di Stefano Ghidinelli
[Pubblichiamo un saggio comparso di recente nel volume L’arte orale. Poesia, musica, performance, a cura di Lorenzo Cardilli e Stefano Lombardi Vallauri]
Per chi si occupa di scritture in versi contemporanee, il tema dei rapporti fra poesia e arte orale può richiedere attenzione per ragioni e da prospettive di ricerca anche difformi, benché in qualche modo interdipendenti. Si può essere interessati a rendere conto del ruolo che il medium e la pratica della performance hanno giocato, nel Novecento, nell’ambito della tradizione poetica colta (in specie nelle prassi più apertamente avanguardistico-sperimentali, anche se non solo). Oppure ci si può interrogare sui rapporti antagonistico/concorrenziali (per lo più) che quella tradizione di poesia letteraria colta ha via via intrattenuto con le sempre più pervasive forme di verso orale/performativo sviluppatesi, soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, nell’ambito della cultura pop (nel proliferante universo della canzone, ma anche nel più ambiguo e recente contesto della cosiddetta “spoken word”). O ancora si può essere indotti a riflettere sul più o meno mediato e obliquo rapporto con la dimensione della voce che si conserva e rimodula entro le stesse strutture della poesia letteraria (e sarà questa, per lo più, la direzione in cui mi muoverò qui).
Anche più in generale, però, ragionare sui rapporti fra poesia letteraria e arte orale è una mossa d’avvio capitale sul piano teorico, perché ci impone subito di dar conto di una delle caratteristiche più peculiari della poesia come forma e attività interumana: vale a dire la sua plasticità metamorfica, il suo straordinario dinamismo adattivo/trasformativo. Le stesse domande intorno a ciò che la poesia è ne risultano subito reinscritte, più proficuamente, in un programma di modellizzazione delle logiche secondo cui la poesia, nei diversi contesti in cui la si pratica, diventa ciò che è.
Così – è un’ovvietà ricordarlo – la poesia nasce sì a tutti gli effetti come arte orale, all’interno di quelle che Walter Ong chiamava società ad oralità primaria: e deve certo alcuni tratti di quello che percepiamo come il suo modo d’essere essenziale a questa elementare eziologia, al suo radicamento originario in quella vitale condizione pragmatico-funzionale. Non meno ovvio, d’altronde, è che all’origine di ogni tradizione poetico-letteraria c’è una separazione, uno strappo da quella condizione, determinato dallo slittamento della poesia in una situazione pragmatica di riferimento di tipo nuovo: quella della scrittura, o meglio della più o meno elitistica pratica della scrittura/lettura per come è configurata, tipicamente, all’interno delle società chirografico/tipografiche tradizionali di impianto classico/classicistico, ad alfabetizzazione ristretta. Ma la poesia letteraria vive poi almeno un altro momento di epocale ridefinizione delle proprie condizioni d’esercizio e manifestazione, dei cui effetti tutti abbiamo esperienza e piena consapevolezza, anche se non sempre la valenza trasformativa di questo passaggio viene restituita, sul piano teorico, con altrettanta nitidezza. Mi riferisco ovviamente alla sua traumatica reinscrizione nell’anti-aristocratico mercato della letterarietà moderna, nel contesto di società ad industria editoriale avanzata e alfabetizzazione diffusa.
Ora, cosa succede alla poesia (cosa diventa) in questi veri e propri “passaggi di stato”, in questi momenti di ridefinizione strutturale delle sue condizioni di esercizio e manifestazione? E più nello specifico, cosa succede al suo rapporto con la voce, con quella dimensione o struttura così capitale che è o sembra essere, per la poesia, la voce?
