di Mauro Piras
Che cosa resta del lavoro dell’insegnante? Che cosa resta delle ore che un docente passa in classe con i suoi allievi, delle parole che dice, dei discorsi che ascolta, dei rapporti che intesse con i ragazzi? Molti insegnanti, se interrogati, direbbero “poco”, al massimo il ricordo nel tempo, da parte di un ex allievo incontrato dopo anni, di un maestro che “ti ha dato qualcosa”. La nostra cultura, nel rapporto con il lavoro, sembra privilegiare il modello dell’artigiano: resta di un lavoro il prodotto che si fa, il manufatto. Sotto il primato del pensiero rappresentativo e della cultura astratta, che ha dominato la nostra civiltà, il modello dell’artigiano si incarna nelle opere intellettuali: quando si pensa a un’attività non manuale, il suo compimento viene sempre individuato nel prodotto finito, nel libro, nell’opera d’arte, nella composizione musicale, ecc. L’attività non è in perdita se resta qualcosa di oggettivato.
Nel caso in cui il tipo di attività sociale non sia finalizzata principalmente alla produzione di “oggetti”, il modello dominante è quello delle “posizioni”: una attività lavorativa trova il suo compimento se si ottengono titoli e posizioni, quindi se si costruisce una carriera. Quello che viene oggettivato qui è il ruolo sociale, irrigidito nella certificazione del titolo. Il valore sociale dell’attività e della persona, tramite il medium del mercato, è definito dall’altezza della retribuzione.
Il problema di questo tipo di oggettivazioni è che si lasciano sfuggire una parte enorme dell’agire sociale, in cui gli individui spendono la loro vita, energie, entusiasmo, senza che tutto questo abbia un riconoscimento. Come deve essere pensato il valore sociale di attività che si esauriscono quasi totalmente nei rapporti, nella costruzione di un mondo di relazioni sociali, e non devono necessariamente avere un compimento in un manufatto, in un curriculum brillante e in alte retribuzioni?
Questo è uno dei problemi fondamentali dell’insegnamento. Il mondo della scuola è un mondo di relazioni. È forse l’ambiente di lavoro in cui si incontrano più persone in una giornata, quello in cui la frequenza di parole dette e ascoltate, di discussioni, di persone avvicinate, cui si fanno domande, da cui si ricevono risposte, è più alta rispetto a qualsiasi altro lavoro. Pensate a una giornata media. Supponiamo un insegnante che, come me, ha poche classi, solo tre; se le vede tutte e tre in una mattinata, cosa normale, vede dalle sessanta alle ottanta persone, a seconda dei casi; se ha l’abitudine di parlare con gli studenti, oltre a rivolgersi a loro per le sue lezioni, almeno una ventina di loro, tra tutti, si rivolgeranno a lei o lui, con domande, critiche, commenti, battute, ecc. Nella sala insegnanti, in una scuola di circa cento docenti, come niente incontra venti-trenta colleghi, e in condizioni normali gli può capitare di avere a che fare attivamente (discutere alcuni problemi, chiedere qualcosa, essere interpellato, ecc.) almeno con una decina. Questa è una situazione abbastanza ordinaria. Moltiplicatela per cinque giorni alla settimana, per le trentatré settimane di insegnamento all’anno; più i collegi, i consigli, le assemblee, ecc.
La scuola è una rete sterminata di relazioni. Che tipo di agire sociale è questo? Che tipo di mondo costruisce, visto che non è un agire produttivo in senso stretto? E soprattutto, nel nucleo di questo agire, il rapporto con gli allievi nell’insegnamento, che mondo si costruisce e che cosa deve restarne perché l’attività non sia in perdita? Che riconoscimento deve essere dato perché questo agire si compia naturalmente, in modo non distorto né represso?
1.
In primo luogo, bisogna rivedere il quadro categoriale. Il modello dell’agire produttivo, artigianale, ha dominato a lungo proprio in quella teoria che voleva denunciare l’alienazione del soggetto nell’agire sociale di una società fondata sul dominio. Quel modello ha quindi una grande potenzialità critica. Il processo di umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo, lo scambio organico tra l’uomo e la natura come compimento dell’essenza umana sono il punto più alto, nei Manoscritti di Marx, di questo pensiero critico. Ci permettono di vedere una forma di oggettivazione e la sua alienazione. Ma l’unilateralità di questa concezione dell’agire si paga sia sul lato della percezione dell’alienazione, sia su quello positivo del riconoscimento dell’agire stesso. Per uscire da questa unilateralità bisogna pensare l’agire non solo nel senso del rapporto uomo-natura, ma nel senso dell’intersoggettività. Mi servirò qui dell’analisi di Hannah Arendt in Vita activa (1958).
Hannah Arendt distingue l’agire in labour, work e action. Il primo è il lavoro legato alla riproduzione organica dell’individuo e della società. Un esempio di labour è il lavoro casalingo: non produce un oggetto che resta, ma serve solo a mantenere l’equilibrio con l’ambiente. È ripetitivo e si perde senza lasciare traccia, richiede sempre di essere ricominciato. È la pura ciclicità della vita, come nella riproduzione biologica. Queste caratteristiche ci fanno riflettere su alcuni aspetti dell’insegnamento, se questo non trova la sua forma di stabilizzazione e di riconoscimento. L’insegnamento può essere ripetitivo, e perdersi completamente in una attività che ricomincia sempre da capo, se non si oggettiva in qualche modo. Questa tendenza forse va collegata al fatto che l’insegnamento prolunga, nei diversi gradi di socializzazione, il ciclo biologico della vita, perché si colloca ancora in parte nel processo di formazione dell’organismo, passando dal piano strettamente biologico a quello socio-linguistico. D’altra parte, l’oggettivazione non può essere quella dell’attività produttiva, come abbiamo visto.
Il work è appunto l’agire produttivo, artigianale, che trova il suo compimento nel manufatto, negli oggetti che restano, permangono ben oltre il ciclo della vita e creano il mondo in cui viviamo. La action è invece l’agire sociale fondato sull’interazione tra le persone, sulla costituzione e preservazione dei significati. Qui il “mondo” non è più quello degli oggetti esterni al soggetto, ma è quello dei significati tramandati e delle norme che strutturano il mondo sociale sensato in cui viviamo. È il mondo sociale di cui sempre già facciamo parte, tramite il linguaggio e l’interazione. È la dimensione in cui l’individuo esce dal privato ed entra in uno spazio pubblico.
La scuola si colloca in questo terzo ambito di azione. Ciò che il rapporto educativo produce non è un mondo di oggetti ma un mondo di relazioni, quindi di significati. Tale attività non è perduta se questi significati non si perdono, ma si inseriscono nella struttura delle relazioni sociali, e la prolungano, preservandosi in essa. Come punto di passaggio della socializzazione, questo è piuttosto ovvio. L’educazione e l’istruzione mediano l’inserimento dell’individuo nella società e la sua appropriazione della società; e ciò rende possibile il cambiamento sociale, tramite la capacità innovativa dell’individuo stesso. Ma perché ciò avvenga, la scuola deve svolgere il suo ruolo di mediazione in continuità con le altre forze di socializzazione. In questo momento è tale equilibrio che sembra essere saltato.
