di Adelelmo Ruggieri

 

[E’ uscito ieri per Marcos y Marcos, nella collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla, un libro che ho curato e di cui vado molto fiero. Il volume, intitolato La città lontana. Poesie 1993-2009, ripubblica e mette insieme le prime tre raccolte di Adelelmo Ruggieri: La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006), Semprevivi (2009), tutte originariamente edite da Pequod. Il libro è accompagnato da una bandella firmata da Fabio Pusterla, da una mia introduzione e da una nota di lettura finale di Andrea Bajani. Presento alcune poesie di Adelelmo Ruggieri seguite dalla mia introduzione, che potrà dare qualche indicazione a chi non conoscesse ancora la sua opera (Massimo Gezzi)]

 

da La città lontana (2003)

 

Per lunghi anni mia madre

 

Per lunghi anni mia madre
Ebbe la vista acutissima e la mano ferma
Seduta sul tavolo, con una punta di carta
Toglieva le schegge dagli occhi dei fabbri
Io bambino le giravo intorno
Allora lei diceva, Siediti sul gradino
E io sedevo sul gradino e restavo a guardare

 

*

 

Un piccolo passaggio divideva le due stanze

 

Un piccolo passaggio divideva le due stanze
In quel punto malsicuro sbarcava la ripida scala
Aveva cinque anni il bambino, non si rendeva conto
Quando s’arrampicava a notte fonda tra di loro
Che uno stava col sonno suo leggero a controllare vigile
La domenica poi, le nove passate da un pezzo
Mosso dall’affetto il padre aspettava che il figlio si destasse
Per fingere lui di essere destato

 

*

 

Quando si finisce il grezzo di una casa
È una gran cosa, i muri, le caldane, i panorami
Agli impalcati, e quello stare in piedi spoglio
E radicale che non si vedrà mai più
I muratori vestiti di blu alla cena di chiusura
Cordiali a festeggiare, a ricordare ogni mattone
Disposto uno sopra l’altro, le betoniere, le sere tardi.

 

*

 

Una strada, un punto esatto

 

C’è un punto esatto della Pompeiana
Che le mattine chiare a primavera
Alle sette il sole da poco sorto
Forma un trapezio di luce sul mare
E un gruppetto di alberi gli è davanti
Con i rami ancora spogli, liberati
E nel guardare bene quella scena
Alcune lacrime il tuo volto accoglie
E sanno di quel ciò che viene detto
Sulla terra, splendore

 

*

 

da Vieni presto domani (2006)

Non presumere

 

Hai la stessa misura del mio volto
Due occhi come me
Come me due mani
E i piedi, e le dita dei piedi
Contro la punta delle scarpe insabbiate
Marroni, Camminiamo, non badare
A ciò che non diciamo, non presumere

 

*

 

Ciclisti

 

Mattinata perfetta di gennaio
Domenica di gelida luce
Con i suoni del mare, lo sciabordio
Fratelli del sole che piano troverà
La sua posizione d’estate
Si è staccato dal gruppo
Il ciclista con la tuta tutta rossa
Poteva non farlo, l’ha fatto, indietro
Indietro, un altro si stacca, riposando
Lo ritrova

 

*

 

da Semprevivi (2009)

 

Diluvi

 

Che volume possiede questa goccia? Vai a saperlo
e allora farò così stanotte, prenderò un bicchiere
e conto il numero di gocce che ci vuole a colmarsi
In un’ora, ci scommetto, è quasi fatta, in un giorno
una bottiglia da un litro si empie di gocce
L’impensabile è così, con il tempo diviene fondato
Per non dire del suono che questa goccia fa, non c’è
modo di ritrarlo in qualcosa, il suono non ha peso
non ha ingombro, non è astruso, per non dire
del perché e per come questa goccia cade e io anche
cadrò, basterebbe smontare il rubinetto, metterlo nuovo
ed è fatta, Niente goccia, nessun suono, solo acqua.

 

*

 

La prima luce

 

L’abitudine alla vita già ti sta tornando e con essa
Lo specchio in cui ritrarti fanciulla capovolta
Mentre sistemi, alle sei legali non ancora, i capelli
Nella stanza verde prato due letti, due sedie
Un ragazzo immigrato che veglia la madre
Non mi riconosce? Sono stato due anni dove abita lei
Andavo sempre al campetto del Bar del Crocefisso
A Valona ci torno tre volte all’anno, altrimenti
Io la perderò la mia ragazza, lungo il corridoio
È cominciato intanto il viavai di un mattino presto
All’ospedale, È ancora buio? mi chiedi
No, sta facendo giorno, ti rispondo, Ecco la prima luce.

