di Gabriella Cinti
Emilio Villa poeta e scrittore. Catalogo della mostra a Reggio Emilia, Mazzotta 2008, p. 448.
Alla luce del rinnovato interesse per l’universo poetico e concettuale di Emilio Villa, pare interessante cogliere alcuni temi portanti che investono molte sue opere, in particolare i Tarocchi e i Labirinti, ora al centro di due nuove edizioni (Rovesciare lo sguardo. I Tarocchi di Emilio Villa, a cura di Bianca Battilocchi, Prefazione di Aldo Tagliaferri, Argolibri editore, 2020, All’origine del divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa di Gabriella Cinti, Prefazione di Gian Paolo Renello, Mimesis edizioni, 2021) e di un pensiero critico che cerca di investigarne i nuclei principali, per cui è facile cogliere continuità e analogie, non solo per il periodo coevo di composizione ma proprio come snodi essenziali del mondo interiore dell’autore.[1]
Rinviando alle singole opere appena editate, per quanto riguarda i dettagli del materiale autografo che esse contengono e le loro specificità, occorre rilevare sin da subito come il viaggio villiano sia caratterizzato dalla dimensione dell’Enigma, interrogato e declinato nelle forme di un ludus del tutto speciale nei Tarocchi e in quelle erratiche mitico-archeologiche (nel senso letterale del termine) dei Labirinti. Questi ultimi in particolare, si relazionano con i molteplici ambiti dell’origine della scrittura, della vita organica e biologica (sequenza del DNA), della cosmologia, dell’alchimia, della psicoanalisi e dell’antropologia, ma senz’altro possiamo affermare che i riferimenti a queste discipline si intrecciano fittamente anche nei Tarocchi. In generale, Villa tende a ribaltare continuamente i confini di ragione e delirio, voce e scrittura, coscienza e avventura intellettuale, sacro e desacralizzazione, engagement e ludus, fino a sconfinare spesso nel comico e nel grottesco. Pertanto compare come centrale in queste due opere la dimensione del “gioco”.
Come Battilocchi afferma – con densità espressiva da cortocircuito semantico – il gioco stesso villiano potrebbe definirsi come “‘Gioco dell’Ophis’, in quanto percorso senza fine, inseguimento dell’Eternità-Omogeneità, dove perfezione e bellezza sono totali, in contrasto con la frammentarietà che costituisce il vissuto dell’uomo e che viene continuamente evocata da Villa con espressioni di gusto gnostico”.
Occorre ricordare come le due opere villiane prese in esame in parallelo, sembrano specificamente riferirsi al gioco, di carte o di azione – infantile o adulto – ma, spingendosi oltre, si consideri lo stretto rapporto sia nel mito che nelle tradizioni tribali, tra i giochi e la dimensione iniziatica; la dialettica della festa rievoca quella del sacrificio e il sacro e l’arcano sono spesso accompagnati da riti ludici.
Emilio Villa, Labirinto n. 3, in Gabriella Cinti, All’origine del divenire, p. 246.
I FOSSILI VIVENTI
Inoltre la tensione allo scavo, alla combustione di una materia fossile, depositaria di energia primordiale, opera sia nei Tarocchi che nei Labirinti, sprigionando una “febbre” o un furore che caratterizza tutta l’opera di Villa, nel senso di un’espansione pirotecnica di tipo creativo ma anche speculativo, muovendo in tutti i campi del pensiero ma anche dell’espressività umana, ivi inclusa la dimensione della fisiologia, cui Villa era nettamente sensibile.
Ma nel caso del Villa dei Tarocchi e dei Labirinti (e non solo) dovremo parlare di fossili viventi, per la pregnanza simbolica di cui si caricano, nel ruolo immaginifico attivo e ricreativo dei primi, in una “prospettiva aperta e inclusiva” (secondo quanto Battilocchi ha brillantemente messo in luce) come nell’esplorazione caleidoscopica e vertiginosa che caratterizza i secondi, all’insegna di un’erranza etimosofica, di un peregrinare più sibillico che filologico, volti ad illuminare il fossile Primo, quel “labirinto” rivelatosi essere un imprescindibile paradigma ontologico.