Vorrei avviare la mia riflessione su questi argomenti prendendo le mosse da quella branca o sottotradizione delle ricerche sulla produzione poetico/narrativa delle civiltà orali che va sotto il nome di “ethnopoetics”, e annovera tra i suoi fondatori e principali animatori un importante linguista e antropologo come Dell Hymes – insieme soprattutto al collega Dennis Tedlock. Pur muovendo da approcci analitico/interpretativi abbastanza diversi, nei loro studi sull’arte verbale dei nativi americani – per lo più i Chinook dell’Oregon per Hymes, gli Zuni del Nuovo Messico per Tedlock – entrambi si trovano a un certo punto ad affrontare il problema delle modalità di trascrizione e edizione, ma meglio si dovrebbe dire di rappresentazione testuale, non tanto delle loro canzoni o poemi – cioè dei testi più facilmente identificabili, dal nostro punto di vista, come poesia, come l’equivalente o antecedente orale di quel genere letterario che per noi è la poesia –, bensì di varie forme tipologiche di narrativa orale. L’ovvio presupposto che entrambi condividono è che un’adeguata comprensione di questi racconti tradizionali orali (e delle loro peculiari ragioni di pregio estetico) non può prescindere dall’impegno a restituirne e valorizzarne appieno, appunto, la spesso obliterata o sottovalutata natura performativa, il capitale radicamento nella effimera e vibratile dimensione della voce. Proprio nel proposito di ridar voce a questi testi – ai performer/narratori che continuano a trasmetterli, alla cultura comunitaria di cui sono depositari e interpreti – essi giungono così, per vie diverse ed autonome, ad una comune “scoperta”. E cioè che la forma di presentazione («the presentational form») che contraddistingue quei “testi” non è affatto quella – che a lungo è stata attribuita loro, nelle stesse raccolte di racconti tradizionali allestite dagli antropologi che li hanno studiati – di una prosa primitiva, stilisticamente povera, piena di tic e formule ripetitive. Il loro assetto è invece quello di sofisticate quasi-poesie, di artefatti verbali organizzati secondo una peculiare struttura quasi-versale. Ecco come Hymes, nel saggio Discovering Oral Perfomance and Measured Verse in American Indian Narrative, ne descrive il principio di organizzazione essenziale:
Il principio di organizzazione ha a che fare con gli elementi iniziali delle frasi. Spesso certi elementi iniziali ricorrono in ruoli strutturalmente significativi. Per questo aspetto, e per alcuni altri, i racconti Chinook possiedono elementi formulaici analoghi a quelli tanto importanti nel lavoro sull’epica di Milman Parry, Albert Lord, e altri. C’è tuttavia una fondamentale differenza fra i due casi. Nella poesia orale slava, in quella greca e in altre, gli elementi formulaici si manifestano e rilevano entro, e si adattano a, un verso che è regolato da un altro principio. Nella narrativa orale dei Chinook e, sospetto, in quella degli indiani americani in genere, gli elementi iniziali ricorrenti rappresentano essi stessi il principio regolatore. Sono aspetti dell’attività di misurazione che rende il materiale verso.
Uso il termine misura perché il materiale non mostra né una significativa regolazione fonologica dei versi (conta di accenti, sillabe o altro) né una significativa regolazione grammaticale dei versi (parallelismo e incorniciamento sintattico). Una o entrambe queste proprietà sono di solito attese quando si parla di metro. Certo, i versi di solito contengono o sono costituiti da un verbo, e una segmentazione dei racconti secondo il principio “un verbo, un verso” si approssimerebbe molto al vero schema. Tuttavia non i versi, ma quelli che qui vengono chiamati “versetti” sembrano essere l’unità cardine. E i versetti si riconoscono non contando elementi, ma riconoscendo ripetizioni all’interno di una cornice, la relazione tra le unità putative all’interno di un tutto. La covarianza tra forma e significato, tra unità e un modello Chinook ricorrente di organizzazione narrativa, è la chiave.
Nei racconti di Louis Simpson, come “Il ragazzo abbandonato”, gli elementi iniziali ricorrenti facilitano il compito. Le particelle iniziali ricorrenti che hanno infastidito tanti linguisti, etnografi e lettori con la loro monotonia – “Adesso”, “Allora”, “Adesso allora”, “Adesso di nuovo” e simili – si rivelano ben lontane dall’essere noiose banalità di menti primitive. Sono marcatori di misura. Quando un testo di Louis Simpson viene segmentato in base alla ricorrenza iniziale della coppia di particelle standard “Adesso allora”, la maggior parte dell’organizzazione poetica del racconto diventa immediatamente evidente.
Non ci interessa ora approfondire più nel dettaglio la proposta di Hymes, che peraltro è poi ben più articolata di così e si prefigge di mostrare, in definitiva, come i racconti orali dei Chinook siano organizzati in complesse strutture ricorsive e scalari, descrivibili «in termini di versi, versetti» (traduco appunto così l’opposizione, nell’originale, fra «lines» e «verses»), «stanze, scene, e quelli che possiamo chiamare atti». Né è il caso di insistere sul fatto che, in ogni caso, la struttura e il funzionamento di una performance, di un evento performativo orale, non è poi comunque davvero restituibile a partire da un’analisi – ma anche, più banalmente, da una fruizione – del suo solo testo. A dare ad un racconto o discorso orale la sua forma (a costituirlo come un racconto ben formato, valutabile nella sua efficacia e bellezza) sono sempre anche elementi di ordine para- o extra- linguistico: modulazioni di volume e timbro vocale, velocità e intonazione, elementi di gestualità e mimica facciale, ecc. Tutti elementi cui ad esempio Tedlock cerca di dare rilievo, nelle sue “trascrizioni”, attraverso specifiche strategie di “arrangiamento” grafico/paratestuale del testo: cambi di corpo e dimensione dei caratteri, manipolazioni della loro disposizione sulla pagina, indicazioni esecutive fra parentesi, ecc.