Non c’è più continuità tra la scuola da una parte e la famiglia, i media e i gruppi sociali dei pari in cui gli studenti sono immersi. La famiglia vive una ormai indefinita crisi dell’autorità genitoriale, e tende a scaricare le sue difficoltà sulla scuola, o in un conflitto rivendicativo che mina a sua volta l’autorità dei docenti, o richiedendo a questi una funzione di supplenza. I media sono l’ambiente (in)formativo in cui sono immersi gli adolescenti, in modi però che sfuggono spesso agli adulti. I media trasformano però la percezione della conoscenza: la dimensione discorsiva, lineare e narrativa della cultura scientifica consapevole, i tempi lenti della riflessione, sono indigesti per una mente abituata alla simultaneità delle immagini, alla rapidità e alla brevità dell’informazione. Per i gruppi sociali più deboli, che dispongono di meno capitale culturale, la “cultura” dei media rende incomprensibile i tempi lunghi e le forme di autodisciplina che richiede lo studio; il naturale egocentrismo di adolescenti cresciuti spesso al centro dell’attenzione familiare, pieni di risorse, si trova allo stretto nelle forme della didattica (che vedremo tra un attimo) caratteristiche della scuola italiana. I ragazzi dividono così il mondo in maniera manichea tra il fuori e il dentro: la vita è fuori (dalla scuola), la scuola va solo attraversata più o meno in apnea. Di qui l’importanza dei “gruppi dei pari”, i gruppi di cui il ragazzo fa parte come membro alla pari (amici, compagni di scuola), e da cui ottiene il riconoscimento sociale. Questi gruppi sono quelli che determinano la dinamica dei rapporti in classe. Se i gruppi, e i loro leader, sono ostili agli insegnanti, è finita, non è possibile ottenere la collaborazione della classe. Ma lo scollamento tra cultura sociale diffusa, mediata dalla comunicazione di massa, e cultura scolastica, a sua volta irrigidita e carica di limiti, come vedremo, nella maggior parte dei casi rende difficile l’alleanza tra i docenti e i ragazzi.
La rottura dell’equilibrio va vista anche dal lato della scuola. Se si vuole disinnescare la spirale per cui le famiglie si lamentano dei docenti e questi delle famiglie, la scuola deve fare una dura autocritica. In sintesi, accenno solo a due problemi: l’autoreferenzialità del sapere scolastico, e i limiti delle attuali forme della didattica nella scuola italiana. Per entrambi mi limito a parlare delle scuole superiori – e probabilmente dei licei, vista la mia posizione – e soprattutto della cultura umanistica.
Il sapere scolastico, attualmente, stanca anche chi lo trasmette, cioè gli insegnanti. Quale altra prova vogliamo del fatto che c’è qualcosa che non va? Nell’ambito umanistico l’impianto fortemente centrato su programmi rigidi e impostati storicamente, per ogni disciplina, rende tutto ormai pesante e ingestibile. La progressiva specializzazione disciplinare rende impossibile fare la storia della letteratura o la storia delle filosofia con la disinvoltura di quando venivano ridotte a schemi semplici, radicati in forti impostazioni ideologiche, o filosofiche, o legate all’identità nazionale. Nessuno accetta più queste ingenuità. E allora queste “storie” (della filosofia, della letteratura, dell’arte) diventano enormi, impossibili da amministrare, proprio come i manuali che le reificano. Sul lato scientifico non ho le competenze per parlare; noto solo che la cultura scientifica continua a essere maltrattata nei licei e nelle scuole italiane, perché è l’ambito in cui i nostri studenti hanno più difficoltà.
Sul terreno delle forme della didattica si possono dire alcune cose più precise che, per quanto ne so, valgono per buona parte delle scuole superiori. La struttura fondamentale che domina quasi incontrastata è sempre quella fondata sull’abbinamento spiegazione-verifica: il docente spiega degli argomenti, con la lezione “frontale” (come viene chiamata in gergo), e poi verifica cosa gli studenti hanno appreso con interrogazioni e compiti in classe. Questa struttura sembra fatta apposta proprio per “lavorare in perdita”. Tutto passa via, in questo tipo di lavoro, tutto si perde senza fermarsi né in oggetti né in rapporti sociali. La spiegazione rischia di trasformarsi in un monologo che per i migliori dei ragazzi è solo funzionale alla verifica, mentre per gli altri passa e basta. Anche nel primo caso non resta qualcosa di stabile nel mondo. Le verifiche, orali e scritte, non sono in nessun modo forme di oggettivazione (nel senso del “modello dell’artigiano”) delle capacità degli studenti, perché sono uguali, anonime, frammentarie, e per le identità dei ragazzi assolutamente irrilevanti: per molti studenti andare male a una interrogazione non ha niente a che fare con la propria autostima, al massimo è un problema per la media scolastica.
2.
Da queste difficoltà bisogna partire per pensare in modo diverso il compimento del lavoro dell’insegnante e degli allievi. Il primo terreno su cui muoversi, per arrestare questo dissanguamento, è quello delle forme della didattica. Bisogna pensare a nuove forme, in cui si trovi una stabilizzazione del lavoro che si fa, stabilizzazione che permetta di rendere permanente il frutto di questo lavoro, di trasmetterlo nel tempo e di collocarlo in una sfera pubblica accessibile a tutti.
Un primo terreno è quello delle “oggettivazioni” nel senso classico del “modello dell’artigiano”. Vediamo la cosa dal lato degli studenti. Le interrogazioni e le verifiche per gli studenti sono anonime. Inoltre in esse il loro rapporto con la materia da studiare è superficiale: si tratta solo di ricordare quello che il professore vuole sapere. Bisognerebbe invece fare in modo che gli studenti producano qualcosa in cui è in gioco la loro personalità. Già il solo fatto di presentare di fronte alla classe una relazione frutto di un lavoro di elaborazione personale, magari accompagnata da un documento visivo (powerpoint o altro), già questo permette allo studente di dire “questa è una cosa mia”. Si tratta del modello più accessibile in questo senso: un testo con il proprio nome. Inoltre la presentazione pubblica mette in gioco la personalità dello studente molto più dell’interrogazione: perché deve “metterci la faccia”, parlando di fronte alla classe, e perché deve tenere l’attenzione, spiegare, rispondere alle domande, ecc. In questa direzione altre oggettivazioni possono essere testi scritti: bisognerebbe abituarsi alla pratica di dare piccoli saggi da redigere, sulla base dello studio di testi.