 

*

Massimo Gezzi

«Non presumere»: lo sguardo mite e fermo di Adelelmo Ruggieri

Qualche anno fa, presso un circolo culturale di Lugano, mi capitò di parlare con alcune persone del festival La luna e i calanchi che Franco Arminio organizza tutti gli anni ad Aliano, in Basilicata. Il mio interlocutore mi raccontava degli incontri e delle letture che più lo avevano colpito nell’ultima edizione del festival. Tra i poeti ce n’era uno, in particolare, che aveva letto alle tre di notte e che gli era parso straordinario, indimenticabile. Era una persona schiva, quasi imbarazzata, a tratti persino un po’ impacciata, nel suo modo di porgersi al pubblico, ma le sue parole, le sue poesie erano incredibili, come una specie di piccola e autentica esplosione – così mi disse – nella notte lucana. Aveva un nome strano, quel poeta, e due lenti spesse davanti agli occhi. «Per caso era Adelelmo Ruggieri?», chiesi senza timore di sbagliare, sapendo che Arminio lo invitava spesso al suo festival. Era proprio lui, certo, e l’impressione del signore di Lugano è probabilmente la stessa che tutti quelli che ascoltano o leggono Adelelmo Ruggieri provano, se lo fanno senza pregiudizi o occhiali ideologici. Lo sanno bene i suoi estimatori più autorevoli, che sono anche suoi amici veri (Antonella Anedda, Angelo Ferracuti, Andrea Bajani, Franco Arminio, Stefano Simoncelli, Biancamaria Frabotta, Renata Morresi…), ma lo sanno altrettanto bene tutti quelli a cui capita di assistere alle sue rare sortite pubbliche da poeta, durante le quali la lettura di un testo diventa davvero, forse senza la volontà dell’autore, un gesto performativo, qualcosa che accade, che si incide nella memoria come un ricordo indelebile: una piccola e autentica esplosione di poesia, per l’appunto.

Due domande saranno subito sorte dalla lettura di questo rischioso incipit: come mai non l’ho ancora letto (perché scommetto che la maggior parte di coloro che stanno sfogliando queste pagine non possiede i suoi libri pubblicati, che non sono pochi)? E cos’ha di così autentico questa poesia? Cercherò di fornire una risposta a entrambe le domande, convinto che in qualche modo queste due risposte si implichino a vicenda.

 

Adelelmo Ruggieri è nato a Fermo, nelle Marche, nel 1954 ed è sempre vissuto nella sua città, tranne negli anni degli studi universitari da ingegnere civile svolti a Bologna. Ha sempre abitato, in compagnia dei familiari più cari, in poche case amate e ospitali, abbandonate solo per pochi giorni all’anno. È un uomo di rari viaggi (solo tre le capitali visitate durante la sua vita, dice una breve e ironica poesia contenuta in questo libro: Roma, Città del Vaticano e San Marino) ma di peregrinazioni continue, se questo paradosso può sussistere, perché è un inarrestabile camminatore e un esploratore dei suoi e nostri immediati dintorni: ricorderò a tal proposito Il poggio, lo splendido resoconto delle sue incursioni nelle Marche basse incluso in Porta marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti (Pequod 2008), firmato insieme a chi scrive; o i baedeker intimi semiclandestini I tetti sono semplici a Sali (Capodarco Fermano Edizioni 2012) e Subito o domani. Non è la stessa cosa (Italic Pequod 2013). Ma prima di tutto, Ruggieri è da sempre un lettore accanito e un grande appassionato di poesia, uno dei rarissimi che prima di pubblicarne è quasi arrivato a cinquant’anni, dato che il suo esordio, La città lontana, risale al 2003.

