento, decoro e degrado, insieme alla proliferazione di festival e eventi continui, hanno trasformato la città in una vetrina per visitatori, da cui non si scorge il suo scollamento interno, ovvero la distanza e indifferenza della base popolare.

 

Che la Lega vi abbia aggiunto trenini turistici, dabbenaggine, una caotica gestione del traffico, ebbene, non fa altro che contribuire a edificare quella città stereotipata, edonistica e apolitica che Bassani in fondo temeva fin dall’inizio. Una città lontana da se stessa, dalle sue peculiarità, in cui la meravigliosa via Ercole I d’Este è ormai ridotta a parcheggio e si attuano rifacimenti patinati ispirati a rendering da archistar in previsione di futuri titoli di giornali e pubblicità varie.

A ben guardare ancora una volta Ferrara parla dell’Italia: il cambiamento non viene indirizzato, i luoghi subiscono le mode televisive e gli immaginari mutuati dall’altrove mediatico, gli interventi rendono il paesaggio urbano simile e indistinto, e ogni luogo retrocede a mera località, proprio perché privato del rapporto col passato e dimentico di quanto di più nobile abbia prodotto la cultura locale.

 

La vittoria della destra in città ha mostrato un frammento vivido di cosa sia un vuoto politico, di piazze vuote e idee confuse. L’Italia tutta, oltre all’atavica mancanza di una cultura realmente nazionale, soccombe a partiti ridotti a comitati elettorali, in cui svettano, culminati nella imbarazzante Riforma del titolo V, i terribili divari territoriali, e le interessate proposte di autonomia differenziata da parte delle regioni più ricche dello stato.

Eppure?

Eppure la città, sebbene distratta, è ancora estremamente viva e vissuta da una compagine sociale variegata, e la mobilità, il costo della vita, l’offerta culturale, restano accessibili e ampie. Le sfide possono essere raccolte.

 

Inoltre, camminando per i vicoli del Castro bizantino o lungo le mura degli Angeli, passeggiando al Cimitero israelitico di via delle Vigne oppure alla Certosa monumentale, e perché no, aggirandosi lungo i canali della campagna, verso Codifiume, Polesella o Ravalle, nel Delta di Scardovari e Boccasette, nelle Valli verso Sant’Alberto, Filo, Anita, d’improvviso si riesce ancora a percepire, proprio come una rivelazione, quel senso dei luoghi di cui Bassani è riuscito a tradurre il significato, inventandone la verità più nascosta, e, con essa, un nuovo, inedito immaginario italiano.

 

Nonostante tutto, a Ferrara, lungo il Po e nella campagna circostante, a Sant’Antonio in Polesine o verso le sue Prospettive infinite, i luoghi ancora resistono, anzi, quasi come per ribadire una lontana idea dimenticata, o quali custodi di un geloso segreto, caparbiamente si oppongono all’esterno.

Il disfacimento, la disgregazione, i mutamenti, qui, nella città murata e nelle terre alluvionali arginate, da sempre minacciate dall’acqua, combattono contro un’antica e arbitraria presa di posizione, del tutto ostile all’invadenza del mondo: il corpo di Ferrara e la sua antica idea di mondo.

Tutto qui avviene più lentamente, senza clamori, ma forse proprio per questo – il passato ce lo insegna – può raggiungere epiloghi profondamente morbosi e avvilenti.

Bassani, a suo modo, ha raccontato anche questo.

 

 

 

 

Bibliografia essenziale

AA.VV., Cento anni di Giorgio Bassani, a cura di Giulio Ferroni e Cinzia Gurreri, Ed. Storia e letteratura, Roma, 2019

Giorgio Bassani, Racconti, diari, cronache (1935-56), Feltrinelli, Milano, 2014

Giorgio Bassani, Opere, Mondadori, Milano 1998

Giorgio Bassani, Interviste 1955-1993, Feltrinelli, Milano 2019

Giorgio Bassani, Italia da salvare, Einaudi, Torino 2005

Guido Crainz, Padania, Donzelli, Roma, 1994

Monica Pavani, L’eco di Micòl, 2G editrice, Ferrara, 2011

Alessandro Roveri, Tra Micòl e il Partito d’Azione, Firenze Atheneum, Firenze 2009