Un secondo modo di salvare il lavoro dell’insegnante potrebbe essere riassunto dalla formula “portare in pubblico”. Se il risultato del nostro lavoro sono relazioni sociali, queste possono esistere nella realtà solo se condivise in uno spazio pubblico. Paradossalmente, nonostante la sua natura di lavoro fondato su rapporti intersoggettivi, l’insegnamento oggi in Italia ha degli aspetti di esasperata privatizzazione. Tutto si conclude nel rapporto tra il docente e gli allievi; questo rapporto, che in sé sarebbe pubblico, dopo un po’ diventa privato, perché la costanza del rapporto crea una familiarità per cui, in un certo senso, “tutto è permesso”. Nessuno oltre agli studenti sa cosa diciamo a lezione; nessuno oltre noi conosce le vere capacità dei nostri studenti. Invece tanto i contenuti delle lezioni quanto quelli delle performance degli studenti potrebbero diventare pubblici. Per esempio promuovendo iniziative che abbiamo come obbiettivo una uscita pubblica degli studenti stessi, come organizzare un dibattito pubblico, o delle loro lezioni, o altro. Questa “pubblicizzazione” dell’insegnamento dovrebbe assumere anche altri aspetti, come poter lavorare in classe con altri colleghi, e far lavorare i nostri studenti anche con altri colleghi.
Questi sono solo alcuni spunti. In generale bisogna pensare a forme della didattica che spingano tanto i docenti quanto gli studenti a sentire il processo educativo come qualcosa che gli appartiene, in cui entrambe le parti stanno costruendo un mondo comune. Per muoversi in questo senso è importante allentare la presa dei programmi ministeriali e i forti vincoli imposti dai manuali. Si dovrebbe invece avere la possibilità di costruire insieme degli argomenti, degni di essere approfonditi, a partire anche dagli interessi propri del docente, e con una adesione libera da parte degli studenti. Da questo ultimo punto di vista, anche l’omogeneità del gruppo classe deve essere abbandonata; a certe iniziative non importa che tutti aderiscano, perché vincolati in quanto appartenenti alla classe, è sufficiente che partecipino quelli che sono interessati all’argomento. L’iniziativa può poi concludersi con una uscita pubblica, con un dossier, con documenti informatici e perché no anche con un libro. Tutto questo salva il tempo e le energie spese.
Guardando la cosa non dal punto di vista didattico, ma dal punto di vista professionale, il problema centrale è il riconoscimento sociale del lavoro degli insegnanti. Bisognerebbe muoversi in due direzioni. La prima è quella del curriculum e della carriera nel senso consueto. Il lavoro dell’insegnante deve essere anche appetibile, non è possibile pensare che venga svolto solo da chi “si sente la missione”, o da chi semplicemente ama stare con i giovani. Deve essere una professione con una prospettiva di avanzamento, tale per cui i migliori non si sentano portati a cercare qualcos’altro dopo un certo periodo di insegnamento. Per questo è necessario pensare a una carriera per gli insegnanti, sulla base delle loro competenze. Questa carriere deve essere legata a un curriculum in cui conta il lavoro effettivamente svolto, cioè proprio il lavoro con gli studenti. Va evitata la tendenza a riconoscere solo quello che è facilmente oggettivabile dall’esterno (incarichi assunti nella scuola, ruoli di gestione, partecipazione a iniziative ministeriali, distacchi, ecc.), trascurando così il cuore della professione. Non avanzo qui nessuna proposta specifica, perché è un terreno particolarmente scivoloso, ma è evidente che una qualche forma di valutazione del lavoro di insegnamento deve essere trovata.
Sul piano della carriera, ovviamente c’è anche il problema delle retribuzioni. L’insegnamento, se svolto bene, richiede delle competenze di altissimo livello, molto complesse. Queste competenze non sono adeguatamente riconosciute dai livelli delle retribuzioni, e soprattutto dal fatto che queste crescono poco nel tempo, solo sulla base dell’anzianità di servizio e dei rinnovi contrattuali. La riflessione sul curriculum deve servire ad agganciare l’aumento delle retribuzioni al miglioramento del proprio lavoro, come opportunità aperta a tutti. Il consenso su questo punto tra gli insegnanti adesso è molto diffuso; il problema è solo trovare un sistema di valutazione e di carriera equo, senza cadere nella sterile contrapposizione tra merito e eguaglianza, come è accaduto spesso su questo tema. Una cosa molto importante è che ci siano dei meccanismi di carriera “ufficiali”, pubblici, che eliminino gli effetti perversi delle “carriere informali” che comunque esistono, anche nella scuola. Sulla base di meccanismi informali, infatti, succede che insegnanti con più anni di insegnamento e con migliori capacità riescano a ottenere le sedi migliori, abbandonando le sedi più disagiate (per ragioni di estrazione sociale degli studenti o di collocazione urbana). Queste ultime, quindi, hanno sempre un personale più instabile e meno qualificato, mentre le sedi migliori (quelle che hanno già gli studenti migliori) hanno un personale più stabile e più qualificato. Se si pensa a una carriera formalmente riconosciuta, si può pensare anche, per esempio, di farla dipendere dal contributo che si dà al miglioramento di scuole con situazioni disagiate: con incentivi per chi decide di insegnare in quelle scuole e di risiederci più a lungo, con una accelerazione della carriera, ecc. Se non si interviene in questo senso rimarremo sempre nella situazione attuale: gli studenti peggiori hanno i professori peggiori o meno motivati o di passaggio, e gli studenti migliori continuano a godere del privilegio di avere l’élite del corpo docente italiano.
Ho letto con interesse l’articolo da lei scritto. Condivido quanto afferma circa la rigidità dei programmi scolastici… A me, anche se insegno da pochi anni sta un po’ stretta….
Insegno lettere in un liceo. Quest’anno ho due classi, di cui una prima. E’ una classe di bravi ragazzi, pure simpatici. Peccato che studino poco. Qualche settimana fa abbiamo letto alcuni brani tratti da romanzi gialli. E la conversazione è scivolata dai delitti al carcere e da lì al pensiero di Cesare Beccaria e, andando più sul concreto, alle strutture carcerarie “riabilitative”. Abbiamo parlato del carcere di Padova. Poi un’alunna mi ha chiesto delle strutture carcerarie di Torino. Le ho confessato che non sono informata in merito ma che nell’Ottocento all’avanguardia, per le carceri femminili, è stata Giulia Barolo.
L’argomento è piaciuto… Gli alunni erano interessati… Da lì è nato un lavoro di gruppo, portato avanti alcune lezioni.
I testi “gialli” non li abbiamo letti tutti, come volevo, ma credo che quanto i miei alunni hanno “scoperto” sul carcere almeno per un po’ se lo ricorderanno. Hanno trovato l’argomento interessante… Questo, secondo me, fa “sedimentare” una conoscenza.
Perciò convengo con lei che la nostra scuola è troppo rigida nei programmi e io stessa come insegnante talvolta sono troppo legata alla fatidica programmazione annuale.
Saluti.
