di Tommaso Giartosio
[Questa è la seconda e ultima parte di un saggio la cui prima parte si trova qui].
III.
In che modo, dunque, i promessi hanno potuto diventare sposi? Renzo ha dovuto mutare. La Donna incarna valori etici superiori, l’Uomo deve acquisirli (e, più di lei, agirli nel mondo): questo significa in qualche misura lasciarsi influenzare dal femminile. Ora, il paradosso – ai nostri occhi moderni – è che la maturazione etica (di Renzo, come dell’Innominato o di Lodovico-Fra Cristoforo), pur comportando un’assunzione maschile di tratti femminili, viene presentata con tutti i crismi di una rinuncia a una “braveria” misogina in odore di omosessualità. Del resto è logico che, in un mondo letterario in cui i gay sono machos che si ghettizzano e non hanno certo fag hags o amiche del cuore, gli uomini che invece introiettano il femminile compiano un passo decisivo verso una virilità “autentica”, in senso sia etico sia identitario. Cioè facciano un coming out eterosessuale, difficile e risolutivo e aurorale né più né meno di quello gay-lesbico. Basti pensare alla semeiotica della conversione nell’Innominato, completa di crisi d’identità, mascheramento, negazione del problema, ritorno di ricordi giovanili rimossi, attacchi d’ansia, fantasie di morte, senso di isolamento, ricerca di una nuova socializzazione legittimante: tutto questo – lo ripeto – non per scoprirsi omosessuale, ma al contrario per riconoscere di non essere più come i suoi bravi; per ripetersi (cinque o sei volte!) di «non essere più uomo» (396, 405-406) e in tal modo divenire un vero uomo. A mediare questa metamorfosi è Federigo, designato ripetutamente nel capitolo XXII dall’Innominato e dal narratore come un «uomo» – e che tuttavia è caratterizzato (attraverso lo sguardo, prezioso, del cappellano) come indifeso e inerme, e si descrive egli stesso come un «omiciattolo» (430). Il Fermo e Lucia insisteva ancora di più su questa virilità paradossalmente antivirile: per il Conte del sagrato il Cardinale è «un uomo che si porrà un bell’abito» (367), e lo stesso narratore si sofferma sulla «semplicità sontuosa della porpora» (390); Manzoni aveva addirittura inserito il ricordo di un primo incontro adolescenziale tra i due. Sono due ragazzi cresciuti. Ma cresciuti davvero.
La maturazione etica di Renzo è meno improvvisa e drammatica di quella dell’Innominato, ma c’è anche un’altra differenza: non è irreversibile. Nel matrimonio clandestino, nell’osteria della Luna nuova, nel lazzaretto, Renzo torna a dar prova di “braveria”. Lo fa addirittura dopo il matrimonio e il trasferimento nel Bergamasco, entrando in conflitto con i nuovi compaesani riguardo a Lucia. Manzoni ci ricorda (mediante un’allusione al duello, dunque al mondo di Don Rodrigo) come anche in questo episodio si tratti in fondo del normale, rituale ricorrere della violenza omosociale maschile: «Sapete quante belle cose si possono fare senza offender le regole della buona creanza; fino sbudellarsi» (743). Il fatto è che il giovane proletario incarna negli Sposi non l’ideologia (come l’Innominato o Fra Cristoforo), l’exemplum, ma il principio di realtà. Non naturalmente una realtà assoluta, ma il principio di realtà come Manzoni lo immagina (e come lo immagina anche Pasolini quando scrive che le pagine su Renzo «traspaiono sul reale, si confondono col reale, hanno l’assolutezza del reale, e anche la sua sostanziale leggerezza»).[1] Renzo non è l’eccezione, è l’Everyman; non serve a dimostrare una tantum il teorema della conversione, ma a dare corpo al replicato insorgere della virilità – e così necessitare la costante presenza al suo fianco di una femminilità sedata e sedativa. L’Uomo deve essere incapace di convertirsi: se potesse farlo, se potesse disinnescare una volta per tutte la propria aggressività, la Donna poi potrebbe lasciarlo. Fine della famiglia. Fine del patriarcato, se vogliamo. Fine della patria, anche in senso etimologico. Dunque la conversione non sarà mai definitiva, perché deve potersi ripetere all’infinito. Renzo deve conservare la sua “braveria”: in termini di identità sociale, dovrà sempre sentire il richiamo del mondo gotico-feudale dei clan maschili, per far apparire il proprio potere patriarcale come nulla più che un’ombra di ciò a cui ha rinunciato; in termini di identità sessuale, dovrà essere sempre disponibile all’omosessualità per rimanere primo attore dell’indiscutibile esito eterosessuale. [2] E proprio questa disponibilità spiega anche il coinvolgimento (inscindibilmente estetico, politico e erotico) di Pasolini, che trova nel giovane operaio una conferma del suo paradigma sociosessuale di riferimento – un’eteronormatività legittimata dalla trasgressione omosessuale: il maschio accetta il singolo incontro gay perché è etero; il suo concedersi è garanzia della sua eterosessualità (che l’omosessuale stesso vuole vedere confermata). Schema, come si vede, cattolico-manzoniano, da mistero della fede.[3]
Occorre dunque assicurare la funzionalità di questo apparato biopolitico ante litteram. Garante del processo non potrà essere l’autorità patriarcale, visto che Manzoni intende proprio mettere in discussione il patriarcato tradizionale; in questo romanzo sulla famiglia sono quasi del tutto assenti i padri buoni, mentre ce n’è qualcuno cattivo (come quello di Gertrude); e la scelta nuziale dei promessi non è intorbidita da alcuna negoziazione lévi-straussiana con i suoceri. Ma Manzoni sa bene che sfoltire la rosa dei personaggi non basta. Di padri ce ne saranno ancora, che ne devono essere, e devono anche conservare una certa qual posizione di forza, non possono e non devono essere del tutto eterodiretti dalla virtù delle mogli. Il problema degli Sposi è appunto – e in questo c’è probabilmente un riflesso autobiografico delle tristi esperienze del piccolo Alessandro – come produrre un buon padre: non a caso la trama non si conclude con il matrimonio, come in una fiaba, ma con la procreazione di un’intera nidiata di bambini, a conferma del progetto narrativo di fondare una famiglia – una certa idea di famiglia. La biologia non basta a fabbricare padri, anzi un importante obiettivo polemico del romanzo è proprio l’orgoglio dinastico. Negli Sposi abbondano però i buoni Padri: cappuccini e provinciali e guardiani. Sarà allora la virilità cristiana della Chiesa a assicurare il buon esito del percorso e a attribuirgli i caratteri di un perfezionamento etico. Così assistiamo insieme alla critica e alla celebrazione del patriarcato: la paternità naturale è poca cosa, ma su di essa si modella entro la sfera religiosa la paternità simbolica, che a sua volta si pone come modello insostituibile di ogni rapporto di subordinazione maschile. L’esempio da manuale è quello dell’Innominato: considerato dal cardinale «uno de’ miei figli» (429), dopo la conversione comincia a chiamare i suoi bravi «figliuoli» e a proporsi come loro padre (472). Ma la malleveria della Chiesa permette soprattutto al patto tra maschi di ripetersi tra Renzo e il padre simbolico, Fra Cristoforo, portando così al matrimonio di Lucia.
Un discorso analogo, naturalmente, si potrebbe fare per la fraternità. Ottimi i frati presenti nel romanzo, assai meno presentabili i fratelli (come Tonio e Gervaso, o il fratello del gentiluomo ucciso da Lodovico). Il modello della fraternità è meramente biologico; la fraternità simbolica lo perfeziona. Per questo (nonostante i doverosi encomi della vita claustrale, oggetto anche di molte pungenti ironie) la parte migliore della Chiesa, come ho già osservato, è quella che partecipa al mondo laico assumendo in pieno il suo ruolo di guida “parentale” e “fraterna”: il che la rende assai meno esposta ai vizi intrinseci nelle altre comunità omosociali. La sua azione e il raggiungimento del lieto fine matrimoniale sono infatti concretamente ostacolati da questi ricettacoli di separatismo. Ma un altro bersaglio omosociale del romanzo è la semplice amicizia, quasi sempre ritratta in termini negativi, o semplicemente riduttivi. Anche l’amico «rimasto solo» (645) che Renzo ritrova tornando al suo paese è più che altro un puntello narrativo che compare nel passaggio dal Fermo e Lucia agli Sposi. Questa intimità nata per ragioni estemporanee (la peste, che li ha lasciati entrambi soli e gli fa apprezzare ogni gesto di «benevolenza», 646) serve solo a ottenere reciproco «sollievo» e appoggio pratico, con lunghe pagine dedicate al lavarsi e cucinare e far lavoretti; finché l’amico, rapidamente declassato a «ospite amico» (715), scompare restituito a una sua inopinata ma rassicurante «famiglia» (741).
