di Massimo Gezzi

 

[Esce oggi per Bollati Boringhieri Le stelle vicine, il primo libro di racconti di Massimo Gezzi. Presentiamo in anteprima un racconto, Il malcaduto, ringraziando l’editore].

Il malcaduto

 

Io quando mi viene il malcaduto però non vorrei mai cadere. Provo, provo a restare in piedi, ma poi la terra mi chiama e crollo. Crollo come un palazzo, come quello che ho visto demolire mesi fa giù alla Fornace. Barcollo, poi cado per terra e non mi ricordo più niente. Renato Controvento, mi chiamano tutti, perché anche quando cammino ondeggio, barcollo contro il vento misterioso di questo paese meschino. Barcollo ma non me ne vergogno e passeggio per i viali, di pomeriggio. Entro nel bar. Ordino un caffè o un chinotto, se fa caldo. I ragazzi certe volte mi parlano con disprezzo. Imitano la mia voce perché non parlo bene. La mia lingua somiglia alla mia camminata, se ci penso: scivola, si intreccia. Dico le cose con un ghigno storto e i denti opachi che si affacciano dal buco delle labbra. Non mi guardo mai allo specchio, mentre parlo, perché non voglio cominciare a chiamarmi Controvento pure io.

 

Quando mi viene il malcaduto può essere dappertutto. Una volta ero sulla prima panchina del viale. Mi sono alzato, ho fatto due passi. Ho visto bianco. Nero. Mi sono svegliato con tanta gente intorno, male alle gambe. Sangue che colava sulle mani, dalla testa. Pietro Farina mi teneva due dita in bocca. Renato, Renato, urlava. Chiamate l’ambulanza, diceva guardandomi come se non mi riconoscesse. Io non riuscivo a dire nulla. Allora ho preso la sua mano, l’ho tolta dalla mia bocca e ho detto a tutti che stavo bene. Era solo il malcaduto, che non si spaventassero. Ogni tanto mi viene, ho spiegato, non posso farci niente. Poi ho cercato di rialzarmi, di rassettarmi il maglione che si era tutto sporcato di foglie e di saliva. Mi sono rimesso in piedi. Pietro mi teneva la schiena, qualche ragazzo era spaventato, qualche altro rideva. Ho riso pure io, ma mi sono spuntati dalla bocca i denti gialli e allora me ne sono andato. Barcollavo. Barcollavo più di sempre perché ho sentito due di loro ripetere il mio soprannome, mentre mi allontanavo. Allora Pietro Farina ha bestemmiato e gli ha tirato uno schiaffo, ho sentito il rumore. Loro hanno urlato, gli hanno detto vaffanculo. Io ero già lontano, li capivo a malapena.

 

Quando mi viene il malcaduto è come se la forza di gravità si raddoppiasse. Sento caldo, freddo. Sono stanco. Dopo arriva sempre il momento del risveglio, che vorrei non arrivasse mai. Mi piacerebbe morire, quando mi viene il malcaduto. Invece ricomincio sempre a vedere qualcosa. Spesso il cielo, le nuvole. Altre volte un marciapiede sporco, le scarpe da tennis dei ragazzi che mi circondano. Le mani che mi tengono la testa e mi tirano la lingua. Mi ricordo ancora la prima volta che mi successe, quello che vidi. C’era mia madre Rosalba vicino a me. Aveva gli occhi spalancati e pieni di lacrime, le sopracciglia inarcate. Le labbra tese. Ogni volta che riapro gli occhi spero sempre di rivederla accanto a me, con le mani grandi che mi sollevano piano la testa e mi accarezzano la fronte. Invece vedo Pietro Farina. Il farmacista. Un vigile urbano. Quando va bene una signora gentile, che ha pietà di me ma non somiglia per niente a mia madre. Una volta ho visto una ragazza di colore che mi parlava in una lingua sconosciuta e ho pensato che fossi morto. Quando ho sospirato forte per riprendere fiato, sputando la bava sul marciapiede, lei è scappata. Forse ha avuto paura. Forse avevo urlato, con il malcaduto addosso. Non sono riuscito neanche a dirle grazie, a chiederle come si chiamava, perché quando mi sono alzato lei era già dall’altra parte del viale che correva ancora.