Enzo Siciliano, Bassani, Elliot, Roma, 2016

13 thoughts on “Il senso dei luoghi nell’Italia di Bassani

  1. Uno splendido articolo: complimenti all’autore che è riuscito a cogliere in modo così limpido alcuni aspetti non marginali di Bassani.
    Ho una perplessità di fondo sulla parte finale, perché pare scoordinata rispetto al resto. Da conoscitore delle vicende ferraresi, mi pare poi che l’esperienza leghista non sia qualcosa di inatteso né tantomeno di così sconvolgente. Da tempo il centro-sinistra agiva in modo più discreto, ma sempre attuando politiche repressive e securitarie, a partire dall’arrivo in GAD dell’esercito (era il 2017). Sarebbe più interessante ragionare sulla gentrificazione e sulla trasformazione della città negli ultimi anni, città neoliberale come tante altre della stessa regione, cifra di uno sviluppismo che si può facilmente ritrovare nella stessa Bologna. Sembra che il modello emiliano si sia rivelato per quello che è: una forma di capitalismo dal volto umano che svende la città e la rende effettivamente “stereotipata, edonistica e apolitica” come scrive l’autore.
    Ferrara è però, allo stesso tempo, una città profondamente diversa dalle altre: è quella meno ricca e sviluppata, con i tassi di disoccupazione più alti della regione e con una provincia che ha vaste aree di depressione economica (penso in particolare alla provincia orientale). Ed è anche quella con i problemi ambientali più significativi (dissesto, rifiuti sepolti, turbogas). Sarebbe interessante ragionarci, sia in termini politici e antropologici, ma, perché no, anche letterari.

  2. Ciao Jessy,
    intanto grazie della lettura. La parte finale è aggiunta successivamente, hai ragione, e ha di certo il difetto di riassumere vicende che meritano di essere articolate a parte, in un discorso apposito, per poter essere più precisi.
    Nel paragrafo ho tentato, evidentemente male, di dire che nella città di Bassani e degli ebrei ferraresi, della notte del ’43, oggi le istituzioni discriminano le minoranze e via dicendo.
    Quello che poi volevo ammettere, e capisco il fastidio, è che la regressione è stata incredibile, che c’è una differenza enorme tra il prima e il dopo, la realtà dal punto di vista politico è ben triste, può testimoniarlo chiunque viva questo periodo in città. Poi quando tu mi dici “da tempo il centro sinistra…”, citando il 2017, non vorrei ci fosse un fraintendimento, tieni presente che la maggior parte del discorso che svolgo nel paragrafo in questione è precedente alla lega, infatti io scrivo “Tuttavia già da un ventennio Ferrara vive un repentino cambiamento…”, dunque anch’io mi riferisco al modello emiliano, ma ripeto, forse non sono stato poi così chiaro, per cui preciso qui.
    Quanto al discorso letterario su Ferrara, vi ho dedicato un libro nel 2018, CasaperCasa (Rubbettino). Credo, dalle righe che scrivi, che il tuo discorso sia in larga parte affrontato in quel libro.
    Aggiungo: vieni a Ferrara, appena si potrà, non lasciateci soli.
    Grazie
    sa

  3. “Sui Finzi-Contini si sono dette molte sciocchezze (per pura invidia); la più macroscopica, quella che ne ha fatto un romanzo di memoria, un compianto sentimentale. Figurarsi. Nessun scrittore più di Bassani è stato attento e sensibile a tutto ciò che cambiava, più capace di fiutare il nuovo e dare forma al futuro. I Finzi-Contini furono il best-seller del miracolo italiano, segnarono i tempi del boom e decretarono, insieme alla svolta del centro-sinistra, la fine delle ideologie ‘estetiche’.”

    Cesare Garboli, Pianura proibita, Milano, Adelphi, 2002 p. 150

  4. “ Giovedì 13 aprile 2000 – Poi, mentre sono dall’occhialaio, sento la radio che dice che è morto Bassani. Comunque gli occhiali non erano pronti. « Occhiali d’oro? » Te l’ho già detto una volta: rispetta almeno i morti. (Almeno facessi ridere) “.