“TAROTS LABYRINTHES”
Del tutto emblematica mi pare la sezione “TAROTS LABYRINTHES” dove abbiamo una esplicita fusione tematica e nominale tra le due opere,[2] in cui Villa afferma palesemente tale convergenza nei primi due versi: “quante e quali sono le carte con cui si ESCE dall’impasse, dal labirinto?”, affermando anche che ogni Tarot contiene “una etimologia del nome labirinto” e alcune espressioni paiono particolarmente valide anche per i Labirinti, come “slaloms utopiques” in quanto rendono a pieno l’investigazione febbrile e convulsa diacronica e sincronica in ogni “endroit” del reale e dell’immaginario, dove “l’orbite est fortuite” . Leggiamo questa ultima espressione tratta da un Tarot Labyrint la stessa impronta peregrinante dei Labirinti e soprattutto l’accezione destinica dell’etimo di origine latina, che va ben oltre la leggerezza della casualità per iscriversi in una traiettoria in cui Villa si sarebbe sempre aggirato, in cui questo singolare e deviante meth’odos appare tanto consapevolmente necessario quanto non inquadrabile in alcun sistema ermeneutico.
Questo è particolarmente evidente nella totale libertà mentale di Villa, che lo porta sia ad accrescere enormemente il numero dei Tarocchi oltre a fornirli di una rete di significazioni in continui rinvii, sia a moltiplicare all’infinito le ipotesi etimologiche labirintiche, all’insegna di una caratteristica precipua di Villa: l’espansione del significante per adiacenza paronomasica, riscontrabile in entrambe le opere. D’altro canto essa viaggia in direzione di una meta irraggiungibile, di un prius della cui inattingibilità era pienamente consapevole, ma non di meno ne perseguiva in modo ossessivo il raggiungimento.
LA GLOSSOLALIA VILLIANA
A tal fine, la lingua villiana si pone strumento e testimonianza dell’inseguimento di una lingua originaria, prenatale, dalle consonanze foniche di intensa pregnanza semantica in fluttuazione oscillante tra il suo francese stravolto o il suo latino chiesastico e irriverente.
Lingua quella di Villa, che non esita a ricorrere alla glossolalia, presente in un certo senso come trattamento della parola e come disposizione dell’autore sia nei Tarocchi che nei Labirinti – come in numerose sue opere – ma riscontrabile anche nelle “glossopoiesi” delle avanguardie; essa tuttavia potrebbe essere altresì colta in quella prospettiva di un farneticante discorso in cui il divino esprime i suoi annunci per il tramite del veggente, del profeta o dello sciamano, grazie all’annullamento della coscienza individuale.
A ciò si aggancia il peculiare plurilinguismo caratterizzante le opere di Villa, specie quelle degli anni ottanta, teso più che a babelizzare le forme dell’espressione, ad alludere ad una unità linguistica totale – indifferenziata quanto edenica – in cui tutti gli idiomi fossero presenti. In questo contesto si colloca l’apertura fonica a voci che nascono da dentro, ma si direbbero pensate ad alta voce, generando nel lettore un godimento glossolalico per i vari, imprevedibili e subitanei calembours o combinazioni linguistiche di tipo sciaradico e in cui domina una sonorità poetica che spesso abdica all’ancoraggio semantico, per affidarsi tutta alla magia semica della phoné.
Così il poeta sembra delineare nel suo viaggio archeo-etimologico, una fuga del significante verso l’origine che, nel suo stesso labirintico sdipanarsi e avvolgersi spiralicamente, attua di per sé l’unico percorso gnoseologico possibile, quello di una verità in permanente e inarrestabile evoluzione. E ciò è indubbiamente valido per entrambe le opere in prese in esame.
IL SERPENTE VILLIANO
Veniamo ora ad un tema nodale per i Tarocchi ma che sicuramente investe anche i Labirinti, in primis perché l’orientamento villiano verso un tempo ancestrale non poteva non contemplare un simbolo così arcaico, praticamente universale. La presenza ofidica – nella carta l’Exterminateur come “Serpent en Action Mythuelle” – infatti è riscontrabile a partire dall’ambito biblico ed ebraico e nelle civiltà protostoriche alle più vaste latitudini, con i connotati teriomorfici del dio creatore, dai mesopotamici alle culture meso (il serpente cosmico) e sud americane, come pure nei racconti vedici o nei simboli afro-indiani o in quelli della Dea Serpente evidenziata da Marjia Gimbutas in era neolitica in area mediterranea e balcanica (ma il cui culto giunge fino a Roma nella Bona Dea), fino alla Dea dei serpenti minoica o alle effigie serpentee in area maltese. Ma anche nel mondo greco ricorre frequentemente, in particolare nel dionisismo[3] (nella versione di Dioniso-Zagreo e nei culti “ofiolatrici” in uso in alcune altre sue versioni, come quello del frigio Sabazio, analogo di Dioniso) o nella figura di Hermes e di Asclepio, solo per citare due degli innumerevoli riferimenti mitici.