 

Certe volte ci parlo, con i ragazzi. Alcuni mi vogliono bene. Mi chiedono le cose. Se mi ricordo di quando nell’Elpidiense giocava Albertosi, per esempio. Certo, gli dico. Ci ho parlato due volte con Ricky Albertosi, gli dico. Veniva qui al bar e tutti si facevano la foto con lui. Una volta gli ho stretto la mano e gli ho chiesto di Italia-Germania 4 a 3. La più bella partita della storia del calcio, mi ha risposto lui prima di girarsi dall’altra parte. Ma loro non l’hanno vista, quella partita, non se la ricordano. Qualcuno ricorda il Mondiale dell’82, gli altri nemmeno quello. Albertosi aveva dei baffi neri e lunghi, gli dico. Giocava con una bella maglia gialla. E tu eri in tribuna, Renato?, mi chiedono. E allora ricordo e racconto, finché quello con l’anello nero, il più meschino di tutti, dice che a forza di sventolare la bandiera viola dell’Elpidiense adesso sventolo pure io quando cammino, e allora tutti gli ridono in faccia e gli danno pacche sulle spalle. Io provo a rispondere, a dirgli che è uno sciocco, ma loro non mi sentono più. Allora giro i tacchi e me ne vado, esco dal bar oppure mi metto al tavolino più isolato, nella saletta marrone davanti al banco. Prendo un giornale, tolgo gli occhiali e leggo. Loro di là urlano, fumano. Quando fa buio torno a casa. Non saluto nessuno.

 

Quelli più piccoli mi piacciono di più. Stanno seduti sulla spalliera delle panchine, con i piedi sul sedile. Quando mi avvicino due ragazzine mi salutano sempre. Ciao Renato, cominciano. Certe volte mi dicono pure buonasera. Mi fermo a parlarci. Mi appoggio a un tiglio e le ascolto. Parlano di amori, di ragazzi. Di un film che hanno visto. Quella biondina qualche settimana fa mi ha chiesto se avevo visto Ritorno al futuro. Certo che l’ho visto, le ho risposto. Secondo me non è un bel film, le ho detto. Il futuro non sarà come si vede in quel film. Sarà più stupido, più brutto. Andremo indietro, invece che avanti, le ho detto, ci sarà la Terza guerra mondiale fra qualche anno. Lei ha riso e ha risposto che non era vero, che quando lei sarà grande si potrà andare sulla luna, così, per farsi un giro. Lo sai quanto tempo ci si impiega per andare e tornare dalla luna?, le ho chiesto. Sette alla seconda anni meno uno, ho detto per divertirla. L’altra, quella con gli occhiali, è scoppiata a ridere. Ha imitato la mia voce e ha storto la bocca apposta. Allora le ho salutate sottovoce e me ne sono andato. La biondina l’ha rimproverata. Smettila, Ilaria, non si fa, le ha gridato. Ilaria invece ha riso forte e ha ripetuto ancora Zette alla zeconda meno uno, Zette alla zeconda, imitando la mia esse strascinata. Anche la biondina dopo un po’ ha riso, ma l’ha fatto con il cuore pulito. Vorrei chiederle il nome, la prossima volta che la incontro. A casa, dopo cena, ho riaperto il libro di geografia. Ho letto le distanze tra la Terra e la luna. Considerato la velocità. Ho scritto sul bloc-notes le cifre e ho fatto i calcoli. È vero, ho sbagliato numero. Sono meno, molti anni di meno. Lo dirò alla biondina, quando la vedo.

 

Quando mi viene il malcaduto spesso sbatto la testa. Dopo devo andare in giro con dei cerotti sulla fronte. Una volta ho battuto la nuca sullo spigolo di una ringhiera. Hanno chiamato l’ambulanza e mi hanno portato all’ospedale. Mi hanno tagliato un cerchio di capelli. Mi hanno messo dei punti e un grosso cerotto bianco. Per uscire mettevo una cuffia, ma quando avevo caldo la toglievo. La toglievo anche quando entravo nei bar, perché io mi tolgo sempre il cappello, quando entro da qualche parte.