Il nido famigliare è negli Sposi un porto sicuro. Anche perché, l’ho già detto, nel progetto di fondare la famiglia su un buon padre Manzoni esprime probabilmente un rimpianto personale, di figlio. C’è un documento significativo che permette di approfondire la questione. Che io sappia, l’unico testo manzoniano che tematizzi apertamente l’omosessualità è un outing: l’invettiva in quartine che un Alessandro convittore sedicenne rivolge contro il suo insegnante Gaetano Volpini, vicerettore del collegio Longone di Milano, accusandolo di molte colpe e soprattutto del vizio innominabile.[4] Il tema della pedagogia come pederastia è radicato nella tradizione italiana (e non solo): basta pensare ai sodomiti che «tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama» di Inferno XV 106-107. Manzoni lo sviluppa facendo perno sulla relazione di potere: «Costui, cui tanta in cor siede superbia / è schiavo d’un fanciullo»; ma il fanciullo in ogni caso rimane un subordinato, una vittima, dato che il prete «e la ragione infante, e gli anni teneri, / e l’innocenza abusa.» Abbiamo visto che l’omoerotismo manzoniano si attiva soprattutto in presenza di un differenziale gerarchico: in questo senso, il collegio è una prova generale del castellaccio secentesco. Non a caso l’incipit dell’invettiva – «Quanto i colombi amici son del nibbio / tale di te son io» – evoca già il Nibbio degli Sposi. E se la punizione che spetta a padre Volpini, nomen omen, è di intrappolargli la «coda […] calida», nel romanzo la metafora sessuale e bestiale della “coda” verrà utilizzata sempre e solo per il Griso, i bravi, Don Rodrigo, Ferrer. La differenza, ovviamente, è che qui, nella satira giovanile, la componente gay è scoperta. Alessandro deve dar voce a un panico omosessuale vissuto sulla propria pelle: dopo la separazione dei genitori ha fatto prova dell’omosocialità come di una prigionia, una violenza indotta dal frantumarsi del rifugio famigliare eterosessuale.[5] Di qui anche, nel romanzo, la figura ricorrente del padre cattivo; il tema ricorrente della monacazione forzata; e soprattutto l’invenzione ricorrente di una minaccia omosociale/omosessuale che si struttura in istituzioni totali gerarchiche, presenti e potenti, strettamente funzionali alla logica interna degli Sposi.
Ora però si pone una questione di metodo. Questo ricordo di giovinezza, questo verosimile investimento personale dell’autore, è un elemento importante? Sì e no. Nelle poche pagine di Arbasino e Pasolini che per prime (credo) affrontano il tema dell’omosessualità nei Promessi sposi, la fa da padrona una sbrigativa lettura psicoanalitica della vita di Manzoni – in modo birichino in Certi romanzi, con gravità in Descrizioni di descrizioni. Questo livello di indagine deve interessarci, mi sembra, soprattutto per le sue ricadute più ampie, altrimenti si rischia di dire simpatiche assurdità come quelle del saggio freudiano su Leonardo. (In generale, credo che la psicoanalisi abbia offerto alle nostre menti un lessico preziosissimo, e una pericolosissima sintassi.) Prendiamo per esempio la diceria riportata da Carlo Dossi, secondo cui Manzoni avrebbe avuto una relazione giovanile con un altro gentiluomo milanese.[6] Per leggere gli Sposi in chiave queer non è necessario che l’autore stesso abbia un’identità sessuale eterodossa; ben pochi, soprattutto tra gli artisti, ne hanno una “semplice”; e il suo investimento personale non farà che completare e orientare lo svolgimento di un tema che è comunque già presente nell’opera, perché è presente nella realtà. Vera o falsa, la voce riferita da Dossi – così come la satira collegiale del giovane Alessandro, che torna ossessivamente sul tema dell’indicibilità e del segreto – ci rivelano che nella Milano di allora c’erano relazioni omosessuali su cui pesava un grave interdetto, c’erano dicerie omofobe, c’erano luoghi (il collegio) e ceti (la jeunesse dorée aristocratica) più esposti a queste letture: c’era insomma il closet, lo “sgabuzzino” del segreto omosessuale (tutto il primo Ottocento è un’età sottovalutata dagli storici della sessualità). E allora non ci occorre altro. Volendo, si può tentare di agganciare al discorso identitario presente negli Sposi anche una ricostruzione psicoanalitica della biografia dell’autore. Ma dare eccessivo significato a questa dimensione significherebbe compiere una scelta patologizzante, e soprattutto legare la riflessione sull’omosessualità alle idiosincrasie della psiche individuale, invece di radicarle semplicemente in un mondo che conteneva anche l’omosessualità, e ne parlava molto più di quanto si creda, da Parini a Beccaria, da Alfieri a Monti, da Belli a Leopardi…[7] Cesare Beccaria, per esempio, punta il dito proprio contro i collegi in cui finirà il nipote Manzoni: «quelle case dove si condensa l’ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile a ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si consuma inutilmente per l’umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia».[8] Così i Promessi sposi, al di là delle vicissitudini del loro autore, si inseriscono in una polemica illuminista e ne declinano la critica anticlericale in una direzione nuova, romantica e risorgimentale. Cambiandone ovviamente il significato. Ma questo ci porterebbe troppo lontano.
Limitiamoci allora a dare un esempio di come il gioco delle identità sessuali abbia a che fare soprattutto (o in modo più interessante) con le grandi questioni storico-politiche. L’ombra di una deriva omosessuale dell’omosocialità svolge negli Sposi una funzione ben precisa. Serve a sviluppare un determinato discorso (che stiamo ricostruendo) sui generi e sulle sessualità e sulla sessualizzazione della politica, in forme niente affatto scontate. Tra l’altro esso costituisce un radicale, deliberato rovesciamento della retorica dominante nel discorso patriottico. Per secoli, e soprattutto in epoca (pre)romantica, scrittori e intellettuali avevano ripetuto che gli italiani oppressi da dominatori stranieri avevano tradito la propria identità sessuale. Erano “femminei”, “snervati”, “evirati”, “passivi”, “molli”, “bardassa”, “eunuchi”, “capponi”. Negli Sposi, pur ambientati nel secolo della massima sottomissione italiana, queste immagini mancano tutte. Unica eccezione, i capponi. Quelli che Renzo porta in dono all’élite filospagnola. Azzeccagarbugli sta per divorarli, ma intanto «quelle quattro teste spenzolate […] s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» (51): tra compatrioti senza patria. Il vero problema italiano, insomma, non sono gli italiani contagiati dal femminile, ma gli ipervirili: i bravi, per esempio. Essendo troppo maschi non sono veri uomini, non hanno la stoffa dei padri né dei patrioti. Come l’ardente gioventù chiusa nei collegi di cui parla Beccaria, si consumano inutilmente per l’umanità, invece di generare. Manzoni respinge il byronismo, vi coglie un avvitamento narcisistico. Byron, del resto, come sappiamo… E allora è giusto e deliziosamente beffardo che Lucia, appena la rinuncia a sposare Renzo le ha fruttato la liberazione dal castello dei bravi, per prima cosa si mangi un bel cappone in brodo. E che dopo l’offerta della verginità alla Madonna, un pezzo di cappone vada in dono alla vicina di casa: di nome Maria: per farla «stare un po’ allegra» (461).
IV.
