di Nilay Özer

 

Nilay Özer, da Istanbul al Met

 

Nota e traduzione di Nicola Verderame

 

Visione. Spettro. Apparizione. In questo tempo di assenze, di apparizioni sotto forma di pixel, Nilay Özer (Istanbul, 1976) percorre le sale di un museo che non ha più nulla di fisico. Pura visione.

 

Nei giorni del viaggio impossibile, il titolo turco richiama alla mente un’escursione (gezinti) più che una visita (ziyaret). Dalla separazione fisica che molti in Turchia si sono imposti in assenza di informazioni plausibili sulle dimensioni del contagio, Özer compie un’escursione nel tempo e nello spazio, un viaggio in un’apparizione. Il suono che manca nel museo virtuale è offerto dal canto che si distende e permea ogni oggetto visibile, regalandoci uno dei componimenti più intensi e immaginifici della poesia turca degli ultimi anni.

 

Questo poemetto è stato presentato per la prima volta in traduzione italiana al festival “Cabudanne De Sos Poetas” di Seneghe (OR) nel 2020, senza la presenza dell’autrice. Ora viene proposto qui insieme alla lettura del testo turco, in occasione del suo quarantacinquesimo compleanno.

 

Visita al museo online

ovvero

Canto lungo della tristezza

 

 

la poesia l’hanno scritta sul ventaglio

che si apre e si richiude senza sosta

un albero di rose, betulla o forse tiglio

da così lontano l’odore non si sente

perché il tempo odora negli alberi che invecchiano

ora il passato da vivere è passato

e i volti non esistiti sono appendici

infrante sulle rive di menti assonnate

brillantissime in forma di onde sonore

psichedeliche come onde luminose

e frattali

 

il canto lungo della tristezza

era l’immagine che ho visto nel museo

dipinta sul pannello giapponese,

ai piedi di un ciliegio

nei kimono rossi e gialli

donne dai capelli in tre chignon

e oltre i bei tendaggi di seta

altre si parlano a bisbigli

riesci a sentire le loro parole

se ti avvicini un po’ allo schermo:

 

le radici degli alberi mi ricordano il mio sangue

e le montagne rosse in lontananza

un demone osserva l’acqua

una lingua maligna

nell’acqua genera bolle e parole

mentre la luce solare traccia spirali verso il fondo

dove andrà questo carro trainato da schiavi

dalla pelle nera e i corpi sudati, senza sosta

i volti, le gambe, le cose degli schiavi

si compenetrano, scorrono, si frammentano

mentre lo schermo traccia spirali

brillantissime, psichedeliche, frattali

 

nell’immagine un albero dal ventre aperto

chino coi suoi aghi verso la strada

e ai suoi piedi una donna dal kimono bianco

è ferma e profondamente in pena

è lei a intonare il canto lungo della tristezza

o forse lo cantano tutte insieme

le figure nell’immagine saranno un coro

che vibra al sincrono coi pixel

prendono vita i sarcofagi nel museo,

le mummie, i totem, gli utensili di terracotta

tutto cerca la storia di cui è parte

in casa, là dove siedi, mentre visiti un museo

ti richiamano alla violenza e al desiderio

i corpi senza organi e gli organi senza corpo

 

uomini in barca avanzano sull’acqua

una distesa di cespugli ornati di fiori bianchi

con cumuli di foglie verdi

un’altra simile a nubi

come se alzato il velo dal mondo

fossero spuntati loro,

avessero svelato il segreto

una volta scostata la cortina della visione:

animali scuoiati

dalle carni e le ossa fumanti

sono loro a intonare il canto lungo della tristezza

o forse sono io che canto di nascosto dal mio cuore

 

tre pesche posate sul vaso

così sode e mature, vien voglia di rubarle

sulla lussuosa finissima porcellana

una rivoluzione industriale tintinna color pesca

l’ora del tè delle ladies color neonato

donne e bambini nella prima fabbrica tessile

colore ragazza appena cresciuta

tintinnio color viso appena innamorato

un vaso colmo di pesche

vorresti vederlo in frantumi

un bosco, vorresti vederlo in fiamme

è il bosco a intonare il canto lungo della tristezza

o forse è la porcellana così bianca, psichedelica, frattale

 

guarda il corteo nuziale che passa per la strada

e si allontana con lanterne di zucca

una sposa morta in sella al cavallo

tutto attorno pendono tralci d’edera

dalle narici e dalle gambe

l’edera le soffoca le ossa

le donne hanno in mano qualcosa: erbe che danno piacere

gli uomini hanno in mano qualcosa: il cuore del ricco e del povero

si fanno scattare foto coi morti

seppelliti nelle loro vite

più li seppelliscono più affondano, sono tutti morti

le erbe delle donne porteranno sogni

porteranno guerra i cuori posti sulle bilance dai maschi

sono ingiusti i maschi qualunque cosa pesino

sono loro a far intonare

il canto lungo della tristezza?