Piuttosto, ciò che qui rileva notare è che lavori analitici come quelli di Hymes e Tedlock confermano con particolare forza icastica una serie di ipotesi teoriche che, in vario modo, si affacciano diffusamente nei lavori di tanti altri oralisti e studiosi di culture tradizionali. Detto in modo un po’ schematico e rozzo, il punto è che la stessa elementare opposizione prosa/verso, così centrale nell’orientare la nostra percezione “letterata” della forma di un testo (letterario e non solo), in un contesto di oralità pura semplicemente non ha pertinenza. Nella sua varietà di articolazioni generico/tipologiche, nelle società della voce l’intero dominio dell’espressività verbale cerimoniale (ma si potrebbe forse anche dire, più in generale, l’intero dominio dell’espressività verbale tout court) è soggetto all’impiego di tecniche di modellizzazione ben formata del discorso funzionali a scandirne la progettazione (ma anche la fruizione) secondo un principio di segmentazione modulare del materiale verbale in unità temporali controllabili. Certo il tasso di codificazione di queste tecniche di messa in forma e controllo del discorso orale in unità modulari (e gli stessi modi qualitativi di tale codificazione) saranno poi in ciascuna cultura relativamente vari e differenziati, cioè di volta in volta strutturati in un sistema di tipi o moduli formali (e di generi discorsivi mediati da quei tipi o moduli formali) riconoscibilmente articolato, per gli appartenenti alla comunità, secondo principi di adeguatezza funzionale e appropriatezza socio-convenzionale alla gamma di situazioni di interazione verbale che quel sistema è deputato a regolare. Ma in tutti i casi, tale sistema di alternative compositive non si articolerà sulla base di un’opposizione tra forme prosastiche e forme poetico-versali, bensì tra forme più o meno lasche o rigorose, e più o meno variamente modulate, di organizzazione versale (o sia pure “para-versale” o “proto-versale”) del discorso. Inteso in questo modo insieme fluido e articolato, come categoria che identifica cioè un essenziale e malleabile paradigma di strutturazione ortolinguistica degli enunciati, il verso può insomma ben essere identificato o riconosciuto come l’unico vero strumento di formalizzazione e controllo del discorso che una società orale ha a disposizione. Detto altrimenti: l’essere in qualche modo in versi, l’essere dotato di una presentational form di tipo versale, è in fondo la prima e primaria traccia del radicamento dei “testi” o “discorsi” di matrice orale nel medium voce.
In quest’ottica, si potrebbe dire allora che un primo effetto trasformativo capitale del trapasso da un mondo orale puro all’età della scrittura consiste appunto nella rottura del monopolio assoluto del verso come potente e fluida forma ortolinguistica di riferimento per la produzione di tutti i discorsi ben formati orali, e nell’attivazione latente di una inedita opposizione fra i paradigmi formali del verso e della prosa. In una tipologia storica delle metamorfosi del poetico, l’emergere dell’opposizione verso/prosa costituisce il segnale (e il vettore) di una traumatica messa in discussione delle ragioni di funzionalità che fondavano e sostenevano lo statuto ortolinguistico del verso orale. A venir meno o comunque a perdere di rilievo, sulla pagina, non è solo la sua capitale funzione di mnemotecnica, di potente strumento di stoccaggio e trasmissione dell’«informazione non genetica», ma anche e soprattutto il suo insostituibile ruolo di dispositivo di controllo (progettuale, fruitivo) di quella complessa attività di ri-creazione inventiva in tempo reale di un “testo ben formato” che sempre è una performance cerimoniale orale. Nasce da qui un’esigenza di profonda ri-negoziazione e ri-giustificazione della funzionalità specifica del verso scritto, che sul piano delle concrete dinamiche di sviluppo storico-culturale può richiedere tempi lunghissimi per manifestarsi appieno, ma che ad un certo livello di astrazione si può ben identificare come il primo vero fronte di ridefinizione differenziale dell’identità del verso scritto rispetto a quello orale. A cosa serve, il verso, sulla pagina? Qual è o quale diventa la sua specifica ragion d’essere, ora che (almeno in potenza ma alla lunga – con la piena interiorizzazione della téchne scrittoria – anche sul piano effettuale) le tradizionali funzioni per cui era nato risultano assolte altrimenti?