Ho rivisto la ragazzina bionda nel bar dei ragazzi, qualche sera dopo aver battuto la testa per un attacco. Mi sono tolto il cappello e gli occhiali, perché si erano appannati. Mi sono avvicinato e l’ho salutata. Ciao Renato, che freddo stasera, mi ha risposto. Le ho chiesto come si chiamava, perché non era giusto che lei sapesse il mio nome e io no. Ha sorriso e mi ha detto che si chiamava Costanza. Lo sapevi che Costanza era una grande regina?, le ho chiesto. No, non lo sapeva. Regina di cosa? Poi ha visto il cerotto sulla fronte e mi ha chiesto cosa mi era successo. Le ho risposto che ero inciampato in bagno, mentre uscivo dalla doccia. Povero, ha detto con un’espressione triste. Ti hanno messo i punti? Tre, ho risposto facendo il numero con le dita. Poi qualcuno l’ha chiamata dalla porta. Un uomo. Ha gridato che la stava aspettando sul viale da mezz’ora. Lei ha risposto che moriva di freddo ed era entrata nel bar. Muoviti, dai, ha detto lui. Mi ha guardato con uno sguardo strano. Ha osservato la mia testa ferita. Con chi cavolo stai parlando?, ha chiesto a Costanza. Con Renato, non lo conosci?, ha risposto lei. Non mi piace che parli con gli uomini adulti, ha detto lui ad alta voce. E poi chi sarebbe, questo Renato?, ha borbottato mentre si incamminavano verso l’uscita. Sembra un balordo, ha sibilato la sua voce prima che la porta del bar la chiudesse fuori.

 

Faccio la mappa di tutte le persone che incontro, e stasera ci aggiungo Costanza. La disegno da tre anni. In ogni luogo del paese c’è qualcuno. Parlo con pochi, ma so i loro nomi, oppure so una cosa che distingue ognuno dagli altri. Quello rosso di capelli lo incontro spesso qui. Quella con la permanente qui, davanti al forno. Quello con l’anello nero (il meschino) dentro il bar. Il suo nome non lo voglio sapere. Conosco anche gli orari, di molti di loro. Spesso quello con l’anello è al bar dalle cinque alle sette, per esempio, e io a quell’ora vado da un’altra parte. Nel giardino, certe sere. Mi porto un giornale e leggo, oppure guardo gli alberi altissimi che ondeggiano nel vento. Raccolgo le pigne dei pini. Se ci sono i pinoli dentro cerco di prenderli e di acciaccarli. Certe volte dal guscio esce un animaletto nero e io lo butto di sotto, oltre la ringhiera che dà sul vecchio campo di calcio, dove giocava Albertosi. Mi siedo sulla panchina e guardo attraverso le sbarre di ferro la porta ormai abbandonata. Me lo rivedo ancora, con la maglia gialla. Certe volte mi fermo fino a che fa buio. Guardo e ascolto. Le voci escono dalle finestre aperte e subito richiuse. La signora con il cane. Ruggero. L’autista degli autobus. Certe volte non capisco se le voci che sento sono vere o vengono dalla mia mente, da quello che ricordo. Certe volte i ragazzi giocano a pallone, in un angolo del viale, e i rimbalzi e le grida mi sembrano uguali a quelli di tanti anni fa.

 

Per la mia morte ho previsto tutto. Ho scritto il testamento e l’ho chiuso in una busta, con su scritto Ultime volontà di Renato. Ho messo la busta nel cassetto della scrivania. Non so se morirò durante un attacco di malcaduto. Ogni tanto lo spero. Vorrei essere cremato, quando muoio, per cancellare per sempre il mio corpo che barcolla e i denti storti. E anche tutte le volte che ho battuto la testa e le spalle. Quando si muore si cammina in un tunnel tutto buio, ha detto una sera una donna in tv. Poi si vede una luce, là in fondo. L’altra sera ho chiesto a un ragazzo del bar se per lui il tunnel è ancora vita o è già morte. Si è messo a ridere e ha risposto che lui a queste cose non ci crede. Si muore e basta, mi ha detto. Sì, ma cosa vedi, nell’istante in cui muori? Forse buio, ma solo per un attimo, ha risposto. E comunque il tuo tunnel non c’è, è una cazzata. Allora si è girato quello con l’anello nero, che stava giocando a carte un po’ più in là. Si è tolto la sigaretta dalle labbra e mi ha guardato. Speriamo per te che il tunnel sia già morte, Renato, mi ha detto. Perché se lo devi camminare da vivo quando ci arrivi, dall’altra parte?, ha gridato mentre scoppiava a ridere e diventava tutto rosso in faccia. Poi ha aggiunto qualcosa, ha imitato la mia andatura con la mano, mentre tutti ridevano a bocca spalancata. Ci ho visto un pesce nell’acqua, in quella mano, una foglia che si stacca da un ramo e cade per terra.

 

Quando mi viene il malcaduto non lo so mai prima. Quando non ce l’ho da tanto tempo certe volte spero che non mi venga più. Lo speravo fino a qualche anno fa, perché poi ho imparato che torna. Scrivevo tutto nel diario, prima di questa stanchezza. Ora la sera mangio poco, e dopo vado a letto. Il sonno mi fa stare meglio, perché chi dorme non parla, non cammina e non ride. Se parlo nel sonno nessuno mi ascolta. Di solito non ricordo quello che sogno.