 

Quando apparve quel libro, ormai irreperibile, Angelo Ferracuti nella bandella salutò il manifestarsi di questa voce lungamente incubata come «un miracolo che può stupirci e commuoverci e cancellare un poco del nostro occidentale cinismo». Ecco, uno dei motivi per cui il libro che state leggendo ha preso forma è che la voce poetica e umana di Ruggieri, nella sua dizione composta ed essenziale, rappresenta davvero un’opposizione, nuda ma ferma, a tutto ciò che il mondo contemporaneo spesso destina ai suoi abitanti: indifferenza, disattenzione, frenesia, approssimazione, opacità dei sentimenti e della lingua, per dare un nome ad alcune delle malattie che non risparmiano nemmeno il mondo della poesia e la comunità – se mai ne esiste una – dei poeti. In questo mondo, in cui spesso il mostrarsi e il presenziare valgono più dell’essere e dell’opera, Ruggieri rappresenta una gigantesca anomalia che si affida unicamente ai suoi versi nitidi e politi, come un vero poeta in fondo dovrebbe fare. Di cosa parlano, sin dalla Città lontana, questi versi? Di poco, mi verrebbe da rispondere, cioè di moltissimo:  di un mondo provinciale che esiste nella sua componente naturale (il cielo, il mare, i tanti alberi) e in quella storica e paesaggistica (l’antica città di Fermo, grembo da cui Ruggieri, a differenza del conterraneo e amico Luigi Di Ruscio, non ha saputo mai strapparsi); di presenze che la luce della pagina rischiara di umanità e dignità, specie quando si tratta di lavoratori umili (i benzinai, gli spazzini, i muratori che, terminata la costruzione di una casa, ricordano «ogni mattone / Disposto uno sopra l’altro, le betoniere, le sere tardi»); di apparizioni minime, di cose quotidiane come una pentola che bolle, una casa che si stratifica in una storia familiare, un giardino curato con pazienza, un cimitero. Una poesia post-crepuscolare, dunque? Per nulla, perché queste piccole cose non sono affatto di cattivo gusto, ma si danno come reperti di una vicenda umana, come tracce di un rapporto tra io e mondo nel quale il soggetto non appare animato da alcuna pretesa, neanche quella di capirlo e di comprenderlo sino in fondo, il mondo che abita, se è vero che nell’etimologia di quei verbi alligna un significato di possesso, di proprietà. La poesia di Adelelmo Ruggieri non capisce il mondo e non enuncia alcuna verità: lo percorre, lo osserva, lo cammina, spesso lo celebra per i doni, per nulla scontati, che talvolta concede a ognuno di noi, che siano un incontro inatteso, un taglio della luce in una stanza o la vista di una vallata al mattino. Si potrebbe dire a ragione, come ha fatto Andrea Bajani dedicando a Ruggieri – sia pure in cifra – il suo primo libro in versi (Promemoria), che la caratteristica principale di questa poesia e di questo sguardo sia la mitezza, se non fosse che questa parola rischia forse di mettere in ombra il risvolto etico, attivo della postura di Ruggieri: più volte, infatti, la voce che parla in queste pagine ci invita a non presumere, non fantasticare, non pretendere, come per esempio si legge in uno dei testi più belli di Vieni presto domani, la seconda raccolta pubblicata ancora da Pequod nel 2006: «Hai la stessa misura del mio volto / Due occhi come me / Come me due mani / E i piedi, e le dita dei piedi / Contro la punta delle scarpe insabbiate / Marroni, Camminiamo, non badare / A ciò che non diciamo, non presumere» (Non presumere, qui a p. 109).

 

In questo atteggiamento sta anche la ragione per cui molti lettori scopriranno la voce poetica di Adelelmo Ruggieri solo per mezzo di questo libro, oltre che la risposta alla prima delle due domande che ponevo all’inizio: i tre volumi che questa edizione accoglie, rivisti e parzialmente riscritti, sono infatti ormai irreperibili, e molti non li avranno mai incontrati anche perché l’autore non conosce l’autopromozione e la smania di apparire. La postura dello sguardo di chi scrive si riflette insomma in quella di chi ha scritto e tratta i suoi libri pubblicati come oggetti che hanno il loro destino, e che troveranno i lettori giusti al momento giusto, senza forzare o pretendere troppo.

Anche per questa edizione, d’altronde, è stato il curatore a ritenere che dieci anni di poesia andassero recuperati e salvati dalla dimenticanza, e a proporre così a Fabio Pusterla di accogliere questa trilogia in una collana rara come «Le Ali» che ha il merito, tra gli altri, di difendere la poesia delle periferie e delle zone d’ombra, quelle che la grande editoria trascura e dimentica, non sempre candidamente. E così, mentre Ruggieri consegna al suo fedele editore un libro esplicitamente intitolato Tre raccolte (Pequod 2020) che accoglie la produzione inedita degli ultimi otto anni, in questo volume recuperiamo invece la prima trilogia edita, quella composta per l’appunto da La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006) e Semprevivi (2009).