La risposta a queste domande è nota: nel nuovo regime rituale che governa il funzionamento delle culture chirografico/tipografiche tradizionali, il verso progressivamente ma inevitabilmente si specializza come il principale marcatore in senso estetico del discorso letterario. Tant’è che il super-genere della poesia occupa stabilmente il centro di tutti i sistemi dei generi letterari classico-classicistici; e d’altro canto, se la prosa si presta sia ad usi estetici sia ad usi utilitaristico-funzionali, il verso è invece di per sé un’opzione formale che, pur restando amplissima e variegata – in tutte le culture letterarie pre-moderne – la gamma di generi e ambiti discorsivi cui può applicarsi, di per sé produce uno slittamento o ri-orientamento dell’interazione verbale da quello che Jean-Marie Schaeffer chiama il dominio funzionale dei discorsi «seri» verso quello dei discorsi «ludici» (cioè appunto esteticamente connotati). Sulla pagina, insomma, un testo o discorso non è più in versi semplicemente perché deve esserlo, per poter essere tramandato o anche solo per assumere un assetto “ben formato”: lo è invece per marcare uno specifico orientamento intenzionale/funzionale, in ragione del forte privilegio di dignità artistica che l’ottica sostanzialista delle culture classico-classicistiche tradizionali accorda al discorso versificato rispetto a quello prosastico.
Oltre che in opposizione latente alla prosa, d’altronde, il “nuovo” verso letterario si codifica e assume la sua identità specifica anche in opposizione differenziale al “vecchio” verso orale/performativo, attraverso un processo di metamorfosi evolutiva che è sì la traccia flagrante di un legame genetico ma, nel contempo, produce un allontanamento radicale delle due prassi e delle loro forme.
La nuova canonistica che, ai diversi livelli, regola l’esercizio della poesia letteraria, risponde sì in prima istanza ad una logica di trasposizione convenzionale sulla pagina dei meccanismi di funzionamento della vecchia poesia morale. Ma secondo un criterio di astrazione selettiva e codificazione normalizzante che presto ne fa un sistema del tutto autonomo e specifico di regolamentazione dell’interazione fra chi scrive e chi legge poesia. Tutta la varietà generico/tipologica della poesia orale è radicata situazionalmente: in certe specifiche occasioni sociali si fanno certi canti o racconti, che richiedono certi supporti ritmico-musicali o non ne richiedono, presuppongono certe modalità di interazione con l’uditorio e non altre, e via dicendo. A sorreggere questo insieme di regole è un regime di ritualità che ha un forte fondamento comunitario/partecipativo: sia nel senso che l’insieme di elementi e relazioni che definiscono il singolo evento performativo è sempre organicamente attivato in un legame di coinvolgente co-presenza immersiva, che ogni volta guida tutti i partecipanti a re-inscrivere il loro qui ed ora esperienziale nel presente spostato e reiterabile del rito; sia nel senso che l’interiorizzazione di quel regime rituale è mediata proprio dall’inscrizione dell’individuo nella vita della comunità, dalla sua varia e reiterata presenza partecipativa alle occasioni in cui quegli eventi performativi si celebrano.
Nei sistemi letterari classico-classicistici, questo sistema di vincoli si proietta e sublima nell’aureo principio della divisione dei generi e degli stili – per cui certi intenti e argomenti richiedono una certa forma o repertorio di forme, certe opzioni stilistiche e non altre, eccetera: dando corpo ad un nuovo e diverso regime di ritualità, che nel suo più o meno arzigogolato proliferare, articolarsi, rimodularsi, attenua sempre più qualunque apprezzabile rapporto con una gamma di situazioni reali, esibendo un fondamento ormai del tutto intellettualizzato e autonomo. Così come sempre più intellettualizzato ed autonomo diventa l’iter di addestramento attraverso il quale il membro della comunità letteraria può imparare a padroneggiarne le regole. Uno degli effetti più vistosi della riconfigurazione cui la poesia va incontro nel nuovo contesto della scrittura, insomma, è la sua trasformazione da pratica comunitaria, fondata sul (e sostenuta dal) coinvolgimento immersivo dei partecipanti nella situazione rituale, in un genere letterario a vocazione intellettualistica ed elitaria: che lungi dal prevedere un minor tasso di partecipazione attiva del fruitore, d’altronde, lo investe di nuove e più impegnative responsabilità, attribuendogli uno specifico ruolo di garante individuale della validità ed efficacia del rituale poetico-letterario a cui, leggendo, può distanziatamente prendere parte.