 

L’altra sera faceva molto freddo quando sono uscito di casa. Ho sentito delle grida e il rumore del pallone. Ho guardato il campo ma era buio, tutto spento. Veniva dalla piazzola vicino al bar, quel rumore. Quando sono arrivato c’erano cinque o sei ragazzi che giocavano a pallone, con quattro lattine che segnavano i pali. C’era anche Costanza, appoggiata al muretto insieme a quella con gli occhiali. Fumava una sigaretta. Ciao Renato, mi ha detto mentre aprivo la porta del bar per entrare. Sono tornato sui miei passi. Ciao, le ho risposto. Tu fumi? Sì, ma non dirlo a mio padre, mi raccomando, ha risposto sottovoce sorridendo. Ho sorriso anch’io senza aprire le labbra, guardando per terra. Basta che fumi solamente la prima metà, le ho detto. Ha spalancato gli occhi e mi ha chiesto perché. Tu devi sapere, le ho spiegato, che la prima parte della sigaretta non fa male. Si è messa a ridere, e a un angolo della bocca le ho visto la gomma da masticare appiccicata contro i denti. Poi ha chiuso le labbra e ha fatto un’altra tirata. Mentre le parlavo mi è arrivato il pallone tra i piedi. Allora l’ho calciato, ho calciato forte. Gli altri hanno fatto un boato. Grande Renato, gridavano, mitico Renato. Poi quello più basso ha detto che dovevo giocare pure io, perché loro ne avevano uno in meno. Ho risposto di no, che non potevo, ma Costanza mi ha incoraggiato e mi ha dato una pacca sulla spalla. Eddai, Renato, fatti due tiri. Se ti stanchi ti fermi subito. Due tiri soltanto. Gli altri urlavano il mio nome, come facevano attorno al tavolo del ping-pong con quelli che giocavano: Re-na-to. Due tiri e basta, ho detto allora, e sono andato in mezzo a loro. Ho dato un calcio al pallone, l’ho tirato lontano. Grande Controvento. Poi mi sono fermato e ho aspettato che quello con la palla ai piedi venisse verso di me, e quando l’ha fatto mi sono spinto in avanti per rubargliela. Lui però ha fatto un movimento veloce per scartarmi. Io allora ho messo un piede tra i suoi, lui è inciampato ed è caduto, e mentre cadeva mi è venuto addosso e sono caduto pure io, con la faccia contro l’asfalto. Ho sentito il rumore di una lente che si rompeva, poi il dolore. Sono rimasto lì, immobile, mentre tutti urlavano qualcosa. Poi ho sentito Costanza, che ripeteva il mio nome e chiedeva aiuto. Quando mi sono voltato verso di lei ha urlato forte. Mi sono toccato la faccia e ho visto il sangue sulla mano. Costanza è corsa dentro il bar. Sentivo che chiedeva aiuto, diceva che era caduto l’epilettico, che perdeva sangue e forse adesso gli sarebbe venuta una crisi. I ragazzi si stringevano intorno a me, uno sussurrava che avevo un attacco, un altro è scappato. Quando è arrivato, il barista mi ha chiesto se stavo bene. Renato, stai bene? Tremi tutto, Renato, continuava a ripetere perché io non rispondevo, non mi usciva fuori la voce. Mi facevano male le mani e la lingua. Poi Costanza si è inginocchiata accanto a me, mi ha pulito la ferita con un fazzoletto, mi ha messo una mano dietro la testa. Io ho sentito il suo alito di fumo, la sua voce luminosa. Mi ha compresso l’occhio con il palmo di una mano. Ho visto la sua sagoma, i grandi occhi sfocati, le dita che mi scostavano piano i capelli dalla fronte. Allora ho premuto forte la testa contro la sua mano e ho visto tutto nero. Poi, senza barcollare, tutto bianco.

 

[Immagine: Foto di Laura Pannack, in copertina].

2 thoughts on “Le stelle vicine

  1. Ho iniziato a leggere il racconto in un momento di distrazione dal lavoro, e poi non sono riuscito a staccarmi finché non l’ho finito.
    E’ molto bello. Grazie Massimo.

  2. Ho letto i primi tre del libro e due di questi, poi ti dirò quali quando avrò finito, sono davvero molto belli.

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