di Federica Gregoratto

 

L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto

 

 

I’ ve been looking so long at these pictures of you
That I almost believe that they’re real
I’ve been living so long with my pictures of you
That I almost believe that the pictures
Are all I can feel

(The Cure, “Pictures of You”, Disintegration)

 

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole.

(Franco Fortini, “Traducendo Brecht”)

 

Amami ancora
fallo dolcemente

(Giovanni Lindo Ferretti, “Amandoti”)

 

 

 

Non sono una critica, almeno non letteraria, ma vorrei scrivere qualcosa di e a partire da un romanzo, Le ripetizioni di Giulio Mozzi, di cui ultimamente si è parlato tanto. Non ne scrivo perché ne parlano tutt*, anzi, questo dovrebbe distogliermi dal farlo, soprattutto se è un ambito non di mia competenza, perché avrei paura di dire qualcosa di banale, sbagliato, o ridondante.

 

A dire il vero, Le ripetizioni parla anche di qualcosa che rientra nella sfera delle mie competenze professionali, filosofiche, e che è anche il tema della mia rubrica. L’amore e il sesso, e il loro coté oscuro, non sono però nel libro un vero e proprio oggetto di indagine, quanto un mezzo o un’occasione per parlare e cercare di capire altro.

 

Ne scrivo, soprattutto, perché le parole di questo libro continuano a parlarmi, a ripetersi, nella testa – il romanzo si è impadronito di me, mi ha costretto a leggerlo in soli due giorni, continua a espandersi nei miei pensieri e a dominarli, spazzando via le altre incombenze – e il mio modo usuale per liberarmi da un’ossessione è cercare di imbrigliarla nel concetto. Di che parlano veramente queste ripetizioni?

 

In un’intervista, Mozzi afferma che il punto che gli interessava, soprattutto, non era la salvezza (come gli suggeriva l’intervistatrice Grazia Calanna), ma la (ri)nascita. In effetti, la nascita, che si ripete, è un tema centrale: gli eventi narrati dal protagonista Mario agli amici al bar (e tra questi amici c’è anche il narratore di cui leggiamo le parole) accadono tutti pressappoco il 17 giugno, il giorno del compleanno di Mozzi. L’opera del Gas (il Grande Artista Sconosciuto, amico improbabile di Mario) che viene descritta con più entusiasmo è una Nascita di Venere dove la dea rinasce dal (e nel) buio, in fattezze mostruose ma pur pregne di una qualche speranza (vana). Il terzultimo capitolo, “La storia della pelle”, non è una storia come le altre, ma un dialogo serrato, tra il poetico e il platonico, tra una specie di feto e delle “parole” che parlano, all’interno (in una “sfera-mondo”, l’utero materno, l’essere umano pieno e perfetto prima dell’intervento di Zeus nel mito pre-romantico di Aristofane nel Simposio – una condizione però qui saputa come già da sempre dubitante e divisa) e contemporaneamente chiamano dall’esterno. Il fulcro narrativo del libro, poi, è la nascita della presunta figlia di Mario, Agnese, una nascita che però non viene raccontata, rimane avvolta nel mistero: la madre, Bianca, si allontana da Mario appena rimane incinta e sparisce per anni.

 

Come riportato nella “Bottega di Poesia” di Gilda Policastro (“La forza del desiderio tra Bovary e Karenina”, 13.03.2021), Mozzi ci dice che il lavoro della letteratura è di tipo “ontologico”, consiste nel “far esistere”: una visione, una fantasia, comincia ad esistere, per chi la racconta e per chi la legge, non appena viene raccontata. La letteratura fa nascere le cose.

 

Ma Le ripetizioni non fa solo questo. Parla anche dell’esistenza umana, dell’esistere di coloro che hanno il potere di far nascere le cose, e di distruggerle. Quello di cui cerca di dare ragione il romanzo, mi pare, non è tanto il momento ineffabile e fondamentale di una nascita, o della possibilità, sempre abortita, di una rinascita (la possibilità di ‘iniziare una nuova vita’, del diventare un’altra persona, redimersi), quanto quello che succede dopo: una volta che siamo al mondo, come fare a continuare a esistere? Perseverare nell’esistenza non è facile o scontato, è un lavoro. L’esistenza, dice Kierkegaard (o uno dei suoi avatar) in La ripetizione, è affare di dibattito. Andare avanti a vivere – la ripetizione degli istanti, dei giorni, delle stagioni, dell’identità personale e collettiva – non avviene automaticamente, per necessità biologica o sociale (o non più, non per ‘noi’, non per tutti noi, forse ancora meno in tempi di pandemia e disastri ecologici).