In questa dinamica di forte intellettualizzazione allusiva è facile allora riconoscere anche la ratio essenziale della profonda metamorfosi cui va incontro la natura stessa del verso in quanto forma ortolinguistica. Non più deputato ad organizzare la produzione di un evento verbale orale/performativo nel suo svolgersi, ma a modellare la forma di un testo scritto a dominante estetica, sulla pagina esso è ridefinito anzitutto a partire da una nuova e via via sempre più autonoma metrica meta-linguistica. Essa seleziona cioè alcune qualità fonologiche o prosodiche di un dato linguaggio naturale facendone il criterio di misurazione convenzionale di una sonorità o musicalità ben più mediata e obliqua di quella del verso orale: tanto più virtuosistica quanto più virtualizzata, essa pretende ad un fondamento non più “rozzamente” pragmatico ma ontologicamente radicato nelle più intime proprietà del linguaggio stesso. Ciò che il verso misura e assicura, in questo modo, non è più la durata di una catena verbale davvero pronunciata, la sua sempre minacciata isocronia pragmatica rispetto ad un principio mensurale extra-linguistico operante in praesentia, sul quale l’attività di progettazione si distribuisce e modella adattivamente (una base musicale o ritmica o sia pure, al limite, la campata di un intervallo progettuale dominabile). Quella che ogni metro letterario misura e assicura, con matematica precisione, è invece la durata convenzionale dell’esecuzione di una muta stringa di testo scritto, la sua corrispondenza o isometria strutturale ad un pattern astratto di prescrizioni/attese meta-linguistiche.
Ciò sancisce la metamorfosi del verso in una forma allusiva, che situa l’interazione fra chi scrive e chi legge in un altrove ritualizzato, un oltre-la-pagina entro il quale il muto testo che inchiostra la pagina (manoscritta o a stampa che sia) può schiudere e attualizzare la sua dimensione di sonorità/musicalità latente, cioè in qualche modo finta, simulata. Sulla pagina il verso poetico-letterario diventa, di fatto, una sorta di spartito, di puro spartito che il lettore deve interpretare ed eseguire per accedere alla “scena performativa ideale” entro cui il testo poetico-letterario lo chiama a raggiungerlo, gli chiede di trasportarsi per auscultare l’intellettualizzata forma di canto codificata nelle sue mute strutture.
Naturalmente questo luogo ideale in cui la poesia letteraria attinge una sua sonorità/performatività ritualizzata, sublimata dai suoi elementi di materializzazione e per così dire ridotta ai suoi termini essenziali, ha poi una struttura complessa e pluralisticamente articolata, infinitamente attualizzabile e modulabile: che impegna il lettore, per poterne fare esperienza, ad una interpretazione/esecuzione competente del ricco e stratificato sistema di istruzioni del testo-spartito che ha di fronte. Se l’essere in versi è la prima traccia del porsi del testo poetico-letterario in una scena performativa ideale, una serie di elementi di specificazione ulteriore del tipo di scena cui chi legge è chiamato ad assistere sono codificati appunto, in forma massimamente ritualizzata, nella specifica forma metrica adottata (o meglio nel modo più o meno rigoroso con cui è codificato – in una certa tradizione – il rapporto fra generi metrici e generi poetici). Leggere una canzone o un sonetto non è insomma come leggere un madrigale o una ballata, la “solennità” di un pezzo in sciolti non è paragonabile alla “brillantezza” di una anacreontica. Anche se con uno spettro di variabilità e indeterminazione più o meno sensibile, la forma del testo definisce già sempre una sorta di chiave, di registro tonale dell’evento verbale che la poesia simula. Ulteriori elementi di specificazione e modulazione del “canto” che la poesia virtualmente è, o ambisce ad essere andranno poi ovviamente dedotti dal modo in cui è conformato il singolo testo. A cominciare dal modo in cui è modellato il suo voicing (per riprendere con qualche libertà una suggestiva categoria di Culler), cioè gli “effetti di voce” prodotti dal più o meno ricco e mosso agitarsi in esso di atti di parola simulati (quello del più o meno fisionomizzato soggetto poetante, quelli di eventuali personaggi o prosopopee o figurae fictae, senza contare il “vociferare” prodotto da eventuali echi e riprese di auctores e testi del passato). Più in generale, entro l’astratta gabbia o struttura musicale del genere o del metro ogni lettore è poi chiamato, come ovvio, a cogliere e valutare il più o meno personale modo con cui il singolo poeta ne attualizza il sistema di vincoli (sul piano stilistico, tematico, rappresentativo, ideologico, ecc.): la metaforica “voce” individuale del poeta, la sua inconfondibile “inflessione” e “pronuncia”, consistono in definitiva in questo sintetico, sempre un po’ sfuggente e imprendibile effetto di specificità differenziale.