Silvia Gillio
Trovo l’analisi di Mauro Piras molto accurata e azzeccata. Approfitto però di questo spazio per sollevare un tema di riflessione di particolare attualità: la consultazione pubblica telematica indetta sul sito del MIUR (http://www.istruzione.it/web/ministero/consultazione-pubblica) sul valore legale del titolo di studio. Così come viene posta la questione, a me pare un ulteriore attacco al sistema scolastico e universitario, un modo per screditare l’istruzione pubblica e negare uguaglianza nell’accesso al diritto allo studio. Sarebbe davvero opportuno che si partecipasse numerosi all’indagine, che si chiude il 24 aprile 2012.
Ciao,
l’articolo è interessantissimo nell’analisi dei dati di fatto. penso che chiunque abbia una qualche pratica di insegnamento possa condividere. Quello che mi lascia perplessa è la parte propositiva; parte non facile, certo. io ho l’impressione che il margine di manovra a partire dalla prassi didattica e simili sia estremamente esiguo, perchè non intacca le radici profonde. il rafforzamento del ruolo sociale dell’insegnamento e della pratica didattica non possono essere endogene, autoalimentantesi in una realtà che non le supporta. Il problema è l’altro, ciò che c’è fuori: se la realtà fuori dice che certe pratiche relazionali sono inutili, inessenziali, onanistiche, è difficile trasformarne la percezione agendo dall’interno. Certo, resta vero che qualcosa bisogna pur fare, e che invece di piangersi addosso, è sempre meglio cercare il modo per forzare i confini del labirinto.
Ho letto con interesse l’articolo proprio perché in questi giorni, in seguito ad un’iniziativa nel nostro sito http://samgha.wordpress.com/2012/03/15/i-classici-che-fingiamo-di-aver-letto-la-nostra-top-ten/ ci siamo ritrovati a discutere di percezione, in questo caso dei classici della letteratura.
Nei commenti è emerso ovviamente anche il problema di come la scuola contribuisce o meno a questa percezione. Sarebbe interessante che insegnanti e “operatori culturali” fornissero il loro contributo a questa mappatura, perché dietro il gioco proposto c’è il desiderio di confrontarsi sul tema della trasmissione della conoscenza (in questo caso nel campo letterario). E credo che gli insegnanti potrebbero aiutare molto mettendosi in gioco. L’inziativa proseguirà il mese prossimo con una prima analisi della classifica e dei suoi risvolti. Certo poi il tema è talmente complesso che ci vorrebbe un anno per affrontarlo a livello propositivo…
Anche io condivido e apprezzo molto l’articolo, in tutte le sue parti. Rispetto a quanto dice Marina Polacco, credo che invece sia possibile anche un’iniziativa a livello individuale, anzi che sia necessaria se non si vuole cadere nella depressione della routine e dell’appiattimento, perché- e questo è un punto che non è stato trattato- nella scuola c’è poca condivisione, non solo verso l’esterno, ma anche ormai (o forse sempre) al suo interno. Non c’è condivisione dei contenuti, non c’è più condivisione delle pratiche, non c’è condivisione dei problemi. Anche questo è un aspetto della “decadenza”, anche se credo sia speculare a un atteggiamento di ripiego comune anche nel sociale, di cui quindi non va incolpato solo questo specifico settore.
Ancora una piccola osservazione sull’accenno al divario tra docenti e alunni per quel che riguarda le modificazioni che l’uso delle nuove tecnologie da parte degli studenti e l’ignoranza dei docenti (non tutti, ma tanti) su questo (insieme a una certa tendenza alla demonizzazione di certi strumenti) : anche questa mi pare una questione di non poca rilevanza, che andrebbe posta al centro del ripensamento della scuola.
Condivido profondamente la riflessione del prof. Mauro Piras. I docenti e gli studenti della scuola media inferiore e superiore hanno un gran bisogno di senso.
La strada dell’adeguamento della scuola alla vita dell’adolescente di oggi è lastricata di difficoltà e di fraintendimenti perchè tutto si gioca nei termini che indicano la sostanza. Adeguare la scuola alla vita non significa fare sconti, non significa non studiare più ma significa aprirsi al senso dinamico, personale e privato della cultura.
E’ questa la pars costruens del discorso di Mauro Piras. La lezione in classe è una costruzione di significati in cui ognuno ha la sua parte. Una parte che tutti – docenti e studenti -approfondiscono anche fuori della classe, a casa. Una volta di nuovo in classe, ognuno se ne assume la responsabilità. Metterci del proprio è stata sempre prerogativa del docente. Se riescono a farlo anche gli studenti, allora, si è sulla strada del senso.
Lavorare perchè la classe non sia composta da persone che ripetono quello che scrive il manuale o che leggono negli appunti è un obiettivo difficile perchè cozza con i programmi ministeriali e con la facilità di valutazione delle nozioni. I nostri allievi oggi sono più o meno buoni ripetitori, dipende dalla provenienza socio-culturale. Se è molto bassa, il sistema scolastico li respinge, se è alta li premia con voti alti. Il valore intrinseco è lo stesso. Ripetere resta un’azione importante che non può tuttavia essere separata dal fare esperienza culturale. Entrambi questi aspetti determinano l’apprendimento.
Inoltre nella ricerca di senso che dovrebbe essere un’esigenza della scuola, c’è anche l’importanza di intercettare la cultura informale degli allievi, rafforzata da anni di frequentazioni dei media.
Gli studenti hanno un loro percorso culturale che la scuola ignora perchè è una matassa davvero difficile da districare. Questo è il loro campo di esperienza e, oggi, quasi sempre, la scuola finge che non esista .
La sfida di senso per la scuola – cioè per i docenti – sta in una mediazione tra la tradizione di cui è depositaria e l’innovazione della società della conoscenza. Servono agli studenti strumenti che spesso non hanno, complice l’età ma anche gli obiettivi non raggiunti proprio dalla scuola. In questo terreno si gioca la partita finale della scuola.
Ringrazio Mauro Piras per la sua riflessione.
Grazie a tutti per i commenti.
Alcune osservazioni.
Cara Silvia,
il problema non è solo la rigidità dei programmi, ma portare i ragazzi a svolgere un ruolo attivo. Per questo bisogna cercare di impostare un lavoro che duri, in cui si abbandona la struttura tradizionale spiegazione-interrogazione. Una volta organizzato questo lavoro, si può svolgere il programma con una certa disinvoltura; va ricordato che noi, sulla carta, abbiamo una certa libertà di intepretazione dei programmi, e anche di modulazione dell’orario. Bisogna prendersela.
Ciao Marina,
concordo sul fatto che i problemi hanno radici profonde. Infatti penso che le soluzioni debbano essere in primo luogo istituzionali, al livello della politica scolastica. Questo testo parla poco di questo livello più generale (tranne che per la parte relativa alla carriera degli insegnanti) perché è nato in un contesto di riflessione diretta sulla didattica.