Ma quando avremo durato l’eroica fatica di ricostruire le dinamiche identitarie sottese al “sistema” dei Promessi sposi, cosa ne avremo ricavato? Non si avrà l’impressione che abbiamo voluto punire il romanzo per le sue inadempienze etico-politiche?
Manzoni svolge (non solo negli Sposi) una riflessione sulla famiglia che per molti versi è all’avanguardia rispetto alla sua epoca. La sua critica dell’orgoglio di stirpe aristocratico è largamente condivisibile; il suo modello di una coppia che sceglie di unirsi in modo relativamente autonomo e paritario è molto avanzato; la sua debiologizzazione della genitorialità, almeno di quella maschile (il tema della “paternità simbolica”), rinnova un filone culturale antichissimo ma prezioso… Solo che per questa strada non si va da nessuna parte. Oggi i ruoli sessuali, famigliari e di genere dell’Ottocento (anche il migliore Ottocento) non possono che starci stretti. E se anche così non fosse, giudicare un’opera d’arte del passato in base ai suoi valori sarebbe comunque assurdo. Cercare nei suoi personaggi, nelle sue trame degli esempi validi per tutti i tempi è puerile. Non sta qui il suo merito. È altro che ci può offrire.
La personalissima inarcatura a cui un artista come Manzoni sottopone per esempio la tematica (anti)identitaria, l’omofobia, la questione del genere, costituisce un fenomeno affascinante e anche prezioso. Una grande scrittrice o scrittore è sempre un’alleata di chi la legge, perché è una straordinaria partner intellettuale: questo a volte la critica queer deteriore l’ha dimenticato. Ogni artista è più o meno indebitata alle ideologie sue contemporanee (assegnando al termine il senso di “sistema coordinato di idee e valori, avanzato o reazionario che sia, ma inevitabilmente coeso e chiuso”). L’opera d’arte è tale non perché trasmetta valori assoluti, ma perché il suo gioco di riflessi e polisemie porta all’estremo i principii fondamentali del suo tempo: ne svela segreti, paradossi, contraddizioni. In questo senso l’arte non è a-ideologica, ma casomai iperideologica: porta l’ideologia fino alla sua verità. Al dunque: Manzoni disegna un’architettura sociosessuale e la esplora. Percorre alcuni corridoi, altri si limita a riportarli sulla mappa. Ma ne identifica – diciamo – molte, moltissime ramificazioni. Fino a quelle che necessariamente portano fuori, come nel primo teorema di incompletezza di Gödel. Come artista, questo gli interessa almeno quanto la closure dell’opera e dell’ideologia: sa bene che la closure, in realtà, implica l’apertura… E lo sguardo queer è splendidamente equipaggiato per ripercorrere i suoi passi. Ma anche per scoprire che Manzoni, delineando la fortezza, non poteva non segnarne anche i punti deboli, le falle, le vie di fuga verso altri luoghi. È una delle facoltà singolari e incomunicabili dell’arte, il poter smarrire e confondere chiunque ricorra ad essa: è una strada così fatta che chi vi fa un passo per camminare con sicurezza e di buona voglia e arrivare lietamente a un lieto fine, capita sempre in un labirinto, in un precipizio. Ci vuole coraggio a scrivere. Tracciare queste mappe di lettura non costituisce dunque una critica a Manzoni, ma un esercizio di ammirazione.
Torniamo allora nel vivo del testo, cerchiamo di coglierne alcuni aspetti che hanno più evidenti ricadute sul nostro pensare l’oggi.
Negli Sposi le identità di genere sono polarizzate, digitali: si è maschio o si è femmina. Le identità sessuali sono invece discrete, analogiche, e lo sono proprio perché fondate su una salda dicotomia di genere. Dato che ogni uomo (come Renzo-Everyman) è per sua natura tentato dalla violenza omosociale/omosessuale, e ogni donna che lo capisca (come Lucia) è tentata di eludere the company of men riparando tra altre donne, ogni individuo occupa di volta in volta una diversa posizione sul continuum degli orientamenti sessuali a seconda che si trovi più o meno vicino o lontano rispetto a questi poli negativi. Nonostante appaiano così ritagliate e definite nella loro icasticità separatista, le comunità dei bravi e delle monache non costituiscono dunque delle identità in sé, ma solo dei punti cardinali, delle decantazioni di qualcosa che è sempre già presente nell’identità maschile o femminile – questa sì alla base del romanzo. Ora, questo paradigma sociosessuale si è oggi in larga parte rovesciato di segno. L’Italia dei nostri anni vede uno sfrangiamento crescente delle identità di genere (per quanto la nostra cultura, in senso antropologico, resti saldamente fondata su di essa), e d’altra parte – nonostante il fenomeno, significativo ma di superficie, della metrosexuality – una polarizzazione crescente degli orientamenti sessuali, di cui la totale negazione di diritti a gay e lesbiche è insieme causa e sintomo. Dunque, quanto al genere, boom del transgenderismo e lento superamento e ibridazione dei ruoli maschili e femminili; quanto alla sessualità, scelta stabile di un’identità gay o etero, e crisi della bisessualità. Così un politico sorpreso con una sex worker transessuale afferma di essere eterosessuale semplicemente perché «non sono omosessuale», poi passa a tratteggiare la sua teoria sui diversi gradi di femminilità nel continuum gender/transgender («I transessuali sono donne all’ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria»).[9] Ebbene, credo che dovremmo rallegrarci del graduale superamento del binarismo di genere, ma anche rammaricarci del fatto che l’orientamento sessuale divenga il nuovo binarismo che struttura la nostra realtà. Forse oggi Manzoni potrebbe insegnarci – una volta invertite le valenze etiche presenti negli Sposi – a pensare di nuovo le omosessualità come pratiche virali, diffuse, disseminate. Il mondo leather dei bravi potrebbe essere oggetto di una “lettura riparatrice” che recuperi il potenziale liberatorio di quella che era originariamente una icona omofobica. [10]
Ma c’è di più. Negli Sposi l’omosessualità spaventa per la sua (pretesa) purezza, mentre la relazione eterosessuale è valorizzata proprio per la sua implicita impurità, come felix culpa, mediante una retorica della contaminazione positiva.[11] Ma il fatto è che una volta stabilito che i maschi saranno sempre maschi anche se prendono qualcosa dalle donne (e viceversa), una volta aperta dunque la strada che congiunge le polarità indiscutibili del maschile e del femminile, diventa possibile percorrerla in più modi. In questa terra di nessuno (e di tutti) accadono molte cose che posso solo limitarmi ad accennare. La maschilizzazione della donna è rara e negativa, macchiata di “braveria”: è il caso delle «donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute» del castello di Don Rodrigo (87), oppure di Gertrude che ha «certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna» (171); forse anche della donna-pentolaccia che Renzo incontra entrando a Milano (233-234). Solo la mercantessa non sembra sfigurata dal ruolo sociale maschile che ha ereditato alla morte del marito, ma è comunque «sola e trista padrona» dei suoi beni (703). Lo spettro della femminilizzazione maschile è più variegato. L’esito prevalente è la maturazione etica (ne abbiamo già parlato), ma può anche esservi, al contrario, seduttività o abiezione. Tra il maschile e il femminile trovano posto: il «Non son più uomo!» dell’Innominato (406); il «Sono o non sono un uomo io?» di Renzo (116); il dirsi «omiciattolo» (85), il «Tu sai perché io porto quest’abito» (685), di Fra Cristoforo; il cancelliere Ferrer «tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso», tanto da sembrare una «mamma» (261, 266); la «floridezza verginale» (428) di un altro «omiciattolo» (430), il Cardinal Federigo; e Federigo stesso che estende l’immagine della vergine a Don Abbondio: «La mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade» (499). La transizione di genere, come si vede, ha modalità meno impegnative di quella tra gli orientamenti: non più le carezze di Gertrude, i baci di Renzo, il frugare nei vestiti del Griso, ma simboli, metafore, principi morali, essenze – l’”abito”, l’essere “uomo”. Eppure per almeno alcuni di questi casi (ciascuno dei quali andrebbe esaminato in modo approfondito) è evidente che l’omosessualità – cacciata via dalla porta del separatismo identitario – rientra dalla finestra della transitività di genere. È il caso di Don Abbondio che, come dice Perpetua, «sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le…» (29).