Come è evidente, comunque, la performatività ideale cui il testo poetico scritto in questo modo pretende definisce una scena di interazione ormai del tutto sganciata dalle condizioni reali della sua progettazione: per il poeta letterario il verso non è più misura dell’evento compositivo (che ha ormai tutto l’agio di svolgersi secondo i tempi e modi dilatati concessi dal medium scrittorio), ma semmai solo dell’atto o evento verbale fictus, simulato/teatralizzato che ne è il prodotto (almeno nel senso elementare che questa trasposizione dell’interazione verbale in altrove ritualizzato comporta). Ma che rapporto ha invece, questa “scena performativa ideale”, con le condizioni reali di fruizione del testo?
Si è già ricordato che, per chi legge, il nuovo rituale dell’interazione poetico-letteraria funziona appunto come un rigoroso sistema di istruzioni per la trasposizione del testo in una dimensione altra, un oltre-la-pagina performativo situato – per così dire – tra pagina e voce. Ma quale voce? È tautologico osservare che se una cosa non c’è, all’interno di un testo scritto, è proprio la voce di chi lo ha composto: il testo scritto ci viene sempre incontro senza voce, perdere la voce è l’ovvio prezzo da pagare per affidare alla pagina le nostre parole. L’unica voce in cui un testo scritto può prendere davvero voce, allora, è proprio quella di chi legge, cioè di chi dovrebbe ascoltarlo. Tanto più che, si sa, nel contesto delle società letterarie chirografico/tipografiche premoderne la prassi della lettura oralizzata è in effetti stata a lungo la norma. Certo eseguire vocalmente una poesia che leggiamo –
ascoltarla prendere voce nella nostra voce – è un’operazione che produce sempre un esito in qualche modo ambiguo, spurio, perché instilla nel testo una dimensione di corporeità, di materializzazione, che non gli appartiene. Eppure proprio attraverso questa materializzazione episodica, in ultima analisi allotria, che l’esecuzione reale o sia pure solo mentale del testo-spartito schiude al lettore competente, diventa possibile dar vita e corpo a quella sonorità pura, immateriale, che è cifrata e per così dire nascosta dentro le sue mute strutture. In questo senso, si può dire che il testo poetico-letterario tradizionale fa sempre appello all’intervento di un lettore, anzi ad un corpo leggente – o sia pure, al limite, al corpo muto ma risonante di una mente leggente – che attraverso il suo atto esecutivo-performativo ne attualizzi la sonorità o performatività latente.
Bibliografia essenziale
J. Culler, Theory of the Lyric, Harvard University Press, Cambridge (Ma) – London 2015.
G. Frasca, La lettera che muore. La letteratura nel reticolo mediale, Meltemi, Roma 2005.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969 (specialmente nel quarto saggio, Critica retorica. Teoria dei generi, pp. 321-345).
S. Ghidinelli, L’interazione poetica. Modi di socializzazione e forme della testualità della poesia italiana contemporanea, Guida, Napoli 2013.
E. Havelock, La musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Laterza, Bari 1987.
D. Hymes, «In vain I tried to tell you». Essays in Native American Ethnopoetics, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (Pa) 1981; e Id., Now I Know Only So Far. Essays in Ethnopoetics, University of Nebraska Press, Lincoln (Ne) 2003.
W. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986.
J. Schaeffer, Che cos’è un genere letterario, Pratiche, Parma 1992.
D. H. Tedlock, The spoken word and the work of interpretation, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (Pa) 1983, trad. it. Verba manent: l’interpretazione del parlato, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2002.
P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, il Mulino, Bologna 1984.
NB. Per i rimandi bibliografici in dettaglio si rinvia all’edizione del volume.
[Immagine: Tony Oursler, 4^#z, 2019].