Allo stesso tempo, penso anche che si possa fare molto già modificando la nostra didattica. In questo, idealmente, bisognerebbe muoversi non in modo individuale, ma cercando di coinvolgere il collegio docenti o almeno gruppi di docenti. E’ molto difficile in questo momento, però se si vuole porre la questione didattica in modo politico questo è il metodo.
Ciò detto, io per ora mi sono mosso individualmente. Da gennaio 2011, in due delle mie tre classi ho abolito con un tratto di penna la struttura spiegazione-interrogazione, e ho organizzato un lavoro piuttosto diverso. Non lo espongo qui per non annoiare. Dopo più di un anno ho questi risultati: io sono molto meno stressato, perché non devo tenere la cattedra (anche se lavoro di più a casa per organizzare questo tipo di attività); i ragazzi, che devono esporre spesso, parlano di più e si esprimono meglio; hanno un rapporto più analitico con i testi che devono preparare a casa e mettere insieme per le loro presentazioni; hanno imparato a costruire un percorso ragionato attraverso testi e a leggere dei testi (brevi) di filosofia; hanno imparato a fare degli embrioni di bibliografia-sitografia, e sanno usare le note a pie’ di pagina. Soprattutto: il clima in classe è molto buono, discutiamo insieme del metodo (piuttosto improvvisato, all’inizio), e mi hanno dato suggerimenti per correggerlo.
Vengo qui alla questione della relazione: non è un problema nostro, “onanistico”. Modificare la relazione in classe in modo da renderla più gratificante e più produttiva per i ragazzi è proprio quello che la società ci chiede. Ed è proprio il punto su cui la scuola italiana fallisce miseramente. L’ultimo studio della Fondazione Agnelli, sulla scuola media, mostra che gli studenti italiani sono quelli che giudicano peggio il loro stare a scuola, alle medie (soprattutto) e alle superiori. Le famiglie (quelle serie) vogliono la formazione e anche che i loro figli siano soddisfatti a scuola. L’ho toccato con mano al ricevimento parenti dopo avere cambiato il mio metodo.
Poi, certo, se non si mette mano a tutte le questioni di cornice (orari, programmi, bocciature, ecc.) il lavoro individuale è difficoltoso. Ma l’autonomia ci offre già molti spazi normativi da sfruttare.
Cara Alessandra,
grazie per le osservazioni. Solo una cosa: da quando lavoro intensamente con internet e la LIM mi sono reso conto che molti studenti non sono così competenti come sembra. Sarebbero necessari investimenti e tempo per formare i docenti e spingerli a introdurre di forza le innovazioni, imponendole anche ai ragazzi (che in prima battuta sono conservatori, perché hanno paura dell’incertezza). E ci vorrebbero più docenti giovani, questo è un dramma.
Cara Enrica,
grazie per il tuo intervento ricco e stimolante, condivido del tutto l’analisi.
Il problema è proprio fare in modo che nel lavoro in classe anche gli studenti costruiscano. Anzi, che il lavoro in classe lo facciano loro. Io credo che il modo per farlo sia questo: rompere il tabù della spiegazione. Non è vero che gli studenti hanno bisogno delle nostre spiegazioni. Gli studenti hanno bisogno di studiare, a casa come in classe. Quindi di lavorare, di fare. Bisogna quindi abolire le spiegazioni, e organizzare delle attività condotte dagli studenti. Deve essere un’organizzazione precisa, anche rigida, con consegne ben definite. Facendo (o meglio facendo fare) parti piccole di programma. Rompendo un altro tabù, che tutti debbano fare tutto. Non importa: se alcuni si studiano analiticamente l’inizio dell'”Etica” di Spinoza, e altri fanno lo stesso lavoro analitico sull’inizio della “Seconda Meditazione” di Cartesio, va benissimo così.
Comunque, la prima cosa è abbandonare la cattedra. La classe dal fondo dell’aula si vive benissimo, te lo garantisco.
Ho letto con grandissimo interesse l’articolo. Le riflessioni puntuali e il riferimento ad Hannah Arent mi hanno fatto pensare a tante discussioni con i colleghi a fine giornata, quando si è stanchi e non si riesce a non chiedersi cosa resterà ai miei studenti? Quando si cerca la risposta solo e soltanto nelle interrogazioni o nei compiti in classe in cui i più bravi ci ripetono una brutta copia delle nostre spiegazioni (spesso poi il risultato è specchio crudele di quello che hanno ricevuto) e i peggiori tacciono. E’ chiaro che non può funzionare così, me lo dico anche quando la coazione a ripetere un modello frustrante per tutti è più forte della mia capacità di innovazione. Non esistono ricette e ricette efficaci per i diversi gradi di istruzione: elementari, medie, superiori, università, ma esiste la possibilità di confrontarsi sulle cosiddette “buone pratiche” che hanno almeno l’effetto (per me è così) di farci vincere il senso di inadeguatezza con cui troppo spesso dobbiamo fare i conti.
A chi ha voglia di curiosare nel nostro sito, segnalo un’iniziativa che mi ha permesso di incontrare molte persone decise a rilanciare il dibattito sulla scuola in tutte le sue declinazioni: http://www.lapaginachenoncera.it.
Per la prossima edizione pensavamo proprio a una riflessione sui classici.
Bellissimo intervento, Mauro, che sfrutta la forza di chiarificazione dei concetti di Marx e Arendt per far ordine in alcuni aspetti della didassi che quasi sempre restano impliciti e perciò inavvertiti.
Sottoscrivo appieno tutte le tue parole e sono felice che inviti al cambiamento siano avanzati da chi sa di cosa stiamo parlando e qual è il modo giusto per parlarne. Prendo spunto dalle tue parole per fare alcune considerazioni su un grave rischio di cui vedo la minaccia in velleità riformatrici ben meno lucide della tua.
Sono perfettamente d’accordo con te quando individui uno dei problemi dell’insegnamento odierno nella opacità del prodotto dell’atto didattico e perciò nella impermanenza dei suoi effetti sugli studenti. Credo che quando si critica la lezione frontale, assumendola come simbolo e sintesi di tutto un modo di insegnare definito “tradizionale”, molti, senza neanche accorgersene, abbiano in mente quello che hai esplicitato con tanta chiarezza.
Ora, di solito mi capita però di avere moti di insofferenza verso chi critica la scuola “tradizionale”: questa volta no. Sono convinto che ciò dipenda dal fatto che nel tuo discorso si riesce a vedere una capacità di analizzare i fatti sine ira et studio, di individuare laicamente problemi, di proporre con pacatezza soluzioni: precisamente il contrario di ciò che sento e leggo di solito. Infatti i discorsi della maggior parte di coloro che polemizzano con la scuola italiana e la accusano di decrepitudine (non ultimo il nostro ministro, che ha trovato il correlativo oggettivo della sua insofferenza nei banchi di formica verde e nella lezione frontale identica a quella “degli anni Sessanta”, come ha raccontato a Repubblica Tv), hanno tutt’altro tono, accento, gusto. Nel tuo intervento riconosco le qualità della precisione, della passione non ideologica, del pragmatico desiderio di cambiare le cose con cautela (intelligente cautela, da non confondere con la pavidità, le autoassoluzioni previe e le giustificazioni pelose del genere “tengo famiglia e tengo pure poco tempo per cambiare” di alcuni colleghi); nelle polemiche di cui parlo invece vedo genericità, risentimento dell’adulto verso la scuola per la noia provata da ragazzo, fumi ideologici, giacobinismo e ridicole volontà di rivoluzionare l’esistente bruciando il presente e il passato nel fuoco della palingenesi di una scuola tecnologica, ludica, fatta da insegnanti ridotti a “facilitatori”.