 

Mozzi individua tre diverse strategie che spiegano il lavoro della ripetizione per continuare ad esistere. (L’intento non è consolatorio, psicologico. La questione non è tanto resistere alla seduzione della morte, del nulla. La domanda che esige risposta non è quella del perché o del senso dell’esistenza, ma del suo come.)

 

Immagini. Le ripetizioni è un fotolibro (con foto, però, che appaiono quasi solo nella forma della loro descrizione in parole). Mario è portato dal desiderio, per lo più inconscio, di stabilire il continuo della sua identità: mettere le mani dopo tanti anni sul suo ritratto in formato fototessera che aveva consegnato a Franco Vaccari durante una performance alla Biennale di Venezia negli anni ’70, visitata durante una gita scolastica, diventa per lui una questione vitale. Quasi che riconoscersi in un frammento del suo essere adolescente possa garantirgli di continuare ad andare avanti così, indisturbato. In uno dei capitoli finali, “La storia delle fototessere, 5 (La storia di Bianca, 7)”, nella casa dei suoi genitori, Mario ascolta un programma televisivo su Eugenio Montale, in cui il poeta dichiara: “Poco fa abbiamo letto una poesia in cui mettevo in dubbio l’esistenza reale del mondo. Ma dopo questa ora televisiva io mi devo convincere veramente che ho avuto un’esistenza non solo morale, psicologica, ma anche una vera esistenza fisica.” Mario non è sicuro se Montale non si stia prendendo gioco del conduttore e del pubblico. Lui, comunque, a differenza di Montale, ci dice, sarebbe sicurissimo della sua esistenza fisica, ma non di quella morale e psicologica. C’è da dubitare anche della sincerità di Mario (si veda anche “La storia del corpo”), il quale infatti, subito dopo, apre una vecchia scatola e si mette ad osservare vecchie fotografie, di Lucia, il suo primo amore, di se stesso, dei genitori, e un’altra fototessera, l’unica foto che lo ritrae insieme all’amata Bianca.

La strategia delle immagini, comunque, lascia a desiderare. Guardarsi e guardare gli altri nelle immagini non mette capo a niente, ci si riconosce non riconoscendosi, sfaldandosi, come la fototessera della sua carta d’identità che viene via, si sfalda, quando viene estratta dalla fodera di plastica trasparente nella reception dell’albergo. Prova a darne una spiegazione lo stesso Vaccari: “Perché lei confonde la realtà con le fotografie. Ci pensi. Che cos’è l’identità? È un qualcosa di così labile e sostituibile che può essere messo a rischio o confermato da un puro e semplice fatto fotografico? O è qualcosa che esiste, solidamente, di per sé?” Ma Vaccari si sbaglia, l’esistenza non è qualcosa di stabile e certo, nemmeno al di là delle sue ripetizioni fotografiche. L’esistenza non è, di per sé, a meno che non venga fatta esistere, come il Gas riesce a fare almeno una volta (e infatti una delle due foto che appare nel libro, prima dell’indice, è del dipinto di Claudio Laudani Discorso intorno a un sentimento nascente, che sarebbe anche il titolo della Venere mostruosa di Gas– ma è lo stesso quadro?). Oppure:

 