Ecco, prendiamo Don Abbondio. Si potrebbe cercare nella sua figura elementi gay: già la satira giovanile attribuisce al prete sodomita, padre Volpini, una «natura / verso i potenti mansueta, e timida, / verso l’imbelli dura». Abbondio è una variante degradata del modello dei grandi “cherci” di Inferno XV. Di qui la sua sensibilità erotica (veramente carnale, per esempio, la sua descrizione di Renzo come uno che si sente «il bruciore addosso», 32). D’altro canto, è evidente anche la sua inerzia erotica (completiamo la frase: «Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo»). E qui l’interpretazione imbocca un’altra strada. Si può pensare sineddochicamente la paura come eros, il closet come identità? Ho l’impressione (ma andrebbe lungamente verificata sul testo) che Abbondio, la presenza più fisicamente espressiva dell’intero romanzo, erotizzi il suo stesso ritrarsi da ogni dispendio libidinale. Potrebbe essere molto proficuo esaminarlo in chiave queer. Entrato nel romanzo come una figuretta comica, questo personaggio ipermedio ma non mediocre lo attraversa tutto acquisendo sempre maggiore profondità nonostante costituisca una formidabile smentita dell’ideologia politica, sessuale e di genere degli Sposi, che alla fine lo risputa senza aver potuto digerirlo. È un perpetuo deficit identitario, prevedibile e inconoscibile: un maschio flaccido, un prete senza fede, un eterosessuale calabraghe; il garante e il sabotatore delle nozze che alla fine – nota sublime – sarà lui stesso a celebrare, ridotto a una presenza spettrale che forse è la sua più profonda verità. Tutto lo piega, nulla lo ammazza, neanche la peste. Abbondio è il resto, l’eccesso dell’Italia dei Promessi sposi. Gadda, proprio Gadda la cui identità sessuale è così in ombra, confessò a Arbasino: «Se un Dio estetico mi domandasse in quale personaggio manzoniano vorrei identificarmi, risponderei subito: in Don Abbondio!»[12] È stato a lungo, credo, una figura cruciale ma segreta e scandalosa nell’elaborazione dell’identità gay in Italia – scandalosa perché elude ogni scelta identitaria. Abbondio, «non nobile, non ricco» (23), è il personaggio più borghese degli Sposi, corazzato di rispettabilità (la parola “rispettabile”, nel romanzo, viene pronunciata solo quattro volte: due volte da lui, una da Don Ferrante – e una dal narratore stesso); della borghesia ha tutti i difetti; eppure potrebbe diventare uno zio nobile del posizionamento queer, che appunto intende smarcarsi da ogni inquadramento identitario. A Manzoni va riconosciuto il merito di averlo creato: a riprova del principio secondo cui una grande opera d’arte conferisce profondità anche alla propria omofobia, mettendo a nudo in essa i germi del suo superamento.
In questa stessa direzione, un’altra figura che andrebbe esplorata è quella di Gertrude. Mi limiterò a fornire qualche spunto. Italo Calvino ha fatto notare l’analogia topologica tra Abbondio e Gertrude: occupano la posizione della Chiesa cattiva in due triangoli che hanno come altri vertici rispettivamente la Chiesa buona (Fra Cristoforo, il Cardinal Federigo) e il Potere cattivo (Don Rodrigo, l’Innominato).[13] La Chiesa cattiva è una evidente contraddizione in termini, un significante instabile, un perturbante spazio queer. La monaca di Monza costituisce appunto una zona oscura del romanzo: Salvatore Battaglia per esempio attribuisce a lei – e non agli altri villains degli Sposi – una «psicologia proibita, che ispira alla coscienza dello scrittore un atteggiamento di attrazione e insieme di ripulsa […] la perplessità dell’uomo sano che si arrischia di sondare le regioni malate della vita» e percepire «la oscura minaccia del contagio morale».[14] Ecco di nuovo la metafora del contagio morale, di cui ormai si intravede la complessità (non parlo qui del contagio fisico che ha valenze legate al contesto e ai personaggi coinvolti). Negli Sposi il contagio morale è quasi sempre positivo, l’abbiamo visto, quando comporta il superamento delle differenze: cioè dell’unica vera Differenza, quella tra maschile e femminile. Entro un contesto omogeneo, invece, non porta nulla di nuovo o di buono: è solo la forma eccessiva, patologica del contatto; dunque una malattia degenerativa di quella «tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi» (22) che il romanzo prende di mira e analizza anche attraverso l’evocazione dell’omosessualità. Ora, Gertrude contagia (e seduce) – come scrive Battaglia – perché è stata contagiata (e sedotta) dal padre. Certo, qui abbiamo a che fare con il rapporto tra un uomo e una donna. Ma credo che Manzoni voglia suggerire che Gertrude è stata mascolinizzata dall’orgoglio dinastico respirato in casa: quelle mosse «troppo risolute per una donna» (171) vengono da lì, dall’abitudine del potere, da un’interiorizzazione del contesto patriarcale che ha reso “omosociale” il legame tra quel padre e quella figlia.
E se è diventata un po’ uomo, è anche perché difficilmente poteva restare donna. O, più in generale, restare se stessa. Di lei ci viene detto infatti che, da piccola, «la sua indole la portava facilmente […] a qualche atto un po’ arrogante e imperioso», ma subito dopo apprendiamo che, a dispetto di ciò, «trascorreva con uguale facilità [a] cert’altre maniere troppo libere e famigliari» (177). Tutto qui: non sappiamo altro riguardo al carattere originario di Gertrude. Perché non ne ha uno suo. Daniela Brogi ha mostrato che perfino gli impulsi ribelli di Gertrude nascono dall’assunzione passiva di un altro aspetto dell’ideologia paterna: l’orgoglio, quello stesso orgoglio per cui il padre vuole consolidare il patrimonio monacando la figlia. Dietro quegli impulsi non opera dunque la «riappropriazione di un sé finalmente autentico che grida libertà».[15] Se, come osserva Brogi, la conversione della monaca di Monza ad opera del cardinal Federigo non riceve un centesimo dello spazio narrativo dedicato al ravvedimento di Lodovico o a quello dell’Innominato, è perché sarebbe arduo ricollocarla in un contesto di autenticità. In Manzoni la conversione è sempre anche recupero di un elemento incorrotto primario, giovanile o infantile, su cui fondare la nuova vita. Nel caso di Gertrude questo punto di partenza non si dà e la conversione sarebbe dunque invenzione, sembrerebbe arbitraria e fittizia. All’inizio dell’analessi che racconta la sua vita, leggiamo che – poiché il suo destino di monacazione è stato fissato dal padre prima ancora della nascita – «rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza» (176). Se l’alienazione precede addirittura l’esistenza del soggetto da alienare, Gertrude non possiede un’identità autentica poi alienata, è la propria alienazione; anche la sua identità di genere è meramente contingente, accidentale; quando rimpiangerà la «libertà perduta» (207) non si renderà conto che questa libertà di essere (o reinventarsi come) maschio, femmina, affabile, arrogante, colpevole, vittima, etero, lesbica, è sempre stata circoscritta dall’obbligo entro cui è nata; questa libertà si chiama irrilevanza. Meditate, queer, meditate.
[1] Pasolini, “Alessandro Manzoni, I promessi sposi” cit., p. 209.
[2] Volendo, qui si può scorgere una conferma della teoria foucaultiana secondo cui in età premoderna l’omosessualità era concepita come pura pratica e non come identità.