In generale, nelle diverse mitologie, si vede il serpente come «grande rigeneratore e iniziatore, signore del ventre del mondo e ventre lui stesso», secondo la definizione di Jean Chevalier nel suo Dizionario dei Simboli, in una complessa dialettica divoratore-divorato, che peraltro è proprio una delle chiavi interpretative del labirinto.
La stessa struttura spiralica rinvia a quel tempo circolare e spiraliforme che ispira il pensiero villiano. In tal senso, la dimensione spiralica che il serpente – simbolo d’immortalità – rappresenta, fornisce l’emblema della connessione che convive con la divisione, del moto perpetuo tra arresto e ripartenza, delle manifestazioni anche minime di morte e rinascita che costituiscono il divenire: questo nodo concettuale si estende tutte le forme di ricerca della verità, di cui il labirinto è una sorta di personificazione, ma che tutte le culture antiche, in generale, come probabilmente anche quelle tradizionali ed etniche, hanno percorso, in sintonia onto-filo genetica.
Quindi pare un tema costitutivo del pensiero e della espressività villiana, nonché della sua scrittura, l’idea di una catena uroborica della vita che annoda ossimoricamente ogni forma di opposti, morte e vita, nutrimento a uccisione, piacere e violenza, slancio vitale parossistico e nichilismo distruttivo, il tutto in un ciclo continuo, quello dell’eterno ritorno di eliadiana memoria.
Tale processo evoca la palingenesi del divino, che si ritrova persino in sette gnostiche o ereticali del periodo della prima Chiesa Cristiana, come quella degli Ofiti, che veneravano il serpente perché Dio lo ha fatto causa della Gnosi per l’umanità. Le tendenze gnostiche sono particolarmente rilevanti nei Tarocchi come l’impostazione esoterica di fondo, anche se una chiave interpretativa di tipo iniziatico sembrerebbe valere per tutta l’opera villiana, ivi inclusi i Labirinti, percorso ermetico e rituale di cui occorre avere consapevolezza addentrandosi nei suoi meandri.
Anche sul piano mantico o, dal punto di vista villiano, si ripresenta quella biunivocità già osservata sul piano linguistico-concettuale per cui l’approccio esegetico ai testi villiani si pone come nuova, caleidoscopica sfaccettatura epistemica, rimbalzante da individuo a individuo in una continua proteiforme rifrangenza. Così come il labirinto annoda gli opposti della morte della vita, del sacrificio e della rinascita, il femminile e il maschile dell’essere, i volti antitetici delle figure divine mitiche, così nei Tarocchi ogni carta può rivelare un’interpretazione e il suo contrario, contemplando come valida ogni divergenza, e scambiando i ruoli per esempio tra carnefice e vittima e mutando il responso in vicinanza con la posizione rispetto ad altre carte, secondo quanto fa osservare Battilocchi.
LA FENICE SACRIFICALE
Il tema del sacrificio è anch’esso nodale nel raffronto tra le opere in esame. L’arte, secondo il poeta, è “strumento sacrificale” e ogni “processo iniziativo”, o atto creativo, è “violentazione”, come ci evidenzia precipuamente Battilocchi. Anche nei Tarocchi la metafora del segno ce lo mostra in qualche modo organicizzato in una concezione sacrificale dell’arte e della scrittura, in una dialettica ouroborica tra cancellazione, annientamento continuo, sprofondamento verso il Profondo Nulla e una paradossale palingenesi emergente dalla fecondità abissale.[4] Ciò è particolarmente valido per la dimensione linguistica in cui, qui come nei Labirinti – e in tanta parte dell’opera villiana (“Êtrangleur de mots”) – la scomposizione delle lingue, la frantumazione sintattica, la loro furibonda mescidazione (di lingue antiche e moderne, a netto discapito dell’italiano) e l’azione compiuta nello stesso tessuto idiomatico in nome di un superamento “della mera comunicazione” o del “commercio tra uomini” verso la “‘s-comunicazione’, […] l’abdicazione totale dai conformismi e dal senso comune” (Battilocchi), sortiscono l’effetto di una distruzione sacrificale di tipo catartico verso una Parola rinnovata, folgorante, “iniziativa” (quanto iniziatica), in qualche modo divina, che nasca sulle ceneri autocombuste della sua “fenicica” disintegrazione.