Il dibattito pubblico (politico, giornalistico, ma ahimé a volte anche quello alimentato dai pedagogisti di ambito accademico), il “sentito dire” ripetuto da non pochi studenti e genitori, talvolta anche da alcuni colleghi, riducono infatti tutta la faccenda allo slogan “la scuola italiana è vecchia e bisogna cambiarla” e vorrebbero che ci gettassimo tutti fideisticamente nelle braccia del dio del nuovo. Penso alle semplificazioni che confondono i mezzi con i fini e le tecniche con i contenuti: quando, ad esempio, sentiamo lodare le magifiche sorti e progressive del portatile ad ogni ragazzo e della LIM in ogni classe e opporli al modello della scuola che trasmette solo contenuti e dell’insegnante che si mette dietro la cattedra e sproloquia, ci imbattiamo appunto in questa confusione. Da un lato infatti abbiamo dei meri mezzi tecnologici, dall’altra una filosofia intera della scuola e della sua organizzazione di sistema, che è bene ricordare che ha avuto una sua coerenza e una sua forza in passato, anche se ora l’ha persa.
Credo che il modo giusto di affrontare il problema del rinnovamento della scuola sia invece un altro, più scabro e senza fanfare: nella trasformazione e crisi di ogni istituto educativo tradizionale (famiglia, scuola, oratorio, …), davanti alla attuale saturazione di informazioni veicolate da media sempre nuovi e alla ristrutturazione che i saperi stanno conoscendo sotto l’impatto della connettività offerta dalla Rete, della loro accessibilità virtuale da ogni punto dello spazio, della loro instabilità e transitorietà (le voci di enciclopedia di Wikipedia che possono essere “democraticamente” modificate), di fronte al dilagare dell’iconismo e della multimedialità, e, per contro, della proliferazione di iperspecialismi disciplinari e di micronicchie quasi carbonare disperse nella babele di Internet, sarebbe auspicabile lo sforzo, anche collettivo, di individuare alcuni nodi di sapere essenziali e irrinunciabili e di lavorare con convinzione su quelli.
Non dobbiamo perciò accogliere entusiasticamente il nuovo, ma comprendere se la novità serva o no alla salvaguardia di quei saperi. Faccio un esempio concreto: credo siamo tutti d’accordo che la capacità di redigere testi scritti coerenti, coesi, corretti da un punto di vista morfologico, sintattico, ortografico, sia una competenza fondamentale (en passant: non si può più credere che l’imparare a scrivere sia una faccenda riservata alla scuola dell’obbligo. Bisogna scrivere, e tanto, anche nella scuola superiore: ecco una ragione per la quale non si può, come dici tu, ridurre l’insegnamento-apprendimento allo schema “lezione frontale-verifica”. I ragazzi devono scrivere e, anche se questo rappresenta una scocciatura in più, il compito non può essere più demandato al solo insegnante di lettere: mi pare che anche tu, che insegni filosofia e storia, pensi qualcosa di simile quando parli di far redigere ai ragazzi piccoli saggi sulla base dei testi di studio, che saranno perciò anche quelli di scienze, fisica, arte, …). Bene, allo sviluppo di questa competenza fondamentale possono contribuire un pc o una LIM? Alcuni insegnanti sapranno usarli intelligentemente (per fare un esempio assai banale: proiettando sullo schermo della LIM alcune frasi scorrette tratte dai temi dei ragazzi ed elaborando collettivamente una o più correzioni efficaci), e allora la risposta sarà sì; altri no, si troveranno a disagio o li useranno riduttivamente né più né meno che se fossero una lavagna o una pagina di quaderno, e allora la risposta sarà no. Ma per questo il loro insegnamento dovrà essere considerato inattuale e la loro azione inefficace al fine di insegnare ai ragazzi a scrivere? Direi di no, visto che per questo scopo abbiamo sempre usato carta e penna e forse il nocciolo dell’apprendimento della scrittura può essere veicolato anche così.
Dire che nella scuola nulla è cambiato dagli anni Sessanta è perciò falso: essa invece è cambiata, e anche tanto, benché forse insensibilmente. Siamo passati da una scuola dove si dava del lei agli studenti a una scuola dove si è generalizzato l’uso dell’orribile “prof” (appellativo che noi stessi insegnanti accettiamo di buon grado, forse perché ci dà l’illusione di guadagnare una vicinanza emotiva e personale in risarcimento della perdita di autorevolezza), da una scuola nella quale si dava da studiare Boiardo nell’avviamento professionale (l’ho sentito raccontare a un ex preside ed ex insegnante in una conferenza) ad una nella quale è consueto dedicare non poche ore ai vari progetti di educazione stradale, ambientale, sessuale, al posto dell’italiano, della matematica e della lingua straniera. Non vedere tutto questo, solo perché ci ha preso la mano pian piano, quasi senza che potessimo accorgercene, e propalare invece la storiella che tutto è vecchio e immutato, è una genericità che confonde le acque invece di rischiararle.
Ma vorrei dire che ci sono pratiche didattiche che non possono essere mandate in soffitta da nessuna nuova tecnologia. Una fra le altre, la lettura in classe e l’ascolto, per la quale bastano un libro, una voce, delle orecchie e dei cuori che ascoltano. Fondamentale nella scuola elementare, è importante comunque anche in altri ordini di scuola. Se un altro dei nodi fondamentali del sapere di oggi è, credo, proprio stimolare il piacere della lettura, esso non può nascere che dalla voce e dal corpo dell’insegnante, che racconta quelle storie che altri bambini e ragazzi prima di quelli che frequentano oggi la scuola hanno ascoltato e dalle quali si sono lasciati affascinare. Si tratta di una pratica didattica passiva? Certo, valutare l’impatto cognitivo ed emotivo di una lettura ad alta voce fatta dall’insegnante è difficile, ma non è detto che qualcosa, solo per il fatto di essere non solo non misurabile, ma addirittura non percebile, non esista e non agisca.