[3] Non a caso per Renzo tutto il percorso a ostacoli del romanzo è letteralmente un «mistero», dal latino canonico di Don Abbondio (37-38) al voto di castità di Lucia (634). Va osservato, inoltre, che l’ambiguità di questo paradigma fa tutt’uno con la sua esibita chiarezza. Renzo non può essere ambiguo o queer, ma deve continuamente divenire chiaro – benché non debba mai esserlo. In una poesia inedita Pasolini torna a mettere in scena (come già in Descrizioni di descrizioni) come proprio doppio Manzoni stesso, e il suo amore «per Renzo, / giovanotto sano, chiavatore sicuro e pudico, moretto / lombardo, visto senza ambiguità, appunto / per la grazia dell’humour che redime / i desideri inconsci». Il desiderio omosessuale è una colpa, a meno che non resti inconscio e misterioso. “Studi per un 33 giri sulla letteratura italiana”, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di Graziella Chiarcossi e Walter Siti, pref. di Giovanni Giudici, Milano, Garzanti, 1993, vol. 2, p. 2337; il corsivo è mio.
[4] Alessandro Manzoni, “Ad un calunniatore. P. Volpini barnabita”, Poesie e tragedie, a cura di Valter Boggione, Torino, UTET, 2002, pp. 275-278. La poesia è stata pubblicata per la prima volta nel 1996.
[5] Michel David traccia un «ritratto analitico del Manzoni segreto» che va in questo senso, e ci ricorda che anche la madre dello scrittore «fu lei stessa mandata in convento giovanissima per favorire un secondo matrimonio del padre», e più tardi «sposata contro voglia per interessi altrui» (Letteratura e psicanalisi cit., p. 323). Sul concetto di “panico omosessuale” vedi il classico studio di Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1990, trad. it. Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, a cura di Federico Zappino, pref. di Silvia Antosa, Roma, Carocci, 2011, p. 52 e passim.
[6] Carlo Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 2010, nota n. 3678. Il nobiluomo sarebbe stato Bernardino Righetti, zio dello scapigliato Cletto Arrighi. La voce è riferita anche, in termini più generici, da Gian Pietro Lucini. Su una fase libertina della giovinezza di Manzoni esiste una letteratura copiosa.
[7] Vedi, a titolo puramente esemplificativo, di Parini il sonetto “O anima bizzarra del Burchiello”, in Alcune poesie di Ripano Eupilino; di Beccaria il cap. XXXI di Dei delitti e delle pene; di Alfieri il cap. III, epoca I, della Vita; di Monti le lettere sul rapporto con Tommaso Sgricci; di Belli il sonetto “Li manfroditi”; di Leopardi le annotazioni dello Zibaldone in data 4 ottobre 1821.
[8] Cito il testo di Dei delitti e delle pene da Illuministi italiani, tomo III: Riformatori lombardi piemontesi e toscani, a cura di Franco Venturi, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, [1958], p. 85.
[9] Le confessioni di Marrazzo: ‘Perché andavo in via Gradoli’, intervista a Piero Marrazzo di Concita De Gregorio, La Repubblica, 15 agosto 2011.
[10] Per l’ipotesi di una lettura riparatrice (reparative reading: la scelta di tradurre con “riparatrice” vuole evitare ogni confusione con le pretese “terapie riparative” per la “cura” dell’omosessualità), una lettura cioè che contrasti la tendenza alla lettura paranoica presente oggi in molti ambiti critici tra cui i queer studies, cfr. Eve Kosofsky Sedgwick, Touching Feeling. Affect, Pedagogy, Performativity, Durham-London, Duke University Press, 2003, cap. IV e soprattutto p. 150 (con un riferimento proprio a Kenneth Anger). È un saggio molto complesso: per leggerlo può essere utile appoggiarsi su una sintesi equilibrata come quella offerta da Ali Altaf Mian nel sito http://alialtafmian.blogspot.com/2010/05/reparative-reading-my-summary-of-eve.html.
[11] La purezza di ciascuno dei due generi invece non è ritenuta inquietante ma rassicurante, heimlich.
[12] Certi romanzi cit., p. 270. La frase si trovava già in Sessanta posizioni (Milano, Feltrinelli, 1971, p. 200).
[13] Italo Calvino, “I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza”, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori, 1995, pp. 322-335, ed. orig. Torino, Einaudi, 1980.
[14] Salvatore Battaglia, Mitografia del personaggio, Milano, Rizzoli, 1968, cit. alle pp. 355-361 del vol. 3 di Manzoni pro e contro, a cura di Giancarlo Vigorelli, Milano, IPL, 1976 (ampia antologia della critica manzoniana in cui è possibile leggere stralci di molti tra gli altri studi qui citati). Su Gertrude vedi anche l’ampia sezione conclusiva di Letteratura e psicanalisi cit.: sulla reclusione in collegio del giovane Alessandro, Michel David fonda l’ipotesi di un «Gertrude-c’est-moi» manzoniano.
[15] Daniela Brogi, La figlia: Gertrude, in Donne in rivolta. Tra arte e memoria, Atti del Convegno organizzato dalla Fondazione SUM per l’Istituto Italiano di Scienze Umane. Firenze, 71° Edizione del Maggio Fiorentino, 29-30 aprile 2008, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 125-146, a p. 138
[Immagine: Prova di stampa di xilografia per l’edizione illustrata dei Promessi Sposi del 1840: Gertrude. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense (mg)].
Come tutte le critiche del sospetto, la lettura in chiave ‘queer’ cerca nei testi l’implicito e non l’esplicito. In alcuni casi può essere un utile esercizio esegetico. A volte, come nel caso di Manzoni, si rischia di attribuire a un autore pensieri, intenzioni e ideologie che non gli appartengono. Manzoni condivideva probabilmente un’idea che C.S. Lewis (in “Mere Christianity”) considera propria dei cristiani in generale: che i peccati carnali sono meno gravi di quelli dello spirito. E che tutti i peggiori piaceri sono spirituali: il piacere di indurre gli altri al male, il piacere della calunnia, del potere e dell’odio. Dopo aver letto entrambe le ‘puntate’ del saggio continuo a ritenere che fossero questi gli interessi principali (ed espliciti) di Manzoni e non riesco davvero a capire che cosa ci dice di più lo studio dell’implicito.
Saggio molto bello e fine, scritto in modo egregio, offre una lettura davvero stimolante dei Promessi Sposi, o meglio ne porta alla luce, con osservazioni penetranti, alcuni aspetti, linguistici, psicologici, di mentalità, che solo una lettura gender/queer poteva individuare; riporta anche l’attenzione su zone d’ombra del testo manzoniano, su cui è facile scivolare, contribuendo a una sua più precisa, più ricca individuazione.
La risposta a un’obiezione come quella di Marco Grimaldi, “Non vedo cosa ci sia da imparare da questo saggio”, potrebbe solo essere una tautologica ripetizione delle argomentazioni e conclusioni in esso contenute. Del resto, se la critica d’oggi dovesse occuparsi solo dell’esplicito, la sua funzione sarebbe poco più che tautologica.
La lettura qui proposta (per rispondere pure a un’osservazione di Scaramouche relativa alla prima parte del saggio) si astiene dichiaratamente dal ricorso a una interpretazione psicoanalitica dell’autore, tecnica in cui ho limitata fiducia. Non l’autore, dunque, ma il testo. Perciò la mia intenzione non poteva essere quella di colpire Manzoni con le armi dell’odio, del potere o della calunnia. L’odio, addirittura! Questo linguaggio sì che mi sembra ideologico, forse inteso a salvaguardare tramite la voce di un geniale polemista dell’integralismo cristiano come Clive Staples Lewis la purezza cattolica di Manzoni.
Ho segnalato questo saggio a vari amici e ne è nata una discussione abbastanza accesa.
Pubblico qui sotto una mail di risposta ad accuse di “lesa maestà” nei confronti di Manzoni:
Cara A e cari tutti/e,
ma perché è un “colpo” la riflessione sulla sessualità (omo ed etero) implicita nei Promessi sposi e messa in luce da T. Giartosio? Per dirla papale papale omnia munda mundis. Ma lo si potrebbe dire anche in altri modi più laici. Purtroppo la sessualità (omo ed etero) sta tornando pruriginosa e vitanda dai discorsi. Ma fosse solo quella! […] Insomma sono un po’ scoraggiato. Volevo degli interlocutori e mi ritrovo a dialogare solo con me stesso.
Posso sbagliare io a proporre certe questioni. Ma non è che sbagliano anche gli altri a far finta di niente?
Ciao Ennio
P.s.