Scrittura. Parafrasando Fortini: Nulla è sicuro, ma racconta. In uno dei capitoli concettualmente centrali del libro, forse un capitolo di poetica, o almeno di auto-riflessione artistica, Mario, che in effetti è uno scrittore, spiega perché ha abbandonato la poesia, e perché legge ora romanzi lunghi (anche se all’inizio aveva confessato la sua tendenza a dimenticarsi le storie lette): “Ultimamente, Mario legge quasi esclusivamente romanzi lunghi perché nei romanzi lunghi sono raccontate con particolari abbondantissimi storie di una vita intera […] dove si sfugge all’elenco per entrare nella storia […], e infatti quasi tutti i romanzi lunghi che Mario legge hanno la forma di immaginari memoriali o di immaginarie autobiografie: racconti riepilogativi, conclusivi, risolutivi di una vita immaginaria, più precisamente: di una vita immaginata.” Le immagini si devono spiegare, dispiegare, in parole narranti (anche se il romanzo lungo di Mozzi non è per niente conclusivo o risolutivo, anzi. Però, come racconta Mario, anche raccontare “la storia della perdita […] della capacità di raccontare una storia” è importante, o è qualcosa). La poesia/non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi. Non solo la poesia non è trasformativa, non aiuta a vedere e a fare il bene, ma non riesce nemmeno a far continuare a essere le cose: Mario, dalla poesia, voleva imparare “a percepire le piccole porzioni di tempo e di spazio e di pensiero”, “una percezione parcellare” che “permetta di percepire tutte le irregolarità di un muro intonacato, tutti i pori della pelle di una guancia, tutti gli istanti di tempo di un viaggio in treno.” Tutte queste cose sono fatte di “parcelle, e tra l’una e l’altra c’è un vuoto, un intervallo nel quale tutto scompare, e poi ritorna, non identico, per poi ancora scomparire, e ancora non identico ritornare.” Ecco, questa capacità di percepire i frammenti, gli istanti, non basta, a Mario o a Mozzi: il raccontare deve raccontare il continuo, deve tessere i frammenti, anche se la tela, infine, non può essere che lacerata, orrida.

In questa strategia rientrano anche racconti che non riguardano il plot principale, come il racconto dell’infanzia in Friuli, della sagra, delle case, e quella più articolata, che flirta con la cronaca (e fa l’occhiolino magari ai romanzi-cronaca ora di moda), di tale Terrorista Internazionale. Ma se le storie non si tengono tutte tra loro, la volontà di coerenza viene comunque perseguita da Mozzi nel tentativo di ottenere una perfezione formale: la costruzione sapiente dei capitoli, a ripetere le storie, aggiungendo e dimenticando sempre qualcosa di essenziale, la scrittura che è un virtuosismo di contraddizioni, sempre allo stesso tempo controllata ma ipnotizzante, sobria e allucinata, realismo più impressionismo. Temo però che in questo voler compensare la sfasatura e lacunosità delle storie, riconducendole a un gergo unitario (il ragazzo di vita Santiago parla e scrive esattamente come l’intellettuale Mario?) sia da rinvenire una certa imperfezione dell’opera: come se la sua potenza concettuale venisse inibita dalla volontà, un po’ pedante, di imporsi come esempio perfetto di stile.

 

Amore. Amore che sembra poter essere, in qualche scorcio, possibilità di rinascita, ma che finisce per non essere altro che dominio/sottomissione e violenza. Le pagine più scabrose del libro hanno a che fare con la vita sentimentale di Mario, diviso tra un amore maledetto per Bianca, presunta schizofrenica e presunta madre di sua figlia, un amore sessuale sadomaso con il giovane Santiago, e un amore ‘normale’ con la morbida Viola, la donna che vorrebbe sposare, e che in segreto-ma-non-troppo intrattiene a sua volta relazioni sadomaso estremo, anche a pagamento, con una serie di uomini diversi da Mario, spesso senza volto. Mario è succube, incoscientemente (ma non del tutto), di Bianca, e molto coscientemente di Santiago, e decide di ignorare i desideri di sottomissione di Viola (incarnando, ripetendo, la logica maschilista patriarcale della divisione tra donna angelo e puttana). Vi sono poi alcuni indizi che alludono a una possibile (forse solo immaginata, una consolazione in cui Mozzi, con pietà, indugia) relazione con la figlia Agnese, in cui Mario rivestirebbe il ruolo opposto, quello del sadico dominante.

Nel capitolo “Una lettera”, Agnese scriverebbe al suo “papà”, rivelando al lettore la loro storia d’amore carnale. Il testo è shoccante (incesto, pedofilia), ma a leggerlo attraverso le lenti di una certa psicanalisi femminista può rivelare anche un nocciolo di verità critica: le bambine, e le donne, si sottomettono ai loro papà, ai loro uomini, per essere “guardate”, perché è questo sguardo che conferisce esistenza, permette di perpetrarla (anche se a costi enormi): “Tu non mi hai mai guardata, papà, e io ci ho messo un bel pezzo della mia vita fino adesso per accorgermene […] mentre ti amavo, io ero davvero convinta che tu mi guardassi, e tutto quello che mi facevi, io credevo che fosse il tuo modo di guardarmi”.