Ho l’impressione che oggi il dibattito pedagogico sia un po’ troppo schiacciato su di una fraintesa centralità del discente, sulla base dell’assunto, assolutamente condivisibile ma eretto a dogma, che “se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. Non vorrei infatti che la “rivoluzione copernicana” pedagogica che mette al centro il bisogno di apprendimento del discente e non il sapere del docente, contro la cui fondatezza nessun insegnante dotato di buon senso potrebbe muovere obiezioni, perdesse però per strada, per un eccesso di unilateralità, una qualità della scuola del passato che io credo si debba difendere: un certo sentimento del bello, addirittura un senso in qualche modo del sacro; ovvero, in altre parole, l’istintivo e indiscutibile rispetto e ammirazione per le grandi opere umane del passato, siano esse le Fiabe di Andersen, le poesie di Montale, i dialoghi platonici, il Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galilei, la cappella degli Scrovegni di Giotto, la Sonata a Kreutzer di Beethoven. Senza la meraviglia per queste invenzioni, di fronte alle quali le parole che tutti noi spendiamo ogni giorno scolorano nell’accidentale e nell’approssimato, rischiamo di autorizzare una deriva egocentrica, per la quale il diritto democratico di parola e la facoltà di critica dell’autorità slittano verso l’arbitrio soggettivistico della assoluta rilevanza attribuita alle proprie privatissime, irripetibili impressioni e preziosissime opinioni. Sto pensando a qualcosa che già si vede in rete, grazie al per altri versi formidabile mezzo (lo stiamo usando qui…) del commento libero.
Notava qualche mese fa su Repubblica Loredana Lipperini, in un bel pezzo intitolato “Se il lettore riscrive i romanzi”, come in alcuni blog e social network dedicati alla lettura stia emergendo una figura di lettore, che forse con troppa magnanimità essa definiva “critico o attivo”, che si sente legittimato a dare sui classici giudizi come questi: su La montagna incantata, «mio Dio, succederà mai qualcosa in questo libro?», sul Ritratto di Dorian Gray, «ha un buon soggetto ma è scritto in modo insopportabilmente lezioso», su I promessi sposi, «la storia non funziona, andavano limitati i giudizi personali dell’autore a vantaggio della trama».
Questi, mi pare, non sono discussione e smontaggio critici del testo, ma parole in libertà dettate da improntitudine e superficialità, scritte da chi pensa di poter misurare tutto il passato sul metro angusto del proprio tempo, con un impressionante appiattimento sul contemporaneo deteriore: pensare infatti di poter ricondurre classici come quelli di Mann, Manzoni e Wilde, anche qualora non piacessero, alla logica tecnicizzante e professionsitica delle scuole di scrittura creativa, dove l’attività eminentemente ermeneutica (ed esistenziale) dello scrivere è ridotta né più né meno che all’arte consumata del confenzionare pregevoli trame, è sciocco; specie se, sulla base di questo assioma, si propone una sfrondatura di parti dell’opera di Manzoni che invece ne fanno quel capolavoro di romanzo e anti-romanzo, o romanzo problematico, che è, o si giudica lento e tortuoso un romanzo d’idee come La montagna incantata. A Manzoni e Mann non (solo) la trama interessava, ma la lingua e il suo peso, e riflessioni di ordine politico, storico e filosofico, come la violenza del potere, la presenza del male nella storia, la Krisis primonovecentesca. Infine, Wilde sarà probabilmente lezioso, ma non si può ignorare che ciò è una precisa scelta di poetica e stile decadentista.
Detto diversamente, la scuola non può rinunciare primariamente a un’educazione che sia paideia e si tradisce questo mandato sia se si schiaccia lo studente, come una volta, sotto il peso di sistemi filosofici, critici, estetici dei quali deve semplicemente limitarsi a ripetere il dettato, sia se, come si rischia di fare invece oggi con troppa disinvoltura, gli si concede la libertà di dire più o meno tutto quello che il testo gli fa venire in mente, riconducendone la complessità al proprio mondo psicologico ed esperienziale (che sarebbe anche ricchissimo se non fosse anestetizzato e rimpiazzato da categorie di interpretazione e codici di comportamento dettati dal totalitarismo dei consumi e del conformismo sociale). Avrei orrore di una scuola simile a quella ritratta da Spike Lee in una scena del suo film La venticinquesima ora, dove un mediocre insegnante, privo di idee proprie, di personalità e di una solida formazione letteraria, fa sedere in cerchio i ragazzi (ché, si sa, i banchi posti di fronte alla cattedra sono emblema di una didattica trasmissiva e unidirezionale…), legge un brano e poi chiede di commentarlo, ottenendo da una studentessa la risposta che il senso della storia è che “lui si vuole fare lei”. Stop.
Io sinceramente non vedo chi altri possa guidare a una comprensione vera e profonda dell’arte, della scienza, della poesia e della filosofia se non un insegnante che abbia il coraggio di essere maestro: l’insegnante che sa, per avere studiato e riflettuto a lungo e profondamente, e per questo è autorizzato a parlare e a guidare gli studenti. Dagli iconoclasti del vecchio mondo questa figura o non viene considerata o viene sic et simpliciter fatta coincidere con il noioso logorroico che si parla addosso da dietro la cattedra. Ma tutti noi, da studenti, abbiamo fatto l’esperienza di lezioni frontali insulse e ammorbanti e di lezioni frontali affascinanti che non avremmo voluto che finissero. Buttando via tutto, butteremmo via questo con quello.
Vedo bene da dove nasca la diffidenza verso questo tipo di insegnante di cui parlo: in un momento storico nel quale la richiesta più pressante è quella di produrre insegnanti professionalmente inappuntabili, con buone conoscenze psicologiche, pedagogiche, docimologiche (e mi stanno tutte bene, purché non si esageri), insomma tecnici capaci di analizzare i bisogni del discente, di costruire un efficace percorso didattico e di mutare con perfetta nonchalance approccio e metodo a seconda del contesto in cui è richiesto l’intervento, l’idea che qualcuno possa avere un sapere personale pare una arrogante forma di individualismo (forse persino di eversione antisistemica); inoltre, che l’apprendimento passi dalla fascinazione e dal coinvolgimento profondo che un maestro sa generare pare anche un po’ ambiguo. Eppure la prima domanda che uno studente si fa davanti ad un insegnante è “che cosa sei diventato grazie a quello che sai?” non “sei un professionista?”, ed è disposto ad affidarsi e fidarsi solo se è nata in lui stima per chi gli è davanti. Certo che, se davvero abbiamo a cuore la maturazione del nostro studente, sapremo anche tacere, ascoltare, lasciare il campo, nei momenti opportuni, che probabilmente sono di più di quanti noi tutti abbiamo mai concesso finora.