Questo tema risalta in modo particolarmente evidente nei Labirinti sul duplice versante dell’arte, indagato in varie opere ma soprattutto ne L’arte dell’uomo primordiale”, in cui Villa interpreta l’arte rupestre come inizio di carattere sacro e sacrificale dell’espressività artistica dell’uomo. Infatti la svolta villiana sul segno, il “vulnus”, come egli lo definisce, impregnato, quando non inzuppato, del sacrificio simbolicamente antecedente, ci porta nel cuore della sua visione dell’uomo, dove l’immolazione corporea assume valenze soteriologiche non di tipo materialistico ma intellettual-artistiche ed esistenziali, generative di una ricomposizione ontologica e sociale. Secondo Villa, i sacrifici raffigurati allegoricamente nelle pitture, sia pure dal significato fortemente enigmatico, sono fondamentalmente di tipo “nutritorio”, “religioso” (in una accezione di ritualità evidentemente non connessa ad una spiritualità codificata), recano l’impronta di un vitalismo sacral-alimentare, che si esprime nell’uccisione sacrificale e nella mutua permutazione sacrificante-sacrificato − grande tema labirintico villiano – in cui l’altro da sé, soppresso e assimilato, rappresenta così il nutrimento ‘assoluto’ che rigenera e permette di accedere a un livello sovrumano di esistenza.
DIVORAMENTI NUTRITIVI
Corollari di questo soggetto sono la discesa votiva nel labirinto ctonio (la “Subtellurica civitate” dei Tarocchi) – non a caso ipogeo arcaico e arcano – e l’inghiottimento simbolico adombrato nei pasti del Minotauro, metà uomo e metà animale, incarnazione della polarità zooantropica, negli abissi della prigione infera-labirintica, in stretta connessione con i Tarocchi fagocitatori (“Il Seno semina e divora la vita e la Realtà”).
E in effetti, il tema del “divorare”, dell’“inghiottire”, è peculiare in entrambe le opere, sia pure in forma diversa e ancor più estesamente esplicitata nei Labirinti, in riferimento ai pasti sacrificali mitici e alla violenza cannibalica alla base del mito del Minotauro e di Crono, tra cui si pone il riferimento a una immagine autofagica legata alla concezione del tempo, inteso in senso materiale-alimentare, quasi si tratti di una sostanza che divora se stessa. E altresì si allude alla rinascita nella vittoria della coscienza solare, che vince le tenebre mostruose e istituisce un nuovo corso, nel cammino di morte viscerale che diventa cammino di scrittura, forma dedalica della lingua e insieme viaggio di sopravvivenza umana, se non testimonianza di immortalità.
IL CANNOCCHIALE LINGUISTICO VILLIANO, LABIRINTICO E TAROTOLOGICO.
Così pure, continuando sul tema dell’interscambio metamorfico, anche tra oracolo e consultante s’instaura un reciproco scambio di ruoli che arriva a includere anche il lettore villiano, pedina lui stesso o parte di un percorso esegetico che si fa triadico o a cannocchiale o potenzialmente infinito, comprendendo tutte le letture possibili degli “oracoli” villiani. Villa, in perenne ricerca di un senso non assodato e mai ultimativo, ne interroga ogni volta origine e confini dall’interno del nucleo “Sé-mantico” (con un gioco di parole di stampo villiano, per esprimere la fusione tra la sua autoreferenzialità e il suo procedimento ermeneutico-divinatorio) che si rifrange in molteplici direzioni esplorative.