 

il loto al centro del piatto di ceramica

brillantissimo, psichedelico, frattale

si tramuta in uccello dalle ali rubate

quando in un punto non comparivano gli uccelli

quando i pipistrelli s’artigliavano al pannello

e incorniciavano l’immagine

hai pensato ci fosse qualcosa di male

qualcosa di male dentro te

sull’osso sacro hai incollato

le ali rubate agli uccelli

e gli ovari tolti dai frutti

ti sei stesa sul ventre a dormire

ma sei invecchiata e non hai più vibrato con loro

e a primavera non hai potuto rinascere

con il loto disperso nelle acque dell’inverno

 

la vergine e il figlio, la vergine e il figlio,

ovunque ti volti la vergine e il figlio

ovunque ti volti l’oro, la croce, Gesù, Maria

ovunque guardi, un Gesù ai cui piedi versano acqua e acqua,

alato, con ali rosse, con sei ali rosse, un Gesù in volo nel cielo

ovunque guardi, la vergine e il figlio

incisi nel legno, nel marmo, dipinti d’oro e d’argento

ovunque guardi, la vergine e il figlio

è Maria a intonare il canto lungo della tristezza,

o sono io a cantare, là dove non credo a Maria?

ti prego, angelo, sosta ai piedi della croce,

ti prego, dopo che gli uccelli gli avranno cavato gli occhi

deponi Gesù dalla croce, lavagli i piedi

cospargili di unguenti profumati

ti prego, obbedisci

obbedisci al suo giacere sul grembo della madre

all’incontro dei loro piedi

alle mani giunte sul polpaccio destro di lui

all’angolo della sua barba

al volto doloroso di Maria

sotto le onde del velo

ai loro muscoli piegati come lati di un triangolo

agli angoli opposti tra gli occhi socchiusi e il naso curvo

obbedisci ai pittori

che hanno dipinto i drappi di mesti colori!

 

tu che non riesci a tenere ferma la mano

sei tu che intoni il canto lungo della tristezza

o sono gli angeli che soffiano nei corni di cervo?

mentre la rosa appassiva e cadeva

Gesù si sentiva forse spiccare il volo dalla croce

con le braccia aperte come ali d’uccello

e i polsi senza più chiodi?

ho toccato le sue ferite sullo schermo

ho ingrandito e toccato le ferite

avevi ragione tu, incredulo

non sono vere le ferite

più ci rinchiudiamo in casa più si rinserra

più s’infrange l’illusione della chiusura:

il mondo è ormai il museo dei nostri occhi

brillantissimo

psichedelico

frattale

 

Maggio – Giugno 2020

Istanbul – Metropolitan Museum, New York – Internet

(traduzione italiana di Nicola Verderame)

 

 

Nilay Özer è nata a Istanbul il 6 Marzo 1976. Ha studiato biologia all’Università di Marmara e critica letteraria presso il Dipartimento di Letteratura Turca dell’Università Bilkent di Ankara, dove ha scritto una tesi dottorale sul poema Paesaggi umani di Nâzım Hikmet. La sua raccolta d’esordio Zamana Dağılan Nar (“Il fuoco disperso nel tempo), è stata pubblicata nel 1999. La seconda raccolta Ol! (“Sii”) è stata insignita del prestigioso premio letterario Cemal Süreya nel 2004. Il terzo libro di poesie Korkuluklara Giysi Yardımı “Il vestiario soccorre le ringhiere” è del 2015. Ha pubblicato letteratura per l’infanzia e numerosi saggi sulla scrittura in versi contemporanea. La sua voce richiama l’ermetismo della poesia turca degli anni Sessanta, arricchita di una profonda attenzione alla corporeità e alle questioni di genere. Tre sue poesie sono state pubblicate in italiano dalla rivista online Kaleydoskop – Turchia Cultura e Società e altre sono state lette dalla poetessa Azzurra D’Agostino durante il festival “Cabudanne De Sos Poetas” 2020 (video qui).

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