 

Rispetto alle edizioni originali, l’autore ha apportato alcune modifiche strutturali e sostanziali, senza stravolgere con questo l’assetto dei libri. In apertura della Città lontana, Ruggieri ha disposto qui tre testi che tracciano le coordinate immobili entro cui si iscrive la sua vicenda umana e di scrittore: le figure amate del padre scomparso e dell’anziana madre che lo accompagna ancora, e che nel primo testo pronuncia un imperativo («Siediti sul gradino / E io sedevo sul gradino e restavo a guardare») cui l’autore sembra non aver mai smesso di ubbidire; il ricordo del fratello Gaetano morto giovane, cui è dedicato il primo libro e che riemerge a intermittenza tra queste pagine. Sono questi, insieme al figlio Simone che vediamo crescere mano a mano che gli anni trascorrono, i passeggeri dell’arca che Ruggieri costruisce con i suoi testi, senza mai chiudere il mondo fuori, però, ma anzi accogliendolo nelle sue apparizioni e auscultandolo con l’attenzione e la curiosità di un pastore errante, come accade in questo testo che racconta di una passeggiata notturna sul lungomare: «Per distrarmi un poco / Sono venuto a Miramare / A passeggiare, a vedere le onde / A sentire che ha da dire la luna / Il più delle volte tace, stanotte chissà / Intanto mi tolgo i calzini / Vediamo che dice la sabbia» (p 35).

 

Lo sguardo di Ruggieri non ambisce alla totalità, non travalica i confini della sua esperienza umana, ma se è vero che molte delle realtà su cui esso si appunta potrebbero essere considerate «Cose da nulla nell’economia / Del vasto mondo» (Ci sono cose che non vanno dette, p.44), è altrettanto vero che la poesia (o la pittura, altra arte praticata in modo clandestino dall’autore) ha la capacità, se non proprio di vincere di mille secoli il silenzio, di cercare perlomeno di opporsi al destino di sparizione di quelle stesse cose che formano il perimetro entro cui si gioca la nostra esistenza. Così la poesia di Adelelmo, insieme a quella del concittadino Di Ruscio, emigrato a Oslo quando lui aveva appena tre anni, si assume indirettamente anche il compito di fissare in versi, magari in modo obliquo, «le antiche mura» e la storia umana di Fermo. E se con Di Ruscio Ruggieri non condivide la prospettiva dello sguardo (perché il primo parla e scrive da sottoproletario e da operaio, specie quando racconta, nei versi o nei romanzi, la Fermo degli anni Quaranta e Cinquanta), dall’opera dell’esule di Oslo questa poesia sembra comunque ereditare una sorta di vibrante volontà di resistere sia alla smaterializzazione e all’imbarbarimento del mondo contemporaneo, sia alla disperazione individuale: non è una poesia elegiaca, quella che state per leggere, ma una lirica della decenza e della dignità, dove il cedimento al patetico è visto con sospetto e stoicamente rigettato dalla voce poetante: «Un altro anno è passato / Un altro anello dell’incerta catena / Finalmente, malinconicamente / Si è chiuso, Abbi fede, abbi fede / La canzone non è tutta cantata / La catena non si è ancora spezzata», dice un testo della Città lontana (Compleanno, p. 46), a cui rispondono a distanza l’allegoria di un albero che perde le foglie ma non le fronde («E ciascuna foglia sta dentro la sua vita / E quando cade la foglia / Non cade la fronda, l’albero non cade», da Semprevivi, qui a p. 182) o quella ingegneristica del ponte, la cui lunga campata travalica il momento di disperazione che affligge il soggetto incapace di comporre il numero di una persona amata e perduta: «Ma non c’è domani per me / Non c’è un posto che sia uno per me // Ma no, ma no, ma no, / È che stavo sotto un ponte, pensavo / Mi sentivo finito, ma era lunga la campata» (da Percy e Maria, suite en travesti inclusa in Semprevivi, p. 194).

 

Da questo triplice «Ma no», che nelle Tre raccolte appena pubblicate da Pequod acquista ancora più vigore e tenacia, venandosi persino di un’inedita screziatura di sarcasmo, si spalanca il doppiofondo dell’opera di Ruggieri: a chi lo saprà cogliere, ne siamo certi, questa poesia saprà donare al tempo stesso il guizzo della meraviglia e l’inquietudine della speranza.

 

 

 

[Immagine: particolare della copertina, una calcografia di Luca Mengoni].

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