Il suo condurre il gioco (del quale non esiste peraltro la soluzione) è al tempo stesso un essere condotti sul filo ofidico di un’implicazione visionaria che impronta l’indagine, al cui interno l’aspetto aurale della parola occasiona ogni sorta di invenzioni anche paraetimologiche. Vi è poi una dialettica di travalicamento tra suono e scrittura, con derive per assonanza con l’alone fonico sotteso alle parole e ai relativi elementi segmentali, particolarmente evidente nel viaggio labirintico condotto anche attraverso i suoni che produce, un filo di Arianna in chiave uditivo-oracolare. E tale filo, come quello calato nella conchiglia di Cocalo – ma in realtà una sorta di “mise en abime” dentro la lingua (e le lingue) come luogo dell’essere – sembrerebbe far emergere o detonare, se vogliamo rendere l’idea con la veemenza espressiva e concettuale di Villa, un’ipotesi sull’origine del linguaggio che, anche alla luce del concetto di “parola forata”, si proporrebbe di colmare, ‘telescopicamente’ (nel senso di includere di una parola nell’altra), il divario tra la parola e la cosa. È un procedere per lateralizzazioni di senso anche rispetto alle attestazioni filologiche; dimensione anche questa di ‘confine’, di margine del significato su cui Villa lavora, concentrandosi su nicchie o lievi distorsioni semantiche per ritagliarne il senso in tracciati, come una nuova geografia, di logos labirintico o tarotologico. Compare in entrambe le opere infatti una grafia caotica di appunti e chiose a margine, con collegamenti associativi spesso debordanti dal foglio, su cui la scrittura migra. L’oscillazione tra molteplici registri nasce dall’ambiguità che la natura del confine implica come diramazione di percorsi verbali, alla rincorsa di un senso veritativo occulto e da decifrare. Anche qui, è la proiezione visionaria ad abolire la percezione del confine, collocato in un altrove indefinito; o forse in quell’eschaton che, per Villa, coincide al limite con l’impronunciabile e l’indicibile: appunto la parola forata carica di valenze orali-aurali, spesso arcane e sfuggenti e solo apparentemente ludiche e “calembouriche”.
LA PAROLA-VORAGINE
Questo tema del varco interno o dello strappo nel tessuto di una parola che si fa voragine, senza dubbio si connette a quei riferimenti specifici dei Trous Tarots, dove l’indicazione al foro conduce non solo all’utero generativo ma anche a una perdita, quella della memoria di ciò che sta alle origini dell’Essere, un oscuro buco nero, come afferma Battilocchi, che ci illumina ulteriormente facendo riferimento al particolare investimento nell’immagine del buco nelle opere di Fontana, di Burri e di altri amici pittori, così legata ai nuclei essenziali della sua poetica. Il buco rappresenta infatti quello strappo originario dell’Essere, da una pienezza originaria a una caduta apicale verso un vuoto semantico pneumatico in cui la parola rimbalza e sprofonda e si scheggia in diffrazioni anche orizzontali, diacroniche e sincroniche sempre inseguendo una totalità utopica e distopica e coniugando ossimoricamente il legame tra verità e sua assenza, tra la parola piena e il vuoto incolmabile di senso e di essenza. Il “trou” dunque si autoalimenta in un’ascendenza-discendenza elicolidale, percorso senza uscita, come appunto nei Labirinti: dal ‘trou’ non vi è mai una vera uscita – il ‘gioco-agone’ è senza fine e senza soluzione. Si può avere esclusivamente la coscienza di trovarcisi dentro. Il “trou géneratif” accostabile ad altri temi esoterici come il “labbro”, l’uovo cosmico, orfico o alchemico: sono aperture labirintiche che diventano elettive, emblemi dello spalancamento abissale sul chasma. Si comprende, in tal senso, la già citata intima adesione villiana ai tagli di Fontana, ai buchi nei sacchi squarciati di Burri, feritoie segniche sull’Origine. E questo “dentro” è fortemente collegato all’idea di una voragine primordiale, di una catabasi dentro le viscere del senso e dei sensi, se Villa non nasconde, nei Labirinti, l’allusione sessuale nel diminutivo “trouelle” giocato sull’ambiguità genitale-erotica, in chiave di complementarietà dei generi, dal lieve sapore di provocazione intellettuale. Al contempo convive uno slancio di tipo filosofico in direzione dell’hypokéimenon, ovvero verso il fondo ontologico delle cose.
LA MANTICA VILLIANA DELL’ORIGINE
E ancora, comune ad entrambe le opere è l’andamento propriamente labirintico, nel moto ondivago tra direzione e ritorno, tra il tracciare un percorso, anche linguistico-etimologico, e “s-tracciarlo” (nel senso della negazione violenta e contraria) o “s-logarlo”, come fa osservare Battilocchi per i Tarocchi, rifiutarlo o distorcerlo, ossia aprirsi ad altre ipotesi ancora. Ne consegue la creazione di un continuo palinsesto in cui l’ambivalenza è già, a suo modo, una conquista conoscitiva verso una verità cangiante e sfuggente a ogni presa concettuale, o meglio dalla natura bipolare, proprio come l’Origine e la Fine che sono i due perni interscambiabili di una dialettica magmatica di stampo eracliteo.