  5. La citazioni di Garboli starebbe benissimo nel paragrafo “Passato e presente”, i Finzi-Contini ebbe un successo clamoroso durante il boom. Bassani quell’anno, il ’62, nella ormai celebre presentazione ferrarese, fu letteralmente aggredito da un esponente della borghesia ebraica e dovette interromperla. Dunque, anche Bassani fa pensare all’angelo della storia di Benjamin?
    Aggiungo che è molto interessante, nella genesi dei Finzi-Contini, la contaminazione avvenuta con un altro e precedente best-seller nazionale-popolare, Il Gattopardo, che Bassani inseguì e pubblicò presso Feltrinelli su proposta di Elena Croce, e da cui trasse molto più di uno spunto per il suo Giardino dei Finzi-Contini.

    Adriano Barra, per citare una pubblicità recente: “non fa ridere”… però un po’ sì dai.

  6. “ Venerdì 3 ottobre 2003 – « 31 gennaio 1944, lunedì – L’altro ieri, dal Palatino tutto dolcemente bagnato di aria azzurra e di sole pomeridiano, pareva un temporale che salisse dall’orizzonte. Ma ad ogni modo non preoccupava minimamente le molte coppie di innamorati, abbracciati nell’erba con tenerezze lascive nei gesti, né la frotta di ragazzi sboccati e maneschi che giocavano al pallone tra le colonne mozze e i capitelli semi interrati. La guerra, e il pericolo in genere, invitano all’espansione dei sensi, a una smemoratezza pagana. Curioso è anche come tutta la zona del Foro Romano, dacché si è rilassata la macchina rigida e retorica dell’organizzazione propagandistica del fascismo, riprenda a poco a poco una sua vita desolata e romantica. L’erba ha un vigore nuovo, prepotente e disordinato, a ciuffi neri e scomposti come capigliature. I cancelli e le grate, che delimitavano l’area, pencolano sotto la forza dei muschi, le serrature saltano, corrose dalla ruggine. Lo spettacolo dei marmi gloriosi si va ricomponendo lentamente in quello di un’umida maceria. » (Giorgio Bassani, Roma, inverno ‘44 (Pagine di un diario ritrovato), in Le parole preparate / e altri scritti di letteratura, 1966) “.

  7. “Tanti anni fa, Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani poteva forse apparire come una presa di possesso territoriale analoga ai Dubliners di James Joyce, ma piuttosto improbabile per altre capitali o ex-capitali grandi e piccole come Roma, Parigi, Vienna, Londra. I segreti di Milano di Giovanni Testori o I segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci si consideravano egregi esempi di narratività piuttosto tradizionale a un livello che mezzo secolo fa era medio-borghese, e oggi potrebbe sembrare elitario, agli utenti. Attualmente, infatti, il lettore medio di bestseller desidera piuttosto commissari e noir e killer e delitti e indagini, a Ferrara come a Voghera o a Novara o Matera.”

    Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Milano, Adelphi, 2014 p. 59

  8. “ Giovedì 2 ottobre 2003 – « “ Why does my pen not drop from my hand on approaching the infinite pity and tragedy of all the past? It does, poor helpless pen, with what it meets of the ineffable, what it meets of the cold Medusa-face of life, of all the life lived, on every side. Basta, basta! “ (Henry James, Notebooks, 321) » (Giorgio Bassani, La passeggiata prima di cena, 1953, epigrafe) “.