A un amico, esterno alla mailing list, a cui avevo segnalato il saggio di Giartosio e che per questo mi ha criticato, ho risposto così:
Ho proposto quel saggio non solo perché ben scritto, ma perché dice cose che fanno pensare. Se l’hai letto attentamente, vedrai che non è corretto liquidarlo come “antistorico”. Ma anche se su questo punto dovesse essere debole (tra l’altro io nel breve commento l’ho trovato discutibile proprio su questo e anche uno dei commenti su LPLC lo notava) resta interessante per tutto il resto. Il tema della sessualità e in particolare dell’omosessualità è tuttora scomodo. In particolare per la Chiesa; e gli scandali della pedofilia non mi paiono di poco conto. Del resto gli studi di Francesco Orlando sono stati di grande importanza proprio perché hanno usano in modi persino raffinati Freud in letteratura. Gli studi queer non sono solo modaioli; e Giartosio, che conosco solo per averlo letto ora, se ne serve in modo niente affatto acritico. Infine tengo a dirti che, anche da un punto di vista cristiano, l’importanza di Freud è stata riconosciuta da un Michele Ranchetti, che è restato per me, accanto a Fortini, un maestro contro l’ipocrisia cattolica.
abate, un consiglio spassionato: guardi che a far così (pubblicare scritte sui muri altrui) poi la gente pensa che lei metta in bocca a miocuggino opinioni che non ha il coraggio di esprimere di persona; oppure, nel peggiore dei casi, passa per uno che non si capisce cosa stia dicendo né perché proprio in questo modo.
Un Abate prima di accettare “un consiglio spassionato” da un Marchese vorrebbe sapere: 1. quali cugini egli abbia; 2. quale coraggio finora abbia dimostrato lui.
Se poi è il Marchese che non ha capito, poco importa.
Capiscono quelli che VOGLIONO capire.
scusi, non volevo ringalluzzirla nella sua scomoda (e immaginata) lotta contro i pavidi cattivoni della rete e fuori che non proteggono le vostre verità… tentavo solo di essere utile con un consiglio, poi mi sembra che abbia l’età per fare come crede. =) per inciso, quando tiro in ballo i cugini li chiamo per nome e, soprattutto, più che tirarli in ballo preferisco farli parlare di persona.
come tornare in topic? ah sì: trovo i due brani finora pubblicati molto interessanti, fanno ciò che dovrebbe fare la critica letteraria: trovare nuove strade interpretative. questa mi sembra una strada lunga…
Grazie a Ennio Abate. Quanto mi incuriosisce questa “discussione abbastanza accesa”. E poi, più in particolare, la questione dell’eventuale antistoricità del saggio (o dell’approccio). Mi piacerebbe saperne di più. Anche per imparare.
@ Tommaso Giartosio
Sulla “discussione abbastanza accesa” con amiche e amici della mia mailing list non ho molto da aggiungere. Non sono persone che frequentano LPLC e diffidano degli “intellettuali”. Come detto, le loro reazioni sono state di generico apprezzamento (“ben scritto”) ma in fondo di irritazione e chiusura (“Manzoni non si tocca”; la psicanalisi è pan-sessismo, pseudoscienza, riduce l’Uomo alle sue “distorsioni sessuali”).
Niente di interessante per gli agguerriti e navigati redattori e commentatori di LPLC. Ma, nella mia ottica di “contrabbandiere” che si muove tra livelli culturali ormai congelati (alti,medi, bassi) e reciproci snobismi (“dal basso”, “dall’alto”), ho voluto segnalare nella mia cerchia il suo saggio “provocatorio” e a voi di LPLC le reazioni di un campione – credo rappresentativo – del buon senso comune culturale “non universitario” con cui dovreste fare di più i conti.
In merito all’accusa di aver prodotto un testo “antistorico”, preciso che non veniva da me. Comunque non nego le mie perplessità su problemi non del tutto chiari che il suo saggio mi pone e provo a passare dal generico e iniziale elogio ad alcuni ragionamenti.
La sua è una (legittima) lettura “filtrata” dei personaggi manzoniani: isola, cita, dispone in un’altra cornice (interpretazione) aspetti che un lettore ingenuo o distratto o tradizionale non ha mai isolato e stenta o non metterebbe nella cornice psicanalitica.
Colpisce anche per questo: ha il rigore unilaterale e coerente del procedimento “scientifico” applicato al romanzo manzoniano. E si colloca nel solco di una ricerca che ha già autorevoli precedenti: Pasolini e Arbasino ( ma anche Gadda), da lei citati. Ci aggiungerei anche Zanzotto, che in «Fantasie di avvicinamento» vedeva di buon occhio «quella lettura psicanalitica (ecc. ecc.) di Manzoni che è appena iniziata [è un’intervista del 1973] e che ha un valore ben altro che propedeutico».
Non ho nulla in contrario a questi “filtraggi” di un classico, nel caso dei Promessi sposi.
È chiaro, però, che il suo “filtraggio” queer esclude dai Promessi sposi una quota consistente di elementi (religiosi, politici, ideologici, descrittivi, ecc.). E vorrei capire se temporaneamente o in maniera definitiva. Perciò le chiederei di spiegarmi: per lei la lettura queer del Promessi sposi dovrà sostituire le altre o vuole aggiungere la dimensione queer (per tutto un periodo impensabile e poi magari – diciamo dall’avvento della psicanalisi – occultata o non indagata) alle altre più note interpretazioni del romanzo manzoniano?
Un secondo problema riguarda proprio lo scarto tra l’ottica “queer” (direi americanizzante, postmoderna, da movement) e l’ottica cristiano-patriottico-familistica ottocentesca di Manzoni.
Anche se lei ha riportato le dicerie di Carlo Dossi, la satira collegiale del giovane Alessandro, la denuncia di Cesare Beccaria contro i collegi in cui finirà il nipote Manzoni, resta il fatto che quello era sì «un mondo che conteneva anche l’omosessualità, e ne parlava molto più di quanto si creda, da Parini a Beccaria, da Alfieri a Monti, da Belli a Leopardi», ma – semplifico – la viveva in una cornice culturale che non è assimilabile a quella del mondo d’oggi, che almeno nella parte “americanizzata” o “radical” “contiene”, sì, l’omosessualità ma in modi profondamente diversi. Forse è un’osservazione banale. Ma l’omosessualità dei tempi del Manzoni non era in evidenza nel dibattito culturale d’allora com’è oggi. È una differenza non da poco. (Ricordo che lo stesso Foucault aveva sottolineato l’elefantiasi dei discorsi sulla sessualità nel mondo d’oggi).
Quindi un tale scarto fa problema. Se in teoria o per gioco qualcuno proponesse oggi un eventuale “riassunto queer” dei Promessi sposi e scegliesse i brani o i capitoli dove la lettura queer è più plausibile e convincente, il romanzo si ridurrebbe davvero, che so, a un sedicesimo di quello scritto. Susciterebbe curiosità e interesse in certi ambienti. Ma si perderebbero aspetti STORICAMENTE E POLITICAMENTE importanti. E forse si smarrirebbe la stessa *distanza* che rende i Promessi sposi un classico per quanti ancora riescono a leggerlo. Le dico anche che io non mi sentirei di sbarazzarmi a cuor leggero – tanto per fare un esempio – di certe letture più “tradizionali” dei Promessi sposi. Tanto per fare un esempio, quella che ne ha dato il già da me citato Zanzotto, pur apertissimo alla psicanalisi (rimando a A. Zanzotto, Manzoni tra “Inni Sacri” e “I Promessi Sposi”, in «Fantasie d’avvicinamento», pp.211-212, Mondadori, Milano 1991). Né vedo che collegamenti si possano stabilire tra quelle riflessioni e la sua lettura queer.
A questo punto, le faccio – non maliziosamente, ma col massimo di apertura e la voglia io pure d’imparare da uno studioso giovane come lei, due domande:
1. Dopo questo lavorio di Pasolini, Arbasino su Manzoni, il nuovo discorso queer sui Promessi sposi dove mira, dove ci porta?