Dunque, perché quella forma di lezione da te proposta, che vede lo studente presentare una personale ricerca a partire dai testi studiati, non scada nella esposizione di una sequela di banalità, essa dovrà essere preceduta e sostenuta da una severa preparazione precedente, durante la quale deve continuare ad essere l’insegnante il motore primo. È difficile che uno studente sappia cogliere da solo le implicazioni (storiche, filosofiche, psicologiche, retoriche, stilistiche, …) di un testo; se lo si lasciasse interpretare liberamente, non potremmo che ottenere una lettura ingenua, che decodifica sulla base delle conoscenze dell’enciclopedia media di una civilità di massa. Un episodio che mi è stato raccontato fa capire bene quel che intenda dire: durante un esame universitario di letteratura italiana, alla richiesta di commentare la descrizione di Laura nel sonetto petrarchesco “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”, l’insegnante ottiene, invece che considerazioni sul topos letterario della donna-angelo e sul gioco letterario “Laura – l’aura – l’auro – lauro”, la risposta che Petrarca aveva scritto la poesia dopo aver visto la donna spettinata e con i capelli al vento (magari appena sveglia e con gli occhi ancora pieni di sonno…). Forse la vicenda dei senhal di Laura, che per Petrarca non erano solo un giochetto di parole, come può apparire a noi oggi, è una conoscenza sulla quale si può soprassedere; ciò che invece resta irrinunciabile è che lo studente capisca la differenza tra la concezione dell’amore nel Due-Trecento e la nostra, nonché il differente trattamento letterario che l’amore subisce nelle poesie di quella e di questa epoca. È sacrosanto che a un ragazzo di sedici-diciassette anni importi soprattutto del suo modo di vivere l’amore, ma mostargliene uno lontano nel tempo gli servirà forse a conoscere meglio il proprio, che non è spontaneo e naturale ma è non meno culturalizzato di quello medievale, e forse a capire anche che l’amor di lontano non è solo un topos letterario, ma una delle forme possibili della fenomenologia dell’amore, ancora concretamente esperibile, almeno ogni volta che un amore non corrisposto o non dichiarato costringe a crearsi una lentiniana “pintura” dell’amata nella propria mente.
Il fuoco del problema allora diventa come insegnare a intepretare un testo e quali strumenti fornire. Nello studio della letteratura, dopo decenni di formalismo e strutturalismo, è ormai un dato acquisito quello della centralità del testo (tralascio la menzione della scuola di Costanza e del “reader’s response theory”) e forse a questo riguardo gli insegnanti di filosofia avrebbero qualcosa da imparare dai colleghi di italiano, per i quali è più scontata la lettura dei testi in classe (così come noi dovremmo avere un po’ più di attenzione per i contributi che possono venire dall’ermeneutica). Evidentemente, però, il testo va messo davvero al centro e non può, come capita, diventare il pretesto per la ripetizione delle formule critiche depositate nei manuali: la lezione tipica di storia della letteratura, della filosofia, dell’arte, troppo spesso era basata sulla presentazione del precipitato critico, riassunto, cristallizzato, spesso mummificato in formule di facile meorizzazione, del pensiero, della poetica, dello stile, dell’opera di un autore (ecco allora il passaggio obbligato attraverso il “pessimismo cosmico e storico” in Leopardi e lo “stream of consciousness” in Joyce). Lo sforzo dell’insegnante dovrebbe perciò essere teso soprattutto a favorire una più profonda comprensione del testo, grazie alla creazione di uno sfondo sul quale porre, insieme, informazioni sul contesto storico, strumenti di analisi formale, letture critiche di studiosi, suggerimenti di attualizzazione. Con questi stimoli forniti alla personale sensibilità e riflessione dello studente sarà possibile verificarne poi la capacità di rielaborazione e non quella di ripetizione: ed evidentemente, per far ciò, dovremo anche insegnare come si organizza e scrive un testo o una scaletta di appunti per un’esposizione in classe, o come si prepara una efficace presentazione in Power-point (visto che il 90% di quelle cui mi è capitato di assistere – e non si trattava di studenti del liceo ma di professori universitari – erano mortalmente noiose, ben peggiori delle lezione veicolata dalla sola oralità, nella quale la mancanza di altri supporti costringe almeno a tener desta l’attenzione allo scopo di prendere appunti: buon esempio di come una nuova tecnologia, malamente usata, non ha migliorato le cose, anzi…). Riassumerei tutto quello che ho detto nella formula “ascolto, riflessione, rielaborazione”. E vorrei dire che il secondo elemento è il più importante, benché sia quello più difficile da suscitare e valutare: cambi il mondo intorno a noi, il nostro obiettivo continuerà ad essere quello di educare al pensiero e alla conoscenza di sé.
In questo, in fondo, non credo ci sia nulla di particolarmente originale: credo che i bravi insegnanti facciano così da sempre (anche il vituperato vecchio tema era in fondo una verifica della capacità di rielaborazione dello studente). Per questo diffido di ogni celebrazione retorica del nuovo: dobbiamo guardare la realtà minuta e agire su quella, cambiando ciò che non va e lasciando intatto o potenziando quello che funziona e va difeso.
Un elemento davvero nuovo e sul quale puntare è proprio quel portare allo scoperto e pubblicare (e pubblicizzare) i prodotti della didattica, di cui tu parli. Nella scuola potremmo e dovremmo sfruttare le capacità di archiviazione dei dati e del loro rapido recupero che ha Internet, mettendo in rete, anche solo sul sito delle scuole, lezioni, elaborati degli studenti, capitoli di manuale redatti dagli insegnanti, e creando blog di classe o di istituto.
Questa a me pare una pubblicità del proprio operato “buona”. Sono con te, perciò, nel difendere una riforma della scuola dall’interno, che nasce dalle proposte concrete che noi insegnanti siamo in grado di elaborare. Putroppo non tutte le forme di pubblicità sono buone e dobbiamo sapere che nelle riforme che ancora attendono la scuola (questa stagione dura da quando facevo il liceo io, negli anni Novanta, ma non è ancora finita), si nascondono diverse insidie.
Già ora assistiamo a fenomeni di cattiva pubblicità, per cui conta di più la certificazione dell’esistenza di qualcosa che non l’esistenza stessa della cosa, o lo sciorinare mercanzie luccicanti e specchietti per le allodole, tralasciando la sostanza. Insomma, io vedo il rischio serissimo che la scuola cominci a rincorrere certificazioni di qualità e bollini (chi ha avuto modo di metter piede nel sistema privato sa come funzionino: se una virgola in un documento di segreteria è fuori posto, perdi il bollino, ma non è previsto che i certificatori entrino in classe e valutino la qualità della didattica, per la valutazione della quale per altro non hanno titoli) o che spenda grandi energie e denaro per attirare nuovi studenti-clienti con l’elogio della quantità e qualità dei propri laboratori e della attivazione di corsi pomeridiani di sci, scherma, bangee-jumping e free-style, non essendo qualificante, dal momento che tutte le scuole ce l’hanno, la menzione dei corsi di italiano, matematica, arte, filosofia, scienze.
Dunque, se vogliamo che le trasformazioni non vengano come sempre calate dall’alto, e malamente, dobbiamo iniziare a fare qualcosa noi. Mi rendo conto che quest’ultimo auspicio sia alquanto ingenuo, ma lo si prenda per una sorta di “scommessa” pascaliana: abbiamo tutti da guadagnarci a crederla possibile, anche se non lo fosse.