Nel tentativo di Villa di ripercorrere il grande tema dell’Origine, al centro della sua produzione, i Labirinti – ma anche i Tarocchi – si collocano in una prospettiva oracolare e misterica della parola di cui egli diventa consultante e creatore al contempo, come appunto un Oracolo, strumento ed emanatore di una verità in magmatico divenire; ciò è particolarmente evidente nel “suo” francese, impiegato come una lingua plastica capace delle più ardite metamorfosi semantiche, o nel suo latino salmodiante.
LA GRANDE DEA VILLIANA
Dettaglio da carta autografa nel taccuino dei Tarocchi di Emilio Villa.
Concluderei queste sommarie considerazioni sulle affinità tematiche tra le due opere con quella presenza sottesa ma centrale nel pensiero villiano e cioè la figura di una Grande Dea, mediterranea o egeo-anatolica.
Nei Tarocchi figura per esempio come Ananke e Inanna e comunque con “attributi […] legati alla vita e alla morte” (Battilocchi). La stessa modalità espansiva del procedimento villiano, nei Tarocchi e soprattutto nei Labirinti, rivela il suo legame con quella entità onnicomprensiva, metamorfica (dai tratti a volte terrifici) e ambigua (quando non bisessuata o ibrida) che si incarna nella Grande Dea Originaria, soprattutto pre o anellenica, mediterraneo-cretese, minoasiatica e mesopotamica, ma rintracciata da Villa all’interno di vari pantheon, estesi anche all’area paleoeuropea. Tale dea incarna forse la vera natura dell’Essere, polare e totalizzante, in cui converge la coincidentia oppositorum (caratteristica per eccellenza, non a caso, del labirinto). Il contatto con tale Entità avviene per lo più in forma di segnali mantico-oracolari, pitici o sibillici e la prospettiva è quella della connessione con il Profondo, e con la dimensione soli-lunare, ma insieme con la Terra, la pietra, le acque.
Sullo sfondo dell’archetipo divino femminile prediletto da Villa può collocarsi l’intero suo pensiero ma, marcatamente, i Tarocchi e i Labirinti recano l’impronta dominante della sua lampeggiante e nerolucente irradiazione mitica.
Note
[1] Segnalo anche il fondamentale testo di Aldo Tagliaferri, Dentro e oltre i labirinti di Emilio Villa, Milano, edizioni del verri, 2013.
[2] Inoltre, Battilocchi nel suo lavoro di ricerca ha recuperato una carta dall’archivio privato di Mario Diacono, dove Villa scriveva all’amico “Caro Mario, questa è la trascrizione dell’arcano 21, che mi sembra la carta più plausibile per quel che riguarda la voce labirinto” e appuntava di seguito ipotesi etimologiche legate al mondo egizio.
[3] In effetti questo dio è particolarmente congeniale al Nostro se potremmo definire Villa “dionisiaco”, utilizzando questo termine anche nel senso di un suo specifico orientamento di pensiero, che va ben oltre l’aura del suo atteggiamento vitale irrefrenabile, selvaggio e refrattario ad ogni regola o limitazione, di qualsiasi natura, materiale come intellettuale.
[4] L’incipit della carta Êtrangulé dei Tarocchi, “chacun se doit d’être un lien/ avec son martorium et son propre rien/ l’énigme d’un trouble – inaccessible”, invita a sfruttare la frustrazione (in finto latino chiesastico “martorium”) di trovarsi a galleggiare nel nulla. Lo ‘Strangolato’ deve affrontare e giocare con l’Enigma senza speranza di poter trovare risposte definitive. Questa figura può far pensare a quella dell’Appeso, la dodicesima carta nel mazzo di Marsiglia, iconograficamente legato ad un piede a testa in giù in uno stato di punizione, ma di lettura anche positiva, di disponibilità ad una autoanalisi e a un mutamento nella vita psichica.
[Immagine: Mariagrazia Bertacci, Universe stanze, 1985].
Complimenti, Gabrielle Cinti. È sempre ben accolto da me uno scritto sulla scrittura del grande Emilio Villa. Grazie per avermi permesso di conoscere questo suo interessante e articolato breve saggio. Un caro saluto. Giorgio Moio