  9. “ Venerdì 3 ottobre 2003 – « Ma, per finire, vorrei, se mi è permesso, esprimere il mio dissenso da Lattuada per quanto attiene al suo invito, rivolto agli scrittori, ad accostarsi al cinema, a lavorare per il cinema. Quel suo invito, così come lui l’ha formulato, rischia di trasformarsi in un abbraccio mortale. Mi spiego. Fissato il punto che fra cinema e letteratura si leva la barriera discriminante, rappresentata da due “ mezzi “ fondamentalmente diversi (l’autore cinematografico si esprime per mezzo dell’immagine in movimento, lo scrittore per mezzo della parola, e dei segni d’interpunzione): non comprendo perché mai si insista a chiamare gli scrittori a un lavoro, come quello cinematografico, che non può, e non potrà mai essere, il loro. Vuole, un regista, rivolgere un augurio davvero fraterno a uno scrittore? Sì? E allora lo inviti, invece che a collaborare alla stesura delle proprie sceneggiature, a essere più che mai scrittore, a essere il più possibile poeta in proprio, a esprimersi con assoluta e totale pienezza e libertà nella lingua che solo è sua. Le unioni, veramente felici e positive, non avvengono che nella uguaglianza dei diritti. Un rapporto, che sia serio, tra cinema e letteratura, non può realizzarsi altrimenti. » (Giorgio Bassani, [Intervento sul tema: cinema e letteratura], 1965, in Le parole preparate, cit.) “.

  10. “Secondo lui [Mario Soldati] il racconto, come idea, era già bell’e fatto. Non restava che realizzarlo, che metterlo in piedi. E per riuscirci dovevo subito impormi una cosa: piantarla di girovagare per Roma in bicicletta. L’avevo forse dimenticata la raccomandazione del vecchio Flaubert al giovane Maupassant. ‘Meno puttane e meno canottaggio?’ Ebbene lui, a me, si limitava a consigliare meno bicicletta e più tavolino. La bicicletta poteva essere buona per fare delle poesie. Uno pedala, pensa a un verso, si ferma per annotarlo, riparte. Ma per uno scrittore di novelle, racconti, romanzi – obbligato, d’accordo, a tirare fuori tutto ciò che ha dentro, però adagio adagio – la bicicletta era di sicuro dannosissima. “
    Giorgio Bassani, Opere, Milano, Mondadori, 1998 pp. 936-7
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  11. “ Lunedì 15 marzo 1999 – Poi, sempre alla radio, sento Giorgio Bassani che – trent’anni fa – dice che se non c’erano le leggi razziali forse avrebbe fatto il tennista. « È meglio la Coppa Davis o la letteratura? – si chiedeva incespicando sulle parole – È meglio scrivere o giocare a tennis? ». “.

  12. “Lavorava come un sarto, col gessetto. Tracciava i segni e aveva già in testa come far cadere la giacca. Lo aiutava il tennis. Era, come si vede dai Finzi-Contini, un ottimo, eccellente giocatore. Grande scelta di tempo, e sempre incontro alla palla: cercava gli angoli e la spediva a pulire le righe. Un giorno un bello spirito, in un crocchio di villeggianti, sorrise nel vederlo con la racchetta e i pantaloncini. Lo guardò palleggiare e sentenziò: ‘Ah! Se giocasse a tennis come scrive!’ Lo vide poi scendere a rete due, tre volte, e si corresse: ‘Ah!, se scrivesse come gioca a tennis!’”
    Cesare Garboli, Pianura proibita, Milano, Adelphi, 2002 p. 148

  13. “ Mercoledì 17 aprile 2019 – « Bassani era sdegnato e scrisse sull’Espresso un articolo intitolato “ Il giardino tradito “. Era indignato che nel film si parlasse di lui in prima persona, indignato che avessero fatto morire suo padre a Buchenwald, indignato che la sua prima persona proustiana e lirica fosse diventata, per tutto il mondo, la sua autobiografia. » (Dai giornali) (« Farmi accompagnare da Giorgio al cinema era un’impresa pressoché impossibile – ha scritto Portia Prebys -. Se insistevo moltissimo per vedere un film di cui tutti parlavano magari mi accontentava, alla fine. Si entrava al cinema, di tardo pomeriggio, ci si sedeva sempre nelle prime tre file, e dopo circa due minuti, ma esattamente, due minuti dopo l’inizio del film, tirava fuori l’orologio da tasca per vedere l’ora; se era molto buio dentro il cinema, si aiutava a vedere meglio l’ora con l’accendino per i sigari. Sbuffava: troppi primi piani. Guardava ancora l’orologio e poi, entro cinque minuti, si andava via, senza alcun commento. » (Ibid.)) “

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