Mario nota i segni delle corde e delle frustrate sul corpo di Viola, ma non le vuole guardare. In un momento di visione tenera e speranzosa, Marco “appoggia il suo corpo sul corpo di Viola, la fronte sulla fronte di Viola. In quel momento ricorda tutti i sogni della propria vita, tutti insieme, ed è felice.” L’epifania è un momento di completezza dell’esistenza, in cui tutto si tiene, inconscio e conscio, presente e futuro, ma svanisce subito: “Viola, ridiventata uccello, rizza il ciuffo e vola via per la finestra aperta”. Mario lascia libera Viola, non vuole legarle le caviglie e i polsi e bendarla, ma questa non è libertà, e il serrarsi più oscuro delle catene.

Per inciso, questo non è un libro che racconta bene il BDSM come pratica autenticamente sessuale. Nella decisione di Mario di non accogliere i desideri oscuri di Viola, rimettendoli all’altro della loro vita in comune, c’è tutta la differenza tra una concezione del sesso ‘estremo’ e ‘deviante’ come decisamente problematico, e un tipo di sadomaso che può e dovrebbe essere positivo. Si può dire che nel romanzo il sesso (brutale, doloroso, punitivo) diventa lo specchio di qualcosa d’altro, di una serie di disagi, ma anche di una dinamica di sottomissione/dominio che è, prima ancora che sessuale, sociale (l’oppressione femminile – oppressione ritratta ma non tematizzata, che le donne de Le ripetizioninon sono artiste o scrittrici, ma solo oggetti di desiderio, ossessione, violenza – ma anche il bisogno di espiazione del maschio bianco privilegiato, che può vivere i suoi desideri omosessuali solo nel segreto di una stanza sporca e impersonale, teatro di violenze oscene).[1] Ma le scene sadomaso e D/S non sono necessariamente solo questo: come teorizzato in più luoghi, questi kinks possono in effetti aprire uno spazio separato dal resto della società, ove la ripetizione di dinamiche di dominio e violenza si fa imitazione riconfigurante e rigenerante della realtà, permettendo agli amanti di capire meglio e fare pace con i propri mostri, di sicuro senza cagnolini o bambine torturate e ammazzate.

A ben vedere, questa idea di una ripetizione (ri)generatrice del sesso ‘non vaniglia’ lampeggia in un momento con Bianca (nella sua storia n. 4). Mario intuisce, finalmente, quello che lei desidera, e che desidera anche lui, e che significherebbe la loro trasformazione: “Sa perfettamente che cosa vuole. Vuole prendere Bianca, prenderla con la forza … sa che si bagnerà immediatamente, appena lui la sbatterà faccia sul tavolo …sa che quando le toglierà la mano dal collo lei si volterà, sa che potrà tirarla a sé, sa che potrà stringerla, sa che potrà baciarla, sa che lei risponderà al bacio, sa che potranno perdersi, tutti e due, nel bacio…”. Bianca, che è quella dominante, aggressiva, violenta, dei due (poco prima, lei gli aveva mollato un ceffone, a cui Mario non aveva reagito), desidera invertire le parti, sentire che Mario non è una marionetta passiva nelle sue mani, che entrambi sono soggetti, agenti, capaci di farsi oggetto per l’altr* nell’amore: “Sai che cosa desideravo?” Gli chiede lei: “Desideravo, quando ti ho chiamato, che tu ti negassi. Che tu ti sottraessi …Qualunque cosa, purché non fosse la cazzata che avevo in mente io.” Bianca, Mario lo sa, farebbe resistenza, pur provando piacere, non rinuncerebbe alla sua volontà dominante, il piacere diventerebbe una lotta ad armi pari, una ripetizione a fasi alterne tra esercizio di potere e il cedere passivo ad un desiderio condiviso: “sa che potrà essere sua, Bianca, sa che potrà spezzarla, sa che lei gli si rivolterà contro, sa che il loro gioco potrà ricominciare, sa.” Anche questa volta, però, come con Viola, Mario lascia andare, non è questa la ripetizione che gli interessa.