2. Cosa illumina della storia dell’Italia risorgimentale questa lettura?
A me pare di capire – e qui forse siamo vicini – che lei valorizzi la carica anticlericale di Manzoni: «I Promessi sposi, al di là delle vicissitudini del loro autore, si inseriscono in una polemica illuminista e ne declinano la critica anticlericale in una direzione nuova, romantica e risorgimentale». Ma poi mi pare che lei approverebbe – ipotizziamo che fosse stata possibile – un’Italia della braveria al posto dell’Italia che poi si è imposta, quella dei «buoni padri» cattolici che si permettono allo stesso tempo una critica e la celebrazione del patriarcato. Braveria contro matrimonio? Braveria meglio del matrimonio dei promessi sposi, dunque?
E poi, se dobbiamo interrogarci «sull’inconscio politico post-unitario che ha eletto i Promessi Sposi a libro per tutti» (Balicco), vorrei che i risvolti politici della sua lettura queer fossero più evidenziati. Forse non è LPLC la sede per gli opportuni approfondimenti. Ma a me pare che in questo saggio lei si limiti ad affermare la funzione ambivalente ma benefica svolta dal Manzoni artista (anche su questo concordo) mentre sfugge a una sua valutazione PIENAMENTE politica e pubblica.
Quando poi delinea quella che potrebbe essere la “morale alternativa” che trae da Manzoni:
«Forse oggi Manzoni potrebbe insegnarci – una volta invertite le valenze etiche presenti negli Sposi – a pensare di nuovo le omosessualità come pratiche virali, diffuse, disseminate. Il mondo leather dei bravi potrebbe essere oggetto di una “lettura riparatrice” che recuperi il potenziale liberatorio di quella che era originariamente una icona omofobica»
uno come me non sa fare a meno di rilevare l’insufficiente legame tra questa auspicata «“lettura riparatrice”» e la realtà della lotta politica (passata e odierna), che purtroppo ha dinamiche ben più complesse e neutralizza o sottomette ad altri scopi «il potenziale liberatorio» legato all’eros.
E perciò quando, alla fine, lei eleva a «zio nobile del posizionamento queer, che appunto intende smarcarsi da ogni inquadramento identitario», la figura di don Abbondio, mi viene spontaneo farle notare che don Abbondio resta comunque – politicamente parlando – un personaggio da «zona grigia» che, come tanti (etero, omo o trans gender) sta con i dominanti. E questa rivalutazione proprio non mi garba.
Avevo adocchiato il saggio di Giartosio già all’uscita, ma, vista la sua lunghezza e densità, ho dovuto aspettare di avere tempo e concentrazione per leggerlo decentemente (è una semplice forma di rispetto per chi compie la fatica di scrivere). Premettendo che, per fare considerazioni fondate e operare riscontri su saggi documentati come questo bisognerebbe rileggere con eguale attenzione e con gli stessi “occhiali” i testi citati – ma significherebbe dover ogni volta rifare il percorso critico altrui: cosa impossibile –, durante la lettura alcune osservazioni, spero non inutili, mi sono venute in mente.
Prima osservazione. Direi che sono abbastanza d’accordo con Scaramouche. Il rischio di deriva dell’interpretazione mi pare ci sia. Per non addentrarsi in questioni a lungo dibattute (sinteticamente, après Eco: interpretazione e uso), mi limito a dire che non so quanto sia criticamente produttivo introdurre le categorie di omosessualità, omoerotismo, omosocialità, nella lettura di un testo che evidentemente è nato per tematizzare altro. Allora, si ribatterà, si può far critica solo delle intenzioni esplicite dell’autore e non si deve leggere ciò che nel testo è preterintenzionale, o è detto a dispetto della stessa volontà autoriale, o si annida nell’ombra delle parole? No, certo, per il semplice fatto che un artista non controlla fino in fondo tutte le rifrazioni e gli echi contenuti nella sua opera: l’arte non parla il linguaggio dei concetti, dove il recinto semantico è sempre chiuso e il suo terreno ben circoscritto – dove il significato è univoco e controllabile – e un critico intelligente può portare alla luce molto di giovevole (penso a una frase di Montale, in cui diceva di leggere i suoi critici per capire cosa aveva inteso dire nella sua poesia: frase significativa anche se fosse ironica, giacché riconosce alla critica una ufficio diverso da quello della lirica, quello di parlare una lingua più denotativa). Tuttavia ciò che Giartosio legge nei Promessi sposi è qualcosa che, se sta lì, dentro quel dispositivo narrativo, è per influenza di ciò che sta fuori di esso: dell’ideologia, dell’etica, del linguaggio, dei valori, del tempo di Manzoni. D’accordo, non c’è traccia di psicanalismi nel suo saggio: non l’autore interessa, ma il testo e ciò che in esso è ravvisabile. Eppure ho lo stesso l’impressione che egli finisca per dissertare non del testo in sé, ma del contesto, perché essi sono diventati poco distinguibili: infatti il primo non può che essere intessuto dei valori del tempo cui appartiene, che nel testo naturalmente si inscrivono. Ciò mi pare che abbia come conseguenza principale che il suo discorso sia pertinente soprattutto in ambito di storia della cultura, anche in senso sociologico, più che in ambito di critica letteraria.
Seconda osservazione. A dispetto del relativismo culturale dal quale nascono, mi pare che una caratteristica tipica dei gender studies (e il discorso sarebbe applicabile latamente a tutti i cultural studies) sia che in essi si nasconde, paradossalmente, una impercepita e strana metafisica, per la quale maschio e femmina, omo e etero, diventano categorie eterne, ipostatizzate.
Ma vorrei dire che Giartosio va oltre quella “metafisica”. Ho trovato infatti, nascosta in una nota, un’osservazione assai interessante: “ancora oggi molti non cattolici, e tra loro molti psicoanalisti, pensano l’omosessualità (ma non, per esempio, la relazione eterosessuale con connazionali o correligionari) come rifiuto della differenza”. Qual è il peccato degli psicanalisti? Non vedere altre forme di rifiuto della differenza oltre a quella latente nell’omosessualità. Forse che allora la categoria di differenza (e il necessario correlato dell’identità), sono categorie più radicali, originarie, di quelle di omo ed eterosessuale? Forse che, infatti, le categorie di identità e alterità non soggiacciono a buona parte del nostro sapere (e possono essere, e lo sono state, riformulate in mille modi diversi: io e non-io, soggetto e oggetto, hic et ibi, nunc et tunc, …)? Mi pare che sarebbe più interessante e produttivo che la critica si occupasse di questo, che è un problema ontologico e linguistico, piuttosto che non applicare categorie evidentemente politiche come quelle di genere, di etnia, … alla letteratura.
Credo infatti che la patente di nobiltà di quest’ultima e della critica consista soprattutto nel loro essere trascrizione di un’esperienza esistenziale e speculativa radicale (e tentativo di interpretazione di quella trascrizione), che fa perennemente i conti con tutto l’universo e la vita nella sua integralità: credo insomma che esse debbano continuare a ricercare, per quanto ci è dato, un po’ di natura, sottraendosi all’infinito alle gabbie sempre risorgenti della cultura e del linguaggio, piuttosto che analizzare come queste gabbie operino nelle pieghe dei prodotti testuali, inscrivendo in essi il discorso di potere di un genere o della biopolitica (anche ante litteram): «La naturalezza io la devo riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa: la convenzione, l’artificio, il patteggiamento conscio, inconscio, l’istituzione; tutto va contro, l’innaturale si ricostruisce di continuo e io devo continuamente demolirlo, di libro in libro. Devo riconquistare la naturalezza. Se no va all’aria tutto» (Mario Luzi).
Mi rendo conto, però, di partire da un retroterra estetico e critico assai lontano da quello di Giartosio, e in queste faccende contano anche il gusto personale e le predilezioni, indiscutibili, e i progetti culturali. Però non può bastare dire: ognuno resti dov’è, allora. Per questo ho fatto queste mie osservazioni, sperando sempre che non si parlino lingue del tutto diverse.
Ringrazio molto Ennio Abate e Daniele Lo Vetere e provo a rispondere sui vari punti sollevati fin qui.
1. In Italia gli studi gay e lesbici e la teoria queer hanno incontrato resistenze fortissime e si fanno strada con grande fatica. Credo che in parte questo derivi da un problema di linguaggio critico troppo specialistico, che nel mio saggio ho cercato di aggirare. Ma mi sembra difficile fare maggiori concessioni a quello che Abate chiama il buon senso comune culturale “non universitario”. Non si può continuare a annacquare una prospettiva critica; a un certo punto occorre mantenere le proprie posizioni intellettuali e difenderle, contando sul fatto che possano farsi spazio per il loro valore intrinseco.
2. Penso la lettura queer come un complemento importante di altre letture, che possono restare valide. (Su questo, e su tutta la questione della critica gay-lesbica e queer, mi permetto di rimandare al mio Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli 2004, in particolare i capp. 6-7.) Però sappiamo che le letture adiacenti non si ignorano mai, anzi interagiscono, si influenzano a vicenda, per competere con altre letture forti cercano appoggio in letture che parevano ormai obsolete, ecc. Chi può prevedere cosa accadrà quando si modifica l’ecosistema delle interpretazioni attive di un dato testo? Ed è un processo che si rinnova costantemente.
3. Certo, “l’omosessualità dei tempi del Manzoni non era in evidenza nel dibattito culturale d’allora com’è oggi”. Ma tutta la storia della ricerca sull’omosessualità è segnata dalla scoperta che gli archivi nascondono molto più di quanto si creda, dalla scuola perugina di poesia stilnovista omosessuale ai matrimoni gay nella roma del Seicento. E soprattutto, i segmenti in ombra di una cultura possono essere profondamente significativi, perché la loro oscurità non nasce dall’irrilevanza ma dalla censura. Per lo stesso motivo si studiano in modo approfondito certe forme di rappresentazione e autorappresentazione femminile in epoche ben precedenti a una reale problematizzazione della condizione della donna.
4. Alle due domande che Abate mi pone in modo esplicito è difficile per ora rispondere: mi chiede dove va un work in progress, ed è presto per dirlo. Ma per esempio, sul piano politico mi sembra che Manzoni (faccio riferimento al mio capoverso sui “capponi”) voglia liquidare come “braveria” delle pose eroiche gotico-romantiche che lui trova inquietanti su un piano inscindibilmente erotico e politico. Ecco, questa fusione dei due piani è oggi al centro dell’interesse critico (se ne è occupato ad esempio Belpoliti in relazione a Pasolini) e me ne aspetto grandi cose. Per esempio, non mi stupirei se saltasse fuori che la lotta politica non ha dinamiche “ben più complesse” dell’eros, ma procede in tandem con esso.
5. Don Abbondio. Non ho detto che sia un esempio valido per l’oggi, ma che incarna un’esperienza importante nella lunga storia dell’omosessualità italiana: quello di chi non ha una posizione dignitosa da occupare (perché il suo tempo gliela nega completamente) e dunque cerca di occupare come può uno spazio necessariamente equivoco. La storia della (r)esistenza gay e queer – su questa distinzione il discorso sarebbe lungo – è spesso fatta di questi “silenzi” e “tradimenti”, generati da una Norma sessuale molto più paralizzante di qualsiasi processo repressivo politico o religioso. Recuperarli, valorizzarli senza eroicizzarli, è un compito delicato e cruciale.
6. Del Vetere scrive che finisco per parlare non del testo in sé, ma del contesto, e dunque non di critica letteraria ma di storia della cultura. Capisco la sua impressione: credo che nasca dal fatto che non disponiamo (che io sappia) di analoghe letture per altri testi italiani coevi: perciò può sembrare che, poniamo, la visione dell’omosocialità come una minaccia anticristiana non sia un carattere degli Sposi ma di tutta la cultura del tempo. Questo però andrebbe verificato su altre opere. E sappiamo che almeno alcune di esse non si pongono affatto in questa prospettiva. E’ ancora il discorso dei “capponi”: nell’Ortis, per esempio, l’omosocialità eroica che lega Jacopo, Lorenzo, Parini, Alfieri è un’opzione ben più elevata dell’eterosocialità borghese; un discorso simile vale per Nievo; in Belli invece l’omosocialità è corrotta, ma caratterizza proprio la Chiesa; ecc.
7. L’essenzializzazione della differenza di genere può ben essere presente nei gender studies, non certo nei queer studies che sotto questo punto di vista stanno agli antipodi, e forse essenzializzano anche troppo poco.
8. Alla nota che cita Del Vetere io davo un significato diametralmente opposto: ritengo che l’omosessualità non sia una forma di rifiuto della differenza, come non lo sono le altre forme di relazione che ipotizzavo (tra correligionari, tra connazionali, ma anche, poniamo, tra persone che hanno lo stesso orientamento sessuale!). In realtà penso che l’unica eventuale forma di rifiuto della differenza sia la non-relazione, e che vedere la relazione omosessuale come “tra uguali” (o addirittura narcisistica) sia un riflesso omofobico non dissimile dal riflesso razzista di chi dice che i cinesi sono un po’ tutti uguali. Dunque ben venga riflettere in generale sulla natura dei rapporti tra io e non-io. Che questa riflessione, però, debba sostituirsi a un’indagine (meno grossolana di quella degli psicoanalisti a cui mi riferivo nella nota) sulle identità e identificazioni “storiche”, mi sembrerebbe una forma di benaltrismo. Ma Del Vetere ha ben capito che la categoria stessa di “natura” non mi sembra molto produttiva e che temo venga spesso invocata quando si ha a che fare con pezzi di “cultura” sgraditi. La letteratura fa i conti con la vita nella sua integralità, ma lo fa proprio perché passa attraverso specifiche circostanze: per questo è bello che per capire Dante noi dobbiamo conoscere la politica dei comuni toscani del Trecento. Ma nessuno rimprovera il critico che percorre questa strada, mentre guai allo studioso che avvicina Dante attraverso una riflessione sull’omosessualità nel Trecento.
@ Giartosio. Grazie delle risposte puntuali. Mi scuso innanzitutto per aver confuso in un unico calderone queer e gender studies. Conosco solo i secondi e in essi ho, un po’ automaticamente, come fosse ovvio, sussunto i primi.
Sull’interpretazione della nota. Non la intendevo e intendo in senso diverso dal suo: infatti non prendevo posizione riguardo al contenuto della ipotesi psicanalitica (che in quella sede non mi interessava); osservavo piuttosto come lei obiettasse agli psicanalisti, assumendo dialetticamente la loro posizione, che “se è vero per… allora dovrà essere vero anche per”, individuando così una categoria più ampia e profonda di quella di “differenza di genere, religione, nazionalità”, quella di “differenza” tout court (e rigettando che potesse essere applicata al discorso sull’omosessualità). Su ciò ho innestato il mio discorso su io e non-io.
Sono d’accordo con lei quando diffida della categoria di “natura”. Ho avuto la ventura di sentir pronunciare a Gianni Vattimo, in una conferenza, questa frase: “quando sento la parola natura, porto la mano alla pistola”. Stava riflettendo anche lui sul fatto che a questa categoria si ricorre per negare dignità di esistenza a pezzi di cultura che non si amano, come dice lei. Mi divertì moltissimo per l’arguzia e la giustezza.
Io ho usato la parola natura non per indicare una “categoria”, ma qualcosa che sottostà ad ogni categoria e che non è tradito proprio quando non lo si sclerotizza dentro una definizione. Insomma, la intendevo, se vuole, in senso poetico (leopardiano: in alcune pagine dello Zibaldone “Natura”, piuttosto che come antitesi concettuale di “Cultura”, è intesa come suo limite – matematico -). Chiaro che, per non aprir troppe parentesi, non mi sono messo a dar definizioni e sono andato un po’ per le svelte, incorrendo nella possibilità di essere frainteso. (Vedo poi benissimo l’enorme rischio di questa mia opzione: quello di abolire la storia e di svolazzare nel campo indeterminato del generico universale. Ma prendo le mie precauzioni, non ultima quella di leggere con interesse un saggio come il suo, in cui l’asse storico è ben presente).
Grazie, Daniele. Allora credo che abbiamo posizioni più vicine del previsto!