Perché? Forse perché, come dicevo, il punto de Le ripetizioni non è di spiegare la ripetizione che, con uno scatto incomprensibile, un cortocircuito, fa essere la rinascita – quello che Kierkegaard pensa come l’evento della libertà, della trascendenza, come un temporale che scroscia all’improvviso. La ripetizione deve dare conto, prima di tutto, della perpetuazione, non della trasformazione dell’esistenza. Ed è, allora, il sottomettersi all’oggetto del desiderio che garantisce lo stare in vita, e questo è, se non il massimo, già tanto. Tanto da garantire addirittura un po’ di felicità, almeno secondo il sadico Santiago: “io sono l’unica chance che tu hai per avere un briciolo di felicità in questa vita di merda, un briciolo di umanità nel tuo corpo di merda”. Santiago è il personaggio più intelligente e consapevole del romanzo, ancorché il più cattivo, anche se lui, di sé, nella sua lettera a Mario, dice di non essere “né buono né cattivo”, e in un certo senso ha ragione, che la sua funzione non è normativa, o morale, o consolatoria, non è quella di dare felicità, ma garantire la tenuta dell’essere di Mario (anche se, per Kierkegaard, un altro modo della ripetizione è quello del ripetersi del momento felice, che gli da’ consistenza). In fondo, Santiago è colui che conosce il protagonista meglio di chiunque, è l’unico che conosce tutte le sue storie. Per lui, Bianca sbaglia a scocciarsi per la natura sottomessa di Mario (o, aggiungo io, a volere l’utopia, la reciprocità di soggetto-oggetto), dovrebbe invece prendersi carico, come fa lui, del lavoro del dominio. Anche lei, come Mario, non capisce che il dominio dell’altro è un modo per collegare le cose, e le parole, anche per riuscire a tenere in vita una persona. In un foglietto scritto apparentemente da Viola, lei si spiega infatti così i suoi desideri di sottomissione: il desiderio di “essere presa, sottratta a me stessa, legata, messa in una gabbia…” è una risposta all’incubo del cadere nel buio, “nel vuoto nero, nello spazio dove non c’è più niente, verso i confini dell’universo, dove c’è solo la sparizione, il freddo, l’oscuro, il nulla”.

 

In una pagina romantica e tragica, Mozzi fa confluire per un attimo le tre strategie. Mario è a casa di Bianca, in sua assenza, fruga tra le sue cose, trova ed esamina delle fotografie. Ne trova una anche sua, che gli aveva scattato lei in un momento felice. Si commuove. Mentre osserva la propria immagine attraverso gli occhi di Bianca, “si commuove come quando, a volte, gli è capitato di commuoversi guardando Bianca”. Pensa al suo guardare Bianca, uno sguardo che è diverso da quello di dominio (su Agnese) e di quello che non vuole vedere (i segni sul corpo di Viola). Prende un bloc-notes e comincia a scriverne, a raccontare la bellezza speciale, per lui e solo per lui, di Bianca. Ma si interrompe di lì a poco: “come si fa a dire la bellezza di una persona, quando la bellezza di questa persona ti toglie la parola, ti fa desiderare più di tutto restare lì a guardarla oppure di chiudere gli occhi per trattenere per sempre l’immagine”. Ancora un bagliore di utopia, aprendo gli occhi, uscendo dal sogno, o portando il sogno nel “mondo reale”, spaginandolo lì: “il sogno sarà come una doppia vista che ci farà vedere l’interno delle cose, al di là della bruttezza”, del male, un mondo trasformato ma in fondo niente di speciale, un non-luogo realizzabile, “solo essere vivi, liberi, amanti.” Ma Mario, ancora e ancora, decide – il suo lasciarsi trasportare dalle cose, senza decidere, è una decisione per le ripetizioni senza scatto in avanti, o di lato, nell’altrove – di tornare da Viola, che con Bianca è tutto finito. Eppure, continua a raccontarne, del baluginare della bellezza che sorge dall’orrore, dell’ombra del bene che si allunga nella scrittura del male.

 

[in copertina: “The Birth of Venus”, di Adolph Hirémy-Hirschl]

 

 

[1] Non mi si fraintenda. Non sto dicendo che Le ripetizioni è un romanzo femminista. Per lo più, è molto non femminista. Eppure, a volte i contenuti più interessanti per una riflessione femminista vengono da altri luoghi, oscuri e problematici.

2 thoughts on “Modi della ripetizione

  1. Premetto che non ho letto il libro, ma un romanzo che sommi bondage, sadomasochismo, incesto, pedofilia in unico essere umano sembra avvicinarsi più ad un trattato di psichiatria… detto con leggerezza e buona lettura a